Mentre vi riposate e io corro per il mondo, potreste almeno leggervi il terzo capitolo del libro, e magari segnalare sul blog i punti che vi interessano e quelli sui quali avreste voluto un maggiore approfondimento.
Salve a tutti! Nell'ultima lezione ci ha incuriosite il libro citato dal Prof.,"Stato di eccezione" di Giorgio Agamben.Abbiamo subito notato che come "dedica" l'Autore ha rivolto un interrogativo ai giuristi: QUARE SILETIS JURISTAE IN MUNERE VESTRO? Si impone così in modo "prepotente" la riflessione sullo stato di eccezione,che in primo luogo viene definito come paradigma di governo.Agamben ricorda come Carl Schmitt abbia fissato l'essenziale contiguità tra lo stato di eccezione e la sovranità con la sua celebre definizione del sovrano: "colui che decide sullo stato di eccezione"(Politische Thelogiche,1922).Altri autori ritengono che l'eccezione si fondi sullo stato di necessità rifacendosi all'antica massima NECESSITAS LEGEM NON HABET,ma la definizione stessa del termine è resa difficile dal suo situarsi al limite tra la politica e il diritto."Di fronte all'inarrestabile progressione di quella che è stata definita una "guerra civile mondiale",lo stato di eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea",ed anzi lo stato di eccezione si presenta come una soglia di indeterminazione tra democrazia e assolutismo.All'incertezza del concetto corrisponde l'incertezza terminologica.Infatti questo termine,comune nella dottrina tedesca AUSNAHMEZUSTAND,ma anche NOTSTAND,stato di necessità,è estraneo alle dottrine italiana e francese,in cui figurano termini quali decreti d'urgenza e stato di assedio,mentre nella dottrina anglosassone prevalgono termini come "martial law" ed "emergency powers".Ma l'Autore dopo un lungo excursus sui problemi terminologici e concettuali relativi allo stato di eccezione ricorda un'affermazione densa di significato: "lo stato di eccezione...è diventato la regola"(W.Benjamin);quindi non è misura eccezionale come potrebbero suggerire i termini su menzionati. Nel progetto dell'attuale Costituzione italiana era stato inserito un articolo che sanciva: "Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione,la resistenza all'oppressione è un diritto e un dovere del cittadino".La proposta incontrò forti opposizioni e alla fine prevalse l'opinione che fosse impossibile regolare giuridicamente qualcosa che,per sua natura,si sottraeva all'ambito del diritto positivo.Al contrario nella Costituzione della Repubblica federale tedesca vi è un articolo,l'art. 20,che afferma "contro chiunque tenti di abolire quell'ordine (la cotituzione democratica),tutti i tedeschi hanno un diritto di resistenza,se altri rimedi non sono possibili",legalizzando senza riserve il diritto di resistenza.(Silvia Codispoti e Giovannina Damiani) .....Continua.....
....Continua.... Un'opinione ricorrente pone a fondamento dello stato di eccezione il concetto di necessità.Secondo un adagio latino NECESSITAS LEGEM NON HABET,la necessità non ha legge,che viene inteso nei due sensi opposti: "la necessità non riconosce alcuna legge" e "la necessità crea la sua propria legge". Il principio secondo cui NECESSITAS LEGEM NON HABET ha trovato la sua formulazione nel DECRETUM di Graziano.Esso vi compare due volte: una volta nella glossa e un'altra nel testo.La glossa,che si riferisce ad un passo in cui Graziano si limita genericamente ad affermare che "molte cose per necessità o per qualsiasi altra causa sono compiute contro la regola"(pars I,dist. 48),sembra attribuire alla necessità il potere di rendere lecito l'illecito (SI PROPTER NECESSITATEM ALIQUID FIT,ILLUD LICITE FIT:QUIA QUOD NON EST LICITUM IN LEGE,NECESSITAS FACIT LICITUM.ITEM NECESSITAS LEGEM NON HABET).Ma in che senso ciò vada inteso,si capisce meglio dal testo successivo di Graziano (pars III,dist.I,cap.II),che si riferisce alla celebrazione della messa.Dopo aver precisato che il sacrificio deve essere offerto sull'altare o su un luogo consacrato,Graziano aggiunge: "E' preferibile non cantare nè ascoltare la messa,che celebrarla nei luoghi in cui non si deve celebrarla;a meno che ciò non avvenga per una suprema necessità,perchè la necessità non ha legge" (NISI PRO SUMMA NECESSITATE CONTINGAT,QUONIAM NECESSITAS LEGEM NON HABET).Più che rendere lecito l'illecito,la necessità agisce qui come giustificazione di una trasgressione in un singolo caso specifico attraverso un'eccezione. Tommaso d'Aquino,nella SUMMA THEOLOGICA,commenta questo principio proprio in relazione al potere del principe di dispensare dalla legge: "Se l'osservanza della legge secondo le parole non implica un pericolo immediato,a cui bisogna subito porre rimedio,non è nel potere di un uomo qualsiasi interpretare che cosa sia utile o nocivo alla città;ciò è competenza esclusiva del principe,che in un caso del genere ha l'autorità di dispensare dalla legge.Se vi è,però,un pericolo improvviso,rispetto al quale non vi sia il tempo di ricorrere a un superiore,la stessa necessità porta con sè una dispensa,poichè la necessità non soggiace alla legge (IPSA NECESSITAS DISPENSATIONEM HABET ANNEXAM,QUIA NECESSITAS NON SUBDITUR LEGI)". (Silvia Codispoti e Giovannina Damiani) ....Continua....
....Continua.... La teoria della necessità è qui nient'altro che una teoria dell'eccezione (DISPENSATIO),in virtù della quale un singolo caso è sottratto all'obbligo dell'osservanza.La necessità non è fonte di legge e nemmeno propriamente sospende la legge;essa si limita a sottrarre un singolo caso all'applicazione letterale della norma.Il fondamento ultimo dell'eccezione non è qui la necessità,ma il principio secondo cui "ogni legge è ordinata alla salvezza comune degli uomini,e solo per questo ha VIM ET RATIONEM LEGIS (forza e ragione di legge);se viene meno a ciò,VIRTUTEM OBLIGANDI NON HABET (non ha efficacia obbligatoria)". Un caso di disapplicazione della legge EX DISPENSATIONEM MISERICORDIAE si trova in Graziano in un passo in cui afferma che la Chiesa può omettere di sanzionare una trasgressione nel caso in cui il fatto trasgressivo sia già avvenuto (PRO EVENTU REI: ad esempio nel caso in cui una persona che non poteva accedere all'episcopato sia già stata di fatto consacrata vescovo).Qui paradossalmente la legge non si applica proprio perchè l'atto trasgressivo è effettivamente già stato compiuto,ma la sua sanzione implicherebbe conseguenze negative per la Chiesa.L'eccezione medievale rappresenta in questo senso un'apertura del sistema giuridico a un fatto esterno,una sorta di FICTIO LEGIS per cui,nell'esempio suddetto si fa come se l'elezione del vescovo fosse stata legittima.Lo stato di eccezione moderno è,invece,un tentativo di includere nell'ordine giuridico la stessa eccezione,creando una zona di indistinzione in cui fatto e diritto coincidono. (Silvia Codispoti e Giovannina Damiani) ....Continua....
....Continua.... Nel III cap. del libro,Agamben si occupa di un istituto del diritto romano che si può considerare come l'archetipo del moderno AUSNAHMEZUSTAND,il IUSTITIUM.Il termine IUSTITIUM,costruito esattamente come SOLSTITIUM,significa letteralmente "arresto,sospensione del diritto": QUANDO IUS STAT SICUT SOLSTITIUM DICITUR,IUSTISTIUM si dice quando il diritto sta fermo,come (il sole nel) solstizio,ovvero,nelle parole di Aulo Gellio,IURIS QUASI INTERSTITIO QUAEDAM ET CESSATIO,quasi un intervallo e una specie di cessazione del diritto.Esso implicava una sospensione non semplicemente dell'amministrazione della giustizia,ma del diritto come tale,e ciò consiste nella produzione di un vuoto giuridico. Il capitolo termina con i risultati di questa "inchiesta genealogica" sul IUSTITIUM: 1)Lo stato di eccezione non è una dittatura,ma uno spazio vuoto di diritto,una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche sono disattivate.False sono dunque quelle dottrine che cercano di collegare lo stato di eccezione al diritto e anche quelle,come la dottrina di Schmitt,che cercano di iscrivere mediatamente lo stato di eccezione in un contesto giuridico,attraverso lo stato di necessità.Ma lo stato di necessità non è uno "stato di diritto" ma uno spazio senza diritto. 2)Questo spazio vuoto del diritto sembra essere così essenziale all'ordine giuridico,anche se apparentemente il vuoto giuridico,che è lo stato di eccezione,sembrerebbe impensabile per il diritto. 3)Gli atti commessi durante il IUSTITIUM sembrano situarsi in un assoluto non-luogo,non essendo nè trasgressivi,nè esecutivi,nè legislativi. L'Autore conclude evidenziando che lo stato di eccezione ha oggi raggiunto il suo massimo dispiegamento planetario.L'aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale,che ignora all'esterno il diritto internazionale e produce all'interno uno stato di eccezione permanente,pretendendo addirittura di stare ancora ad appliccare il diritto! Silvia Codispoti e Giovannina Damiani.
RINNOVAMENTO RIVESTITO DI ANTICHITA’ Vogliamo intitolare così il nostro intervento, perché questa è la frase che più ci ha colpito leggendo il terzo capitolo del nostro libro di testo. In effetti, appare un ossimoro “rinnovamento-antichità” e sembra molto strano pensare a un ritorno a Giustiniano come ad un rinnovamento! Assistiamo qui alla rievocazione dei principi del possesso romano dopo che, nell’Alto-medioevo, questa parola fu oscurata da quella germanica “Gewere”. La Gewere, ci è sembrato di capire, si possa tradurre letteralmente “vestire” e per questo riportabile alla traduzione latina di VESTITURA. Questa “vestitura” aveva luogo quando un soggetto, spogliato dei propri beni o poteri, ne veniva poi reintegrato, si può parlare, quindi, di un atto di restituzione. La vestitura era intesa perciò come premessa indispensabile per l’esercizio dell’azione di spoglio. Abbiamo trovato un esempio, risalente all’VIII secolo, di Gewere germanica, utile per spiegare la Gewere come una situazione di legittimazione. La fonte è la “Lex Ripuaria” così chiamata perché era la legge dei Franchi Ripuari, così chiamati perché stanziati lungo le “ripe” del Reno. Il passo in latino, che abbiamo letto, è relativo al trasferimento di immobili o appunto “possessiunculae”. Detta legge prevedeva che si assumessero come testimoni del trasferimento della titolarità reale alcuni bambini e, contestualmente al rito di trasferimento, li si schiaffeggiasse perché potessero serbare memoria anche in futuro di una simile, sgradevole e dolorosa evenienza. Evidentemente, tutta la situazione era preordinata ad una anomala, ma sentita esigenza di pubblicità ‘immobiliare’ ed alla necessità di una sua proiezione nel tempo a venire: si usavano i bambini come testimoni perché avrebbero vissuto più a lungo di altri testimoni più anziani e si infliggeva loro, quindi, una sofferenza che potesse imprimere nella loro memoria, anche per gli anni della maturità e della vecchiaia, il ricordo di quanto si voleva documentare e cioè la costituzione di un rapporto di Gewere, la cui essenza, per l’appunto, consisteva nel protrarsi nel tempo della prova (del titolo) di una legittimazione d’uso, alla cui stabilità nel tempo non soccorrevano elementi soggettivi quali l’animus od altre connotazioni e vicende tipiche della possessio romanistica. Questo è il quadro di come appare la Gewere nell’Alto-medioevo. Tutto ciò era destinato a cambiare nell’XI secolo con il ricorso all’autorità dei testi antichi ed ecco perché il professore parla di “rinnovamento rivestito di antichità”. A quest’opera contribuì Aimerico, cancelliere di Santa Romana Chiesa, che riteneva che i principi di diritto romano coincidessero con quelli di diritto divino e per questo chiese a Bulgaro di redigere un trattato sulle azioni romane. Questo rinnovamento del XII secolo si può sintetizzare con la seguente formula: l’azione rivela il diritto e solo il diritto dà luogo all’azione! Il nuovo possesso, quindi, non aveva più nulla a che fare con la vecchia “vestitura” dell’Alto-medioevo, infatti, insieme alla buona fede e all’idoneità della cosa ad essere posseduta, si riprende in considerazione l’elemento psicologico: l’animus possidendi, che era passato invece in secondo piano durante il periodo precedente. Possiamo perciò dire che si ritorna alla possessio romana, intesa come situazione di fatto con i suoi elementi oggettivi e soggettivi, e che si formulano le proprie azioni attraverso le proprie pretese. E' questa la strategia messa in atto dai giuristi dell’XI e XII secolo chiamati ad essere i legali nelle più importanti cause dell’epoca e ad ottenere la vittoria in tribunale, attraverso la raffinatezza dei testi di Giustiniano.
Nelle precedenti lezioni abbiamo fatto riferimento all’Umanesimo Giuridico e al fenomeno della Scuola Culta ;trovando tali argomenti interessanti ho cercato di fare un panorama generale del fenomeno e di riassumere alcuni passi del libro “Gli inizi dell’umanesimo giurico” di Domenico Maffei consigliato recentemente dal Professore.
La Scuola Culta è un movimento dottrinale di giuristi che operarono verso la fine del Medioevo per il rinnovamento del diritto allora vigente al fine di comporre una "culta giurisprudenza" filologicamente coerente con le sue radici storiche giustinianee. Nel XV secolo alcuni umanisti notarono infatti che il testo del Digesto utilizzato nella scuola e nella prassi era pieno di errori e che sarebbe stato opportuno correggerlo ricorrendo al manoscritto più antico all’epoca disponibile: la famosa Lìttera Pisana (divenuta Florentina, o anche nota come Pandette Fiorentine, a seguito della conquista di Pisa da parte di Firenze. A letture successive, ed in un'ottica più strettamente giuridica, si è potuto riassumere il problema affrontato dalla Scuola Culta come la degradazione del Corpus di istituti giustinianei attraverso la sempre più possente infiltrazione della Glossa, l'interpretazione, a scapito della lettera del testo: come sintetizzato da Paolo Grossi, "il testo giustinianeo altro non è se non un chiodo piantato nel muro, al quale si attacca un filo del tutto autonomo rappresentato dall'interpretatio”. L'errore, sotto un profilo giuridico, nasce allora quando si verificano casi di susseguenze di interpretazioni (pur talvolta indispensabili, come nei casi di incoerenze fra passi dello stesso Digesto) che portano alla fine ad estrema distanza o contraddizione rispetto alla lettera del Corpus Iuris; per esempio, nell'epoca in cui si richiedeva il consolidamento del diritto feudale e con questo prendeva corpo la teoria del dominio diviso, effetto di mera interpretazione creativa, il problema si faceva di grande rilevanza. Ciò anche se l'attività dei glossatori, fiorita intorno all'XI secolo, si era poi ridimensionata sino a pressoché esaurirsi nella metà del XIII secolo, allorché Accursio, pubblicando e facendo circolare la sua Magna Glossa, in pratica aveva codificato, consolidandola, la massa delle interpretazioni correnti.
La contrapposizione fra un diritto strettamente ancorato alla lettera del testo ed uno invece dipendente dall'interpretazione, era stata resa celebre dagli allievi di Irnerio, Bulgaro e Martino, proprio al sorgere dell'ondata glossatoria dell'XI secolo. Si erano avuti dunque alcuni secoli in cui l'interpretazione aveva guadagnato terreno, salvo arrestarsi nel suo procedere per l'azione stabilizzatrice di Accursio. La Scuola Culta tendeva, perciò, al recupero di una sorta di ortodossia giustinianea (ed oltre l'imperatore direttamente riferita al diritto romano "puro"), e ad una riabilitazione del dogmatismo, ribaltando la prevalenza assunta nel frattempo dal disinvolto diritto giurisprudenziale, che massimamente di glossa si nutriva e non più del testo, e per questo teneva per faro la luce antica dei manoscritti conservati in Toscana. Molti giuristi aderirono a questa ventata innovatrice, che innovava guardando all'antico. Fra i primi giureconsulti filologi italiani ci furono Emilio Ferretto, ravennate, ed Andrea Alciato, milanese. All'estero si notarono i contributi di Guillaume Budé (francese), dell'alemanno Ulrich Zasius e del portoghese Goveano, allievo del Ferretto. Circa l'importanza dei rispettivi apporti, il Forti éleva l'Alciato un buon gradino sopra gli altri, anche per la sua influenza indiretta sulla Scuola di Bourges, il più importante fra i circoli di questa nouvelle doctrine e quello in cui operò il Duareno (François Douaren), quasi un allievo dell'Alciato stesso. Sempre in Francia, ma critico nei riguardi della Scuola culta, cui pure apparteneva, François Hotman fu uno dei principali detrattori dell'opera di Triboniano, compilatore del Corpus Iuris, nonché dell'insegnamento nozionistico-mnemonico del diritto. Jacques Cujas si interessò anch'egli di Triboniano, del quale analizzò l'opera alla ricerca di quei passaggi nei quali il diritto romano autentico era stato modificato. Incuriosita dall’argomento in questione ho deciso di leggere il libro “Gli inizi dell’umanesimo giuridico” di Domenico Maffei e sfogliandolo si evince facilmente come gli esponenti della Scuola Culta non perdessero occasione di mettere in rilievo il basso livello degli studi giuridici, la confusione, l’assenza di ogni retto criterio interpretativo delle leggi romane. Parole nelle quali è vivo il senso della polemica caratterizzante la fine del XIV sec e tutto il XV sec,contro la giurisprudenza Medievale condotta dagli umanisti senza esclusione di colpi. Ai Glossatori e ai Bartolisti si rimproverava imperizia e superficialità ,mancanza di buona cultura letteraria,poca ed erronea intelligenza dei testi e molto altro ancora. Questi giudizi,o più propriamente insulti , sono contenuti nel catalogo della biblioteca di Cuiacio. Alle accuse più volgari alla scienza giuridica medievale i Culti,irritati dalla persistenza del “mos italicus”,che cercavano di scalzare dalle università e dai tribunali, non giunsero però che nel XVI sec.
Addirittura il Petrarca puntò il dito contro quell’insufficienza della giurisprudenza del suo tempo,egli lamentava nella “Epistolae de rebus familiaribus”..”La maggior parte dei nostri legisti poco o nulla curando il conoscersi delle origini del diritto,e dei primi padri della giurisprudenza , né ad altro fine mirando che a trar guadagno dal suo mestiere , stassi contenta ad apparare quello che dei contratti, dei giudizi, dei testamenti della legge sta scritto ,e non pensa il conoscersi delle arti ,e i primordi e gli autori è di aiuto grandissimo all’uso pratico delle medesime.” Aldilà di questi spunti critici sembra molto più rilevante quello che scrisse nella “Lettera ai posteri” in cui precisa che il diritto che quei giuristi andavano senza scienza applicando era per lui dilettevole studiare perché saturo di quelle antichità romane delle quali egli era ammiratore. Accanto al Petrarca si aggiunge anche Boccaccio nelle cui opere ritornano le accuse alla classe forense e agli avvocati “che si industriano di far leggi e poi di contraffarle e di darne contrastanti interpretazioni,che provano e perpetuano litigi abusando sfacciatamente della loro conoscenza del diritto”.Le critiche degli umanisti sembrano fondarsi non solo sull’insufficienza della metodologia giuridica corrente ma prendono a rifermento anche la funzione assunta dal diritto nella vita della società civile fondata sul diritto. Nel Quattrocento, uno dei maggiori critici della scienza giuridica medievale fu Lorenzo Valla ,che nel suo “Libellum” , attaccò ferocemente un giurista per aver ritenuto un trattato,il “De insigniis et armis” di Bartolo, superiore a qualsiasi scritto di Cicerone. Anche per il Vegio la colpa della decadenza degli studi giuridici deve esser fatta risalire direttamente a Triboniano che se non avesse deturpato la giurisprudenza classica,questa non sarebbe stata trascurata e sostituita dai confusi commentari di Bartolo e degli altri interpreti. Col Valla e col Vegio è buttato così il seme dell’antitribonianismo che si confonde poi con quello della polemica contro la giurisprudenza medievale. Una ferma esortazione a ritornare allo studio delle fonti pure del diritto romano sale,nello stesso giro d’anni,dall’ambiente umanistico fiorentino,infatti, Ambrogio Traversari in una lettera indirizzata al Porcari lo ammonisce sull’opportunità di lavorare direttamente sulle fonti,trascurando glosse e commenti. Nonostante il Budeo, influenzato dal Valla e dal Poliziano, si scagliò contro Glossatori e Commentatori definendoli uomini appartenenti all’ “Accursiana setta” non fu costante nei suoi giudizi infatti ebbe parole di ammirazione per il grande giurista Bartolo e distinse tra Accursio e i suoi seguaci,giustificando il primo per i tempi in cui viveva e criticando aspramente i secondi per l’anacronismo del metodo usato. Tra i critici del sistema giuridico in parola va sicuramente ricordato anche Claudio Tolomei che con il suo “ De corruptis verbis iuris civilis dialogus” instaura un acceso dibattito tra il Giason Maino, uno degli ultimi e più chiari maestri del metodo dei Commentatori, e il Poliziano,considerato dai Culti “il primo insigne maestro che alla scienza del diritto applicò la cultura e la dottrina filologica”.
Il Poliziano sembra avere la meglio provandogli in 66 paragrafi gli errori degli interpreti e come essi deturpino il pensiero degli antichi. A completare il quadro delle manifestazioni polemiche contro gli interpreti medievali,anteriori alla Scuola Culta francese,sono Andrea Alciato e Ulrico Zasio. Entrambe si staccano nettamente dal coro generale contro i giuristi dell’età di mezzo in quanto i loro giudizi su Accursio,Bartolo,Baldo e gli altri maestri del diritto medievale sono quasi sempre positivi. Come Alciato anche Zasio si propone essenzialmente di liberare il Corpus Iuris dall’apparato che gli era cresciuto intorno ad opera della giurisprudenza del medioevo:sua ispirazione è,come scrive Cantiuncula nel 1518,di riportare la fonti romane alla loro primitiva purezza e di eliminare le erronee interpretazioni dei testi. Dall’ Alciato in poi la questione dell’umanesimo giuridico italiano si sposta in Francia,dove, della polemica comincia a farsi quasi una questione di nazionalità,contrapponendosi un “mos gallicus iuris docendi ac discendi” ad un “mos italicus”; proprio in Francia la ricostruzione storica del diritto romano procede con grande vigore e speditezza ,accentuandosi così il distacco della nuova dalla vecchia posizione metodologica rispetto al Corpus Iuris.
-Wikipedia: -Borgo Dal Borgo, Dissertazione sopra l'istoria de' codici pisani delle Pandette di Giustiniano imperatore, Lucca, 1764. -Megliorotto Maccioni, Osservazioni e dissertazioni varie sopra il diritto feudale, concernenti l'istoria e l'opinioni di Antonio da Pratovecchio, Livorno, 1764. -Francesco Forti, Istituzioni di diritto civile, accomodate all'uso del foro, Eugenio & F. Cammelli, Firenze, 1863. -Arrigo Brencmanno, Historia Pandectarum, Trajecti ad Rhenum, 1722.
Il Poliziano sembra avere la meglio provandogli in 66 paragrafi gli errori degli interpreti e come essi deturpino il pensiero degli antichi. A completare il quadro delle manifestazioni polemiche contro gli interpreti medievali,anteriori alla Scuola Culta francese,sono Andrea Alciato e Ulrico Zasio. Entrambe si staccano nettamente dal coro generale contro i giuristi dell’età di mezzo in quanto i loro giudizi su Accursio,Bartolo,Baldo e gli altri maestri del diritto medievale sono quasi sempre positivi. Come Alciato anche Zasio si propone essenzialmente di liberare il Corpus Iuris dall’apparato che gli era cresciuto intorno ad opera della giurisprudenza del medioevo:sua ispirazione è,come scrive Cantiuncula nel 1518,di riportare la fonti romane alla loro primitiva purezza e di eliminare le erronee interpretazioni dei testi. Dall’ Alciato in poi la questione dell’umanesimo giuridico italiano si sposta in Francia,dove, della polemica comincia a farsi quasi una questione di nazionalità,contrapponendosi un “mos gallicus iuris docendi ac discendi” ad un “mos italicus”; proprio in Francia la ricostruzione storica del diritto romano procede con grande vigore e speditezza ,accentuandosi così il distacco della nuova dalla vecchia posizione metodologica rispetto al Corpus Iuris.
FONTI: -Gli inizi del'umanesimo Giuridico,Domenico Maffei,Giuffrè editore,1972. -Wikipedia: -Borgo Dal Borgo, Dissertazione sopra l'istoria de' codici pisani delle Pandette di Giustiniano imperatore, Lucca, 1764 . -Megliorotto Maccioni, Osservazioni e dissertazioni varie sopra il diritto feudale, concernenti l'istoria e l'opinioni di Antonio da Pratovecchio, Livorno, 1764. -Francesco Forti, Istituzioni di diritto civile, accomodate all'uso del foro, Eugenio & F. Cammelli, Firenze, 1863. -Arrigo Brencmanno, Historia Pandectarum, Trajecti ad Rhenum, 1722 .
Salve a tutti… Nella lettura del 3° capitolo del nostro libro, ho trovato interessante soffermarmi su un testo di C.A. Cannata, “Possessio possessor possidere nelle fonti giuridiche del basso Impero romano”, Milano, 1962, che ho trovato in biblioteca. Uno degli impieghi più frequenti del termine possessio nelle fonti post-classiche, è quello che sta ad indicare il fondo, o più propriamente il latifondo. Come ebbe a precisare lo Schulten, “possessio hat eiene juristische, latifundium eine agrarische Grundbedeutung”. Questo significato è tecnico, benché non vada considerato, il suo, un tecnicismo propriamente giuridico, ma piuttosto paragiuridico, simile a quello di termini come suppellex o penus. L’uso di possessio per indicare i latifondi è abbastanza antico. A quanto risulta dalla lettura di Festo, e, più esplicitamente di Isidoro, l’origine di quest’uso va ricercata nei rapporti privati sull’ager publicus. Quando poi, in seguito alle assegnazioni, i terreni assegnati restavano di notevole estensione, cioè non erano divisi, il termine possessiones che li designava, continuava ad essere usato, anche se il loro possessore aveva ormai su di essi la proprietà. Così si spiega il “publici privatique” di Festo. Ma accanto a quest’uso tecnico di possessio (in origine, soprattutto al plurale, possessiones), ve n’era un altro, volgare, strettamente analogo. Il vocabolo, propriamente al singolare questa volta, è usato per indicare non il latifondo, ma un fondo qualsiasi. Quest’uso fu dapprima contrastato dai giuristi, che si preoccupavano delle confusioni cui esso poteva dar luogo. Il passo di Festo non è strutturato in modo del tutto logico, poiché in esso si salta bruscamente da un discorso sulla terminologia ad un discorso sulla sostanza; tuttavia s’intuisce il preciso chiarimento che il giurista Elio Gallo intendeva fornire. Possessio, si dice, indica un certo rapporto con un fondo, e non il fondo stesso; la possessio non è, infatti, una res, e chi può dire di avere la possessio di una cosa non è per ciò stesso in condizione di affermare che la cosa è sua. Chi afferma spettargli la possessio di una cosa, non può esperire, per farsi riconoscere tale pretesa, un’azione civile, rivendicando la possessio come “suam ex iure Quiritium”, ma deve ricorrere alla tutela interdittale. Quando i romani ed in particolare i loro giuristi nominavano in un discorso a carattere giuridico, una res, la pensavano come oggetto di proprietà, anzi più esattamente, la vedevano dal punto di vista del diritto di proprietà su di essa. Il pensiero di Elio Gallo, nel testo di Festo, è legato a questo punto di vista; “V’è chi, avrebbe egli potuto scrivere, usa dire ‘possessio mea est’ e simili, quando dovrebbe dire ‘fundus meus est’ ecc. Ebbene, io lo avverto che, con quelle parole, dice tutt’altro, poiché se la possessio è sua, non è detto lo sia anche la proprietà”. Lo stesso punto di vista è presente in un testo di Giavoleno. La comprensione del frammento offre qualche difficoltà, poiché in esso si notano incongruenze poco chiare. Il punto che più qui ci interessa, è la distinzione fra possessio e ager per il modo come è posta. Non è da escludere che anche Giavoleno, come già Festo, attingesse ai “libri de verbo rum quae ad ius civile pertinent significatione” di Elio Gallo. Anch’egli infatti è sempre sul confine dell’equivoco tra possessio come termine e possessio come rapporto. Quando, ripetendo quasi le parole di Festo (Gallo), dice “possessio ergo usus, ager proprietas loci est”, egli considera possessio come rapporto, mentre ove dice “quid enim adprehendimus etc hoc possessionem appellamus” parla di possessio come res. Il giurista esprime testualmente quella posizione mentale di cui sopra, quando si diceva che per i romani nominare una res è prenderne in considerazione la proprietà. ...Continua...
...Vedi sopra... E’ questo modo di vedere che dà ragione della differenza tra possessio e ager, impostata da Giavoleno: poiché possessio è l’usus, ager la proprietas, per ager s’intende un fondo di cui si ha la proprietà, mentre con possessio ci si riferisce ad un fondo di cui non si ha la proprietà, o perché di fatto non c’è, o perché, per la natura del fondo, non può giuridicamente spettare: evidente allusione ai terreni dei municipia e ai fondi provinciali. Così dunque i giuristi tentavano di combattere la terminologia volgare che chiamava possessio il fondo; quel che è curioso è che essi talora sembrano proprio, nei loro discorsi, risentire dell’equivoco per evitare il quale si adoperavano: essi volevano distinguere la res dalla possessio della res, ed equivocano tra la possessio come res e la possessio come rapporto. Prescindendo da questo, la conclusione che possiamo trarre dai due brani di Festo e Giavoleno è la seguente: si eviti di indicare come possessio “ipse fundus”, a meno che non si tratti di un fondo sul quale non abbiamo il diritto di proprietà. Pertanto: con “habeo agrum”, si vuole dire che si è proprietari; con “habeo possessionem” si indica come titolare di un diritto di uso su di un fondo di cui non si ha la proprietà. Ma dopo il secondo secolo questi sforzi dei giuristi paiono aver ceduto. L’uso di possessio per indicare i fondi e la proprietà su di essi doveva essere talmente comune, che ai giuristi non restò ad un certo punto, che prenderne atto. Nel primo dei Fragmenta Vindobodensia delle istituzioni di Ulpiano si trova un sorprendente impiego di possessiones come equivalente, a quanto pare, di “cose immobili”. Possessione et res pare indubbio stia per “cose immobili e mobili”: si nota il chiaro insistere sull’appartenenza in proprietà privata di quelle possessiones, che son dette, per giunta, proprias. A questo punto uso tecnico e uso volgare sono fusi: nelle fonti successive si incontra la possessio, al singolare e al plurale, usato per indicare i fondi, con preferenza rustici, ed in particolare (specie se al plurale) i latifondi, indipendentemente da ogni considerazione relativa al loro regime giuridico. L’esemplificazione che è stata fornita, è stata tratta da giuristi e scrittori; verrà completata con alcune costituzioni imperiali: dati i risultati raggiunti, sembra si possa spiegare la frequenza di quest’impiego di possessio nelle costituzioni imperiali, anche all’epoca classica, senza pensare al fatto che esse siano o meno esempi di uno (stile amministrativo), secondo la terminologia introdotta dal Vernay. Ci si limiterà a scorrere brevemente le costituzioni fino a Gordiano. Le più antiche sono 4 costituzioni di Caracalla, dell’anno 215. Si parla di “tua possessio” nel senso di “luogo di tua proprietà”. Alessandro Severo indica l’ipoteca di un fondo dicendo “obbligata fuit possessio”, e gli investimenti immobiliari con l’espressione “pecuniam in emptionem possessionum converter”. Nelle fonti postclassiche quest’uso di possessio continuò: esso corrispondeva singolarmente bene ad un atteggiamento della mentalità postclassica in materia di cose e di diritti sulle cose. E’ necessario dare notizia di un atteggiamento nuovo di questo stesso uso di possessio, che compare in certe fonti postclassiche; in esse possessio corrisponde genericamente a res, qualunque res e non necessariamente immobile, tuttavia non esclusivamente mobile. Quest’uso della parola compare in fonti in cui la cosa considerata è indicata in modo generico, e (si tratta di leggi generali) nelle singole fattispecie la cosa che viene in considerazione può essere sia mobile che immobile. ...Continua...
...Vedi sopra... Ma quando si ricorre a possessio in questi casi, è perché la cosa è considerata dal punto di vista del diritto a possederla che un soggetto ha su di essa: diritto a possederla che non discende necessariamente dalla proprietà, ma anche, e forse più spesso, nei casi in cui la cosa è immobile, dall’enfiteusi o rapporti consimili. E’ forse proprio per questo che in tali casi si dice possessio e non res: per adottare cioè una terminologia che possa esser propria per una più vasta gamma di fattispecie. Secondo il Levy nel testo della costituzione costantiniana che vieta il patto commissorio, possessio sarebbe usato per indicare il diritto stesso sulla cosa, in una parola starebbe per “dominium”, proprietà. L’illazione non sembra esatta: anzitutto (argomento, questo, certo non sufficiente, ma indicativo, il luogo corrispondente della costituzione interpretata ha res. Inoltre, va considerato il contesto in cui è usata la parola possessio, e precisamente l’espressione “possessionem suam recipiat”: intendendo possessio come proprietà, suam e recipiat si troverebbero in contraddizione: se il debitore deve riavere la proprietà, ciò significa che questa attualmente non è sua. Intendendo possessio come la “cosa”, tutto corre invece perfettamente. Si cominci col considerare che la costituzione costantiniana sancisce la nullità del patto commissorio, sanzione fedelmente rispecchiata dalla interpretatio, e pertanto la proprietà (od altro diritto reale) sulla cosa pignorata non passa mai al creditore: ciò è confermato dalla parafrasi della costituzione, ove si afferma che il debitore “non videtur vendere” al creditore. E’ pertanto evidente che, ciò che al debitore si consente di “recipere”, è la sua cosa, e non il suo diritto. Siamo dunque precisamente di fronte a quella eccezione di possessio. La legge di Valentiniano toglie il divieto, ma stabilisce alcune sanzioni per il caso che il funzionario abusi, nella conclusione del contratto o nella esecuzione di esso, di particolari situazioni derivanti dalla sua posizione o dalla situazione dell’altra parte. Anche questa legge stabilisce la nullità degli atti traslativi, e le espressioni “possessionem nihilominus perditurus, ut ad dominum redeat, cui taliter probatori ablata”, contengono 3 esempi dell’uso di possessio. Nella norma in tema di donazione da parte di privati a certi funzionari in carica: il regime che la costituzione stabilisce per queste donazioni è il seguente: entro 5 anni dall’uscita di carica del funzionario donataria, o parente del donatario, il donante può adire il giudice e, semplicemente provando la data della donazione (cioè che questa è avvenuta mentre il funzionario era in carica) ottiene la rescissione di essa per cui ha diritto alla restituzione della cosa e dei frutti. Anche qui dunque si tratta di conseguire il possesso della cosa, che appartiene all’attore per un titolo incontroverso. Spesso le parole possessor, possessio e possidere, benché usate nelle loro accezioni tecniche, sono atteggiate in modo particolare, per cui è necessaria una certa riflessione onde rendersi conto esattamente del loro impiego. Il verbo possidere è usato per invadere, occupare; eppure il suo uso è perfettamente tecnico, poiché indica il fatto di chi, occupa una parte del suolo pubblico, lo tiene come se gli appartenesse. ...continua...
...Vedi sopra... Ma quando si ricorre a possessio in questi casi, è perché la cosa è considerata dal punto di vista del diritto a possederla che un soggetto ha su di essa: diritto a possederla che non discende necessariamente dalla proprietà, ma anche, e forse più spesso, nei casi in cui la cosa è immobile, dall’enfiteusi o rapporti consimili. E’ forse proprio per questo che in tali casi si dice possessio e non res: per adottare cioè una terminologia che possa esser propria per una più vasta gamma di fattispecie. Secondo il Levy nel testo della costituzione costantiniana che vieta il patto commissorio, possessio sarebbe usato per indicare il diritto stesso sulla cosa, in una parola starebbe per “dominium”, proprietà. L’illazione non sembra esatta: anzitutto (argomento, questo, certo non sufficiente, ma indicativo, il luogo corrispondente della costituzione interpretata ha res. Inoltre, va considerato il contesto in cui è usata la parola possessio, e precisamente l’espressione “possessionem suam recipiat”: intendendo possessio come proprietà, suam e recipiat si troverebbero in contraddizione: se il debitore deve riavere la proprietà, ciò significa che questa attualmente non è sua. Intendendo possessio come la “cosa”, tutto corre invece perfettamente. Si cominci col considerare che la costituzione costantiniana sancisce la nullità del patto commissorio, sanzione fedelmente rispecchiata dalla interpretatio, e pertanto la proprietà (od altro diritto reale) sulla cosa pignorata non passa mai al creditore: ciò è confermato dalla parafrasi della costituzione, ove si afferma che il debitore “non videtur vendere” al creditore. E’ pertanto evidente che, ciò che al debitore si consente di “recipere”, è la sua cosa, e non il suo diritto. Siamo dunque precisamente di fronte a quella eccezione di possessio. La legge di Valentiniano toglie il divieto, ma stabilisce alcune sanzioni per il caso che il funzionario abusi, nella conclusione del contratto o nella esecuzione di esso, di particolari situazioni derivanti dalla sua posizione o dalla situazione dell’altra parte. Anche questa legge stabilisce la nullità degli atti traslativi, e le espressioni “possessionem nihilominus perditurus, ut ad dominum redeat, cui taliter probatori ablata”, contengono 3 esempi dell’uso di possessio. Nella norma in tema di donazione da parte di privati a certi funzionari in carica: il regime che la costituzione stabilisce per queste donazioni è il seguente: entro 5 anni dall’uscita di carica del funzionario donataria, o parente del donatario, il donante può adire il giudice e, semplicemente provando la data della donazione (cioè che questa è avvenuta mentre il funzionario era in carica) ottiene la rescissione di essa per cui ha diritto alla restituzione della cosa e dei frutti. Anche qui dunque si tratta di conseguire il possesso della cosa, che appartiene all’attore per un titolo incontroverso. Spesso le parole possessor, possessio e possidere, benché usate nelle loro accezioni tecniche, sono atteggiate in modo particolare, per cui è necessaria una certa riflessione onde rendersi conto esattamente del loro impiego. Il verbo possidere è usato per invadere, occupare; eppure il suo uso è perfettamente tecnico, poiché indica il fatto di chi, occupa una parte del suolo pubblico, lo tiene come se gli appartenesse. ...Continua...
(chiedo scusa, il post precedente compare due volte) ...Vedi sopra... Poiché la costituzione non parla che della compravendita, parrebbe che possessio stia per proprietà: e invece la disposizione sembra piuttosto diretta a togliere ai giudei, senza indugio, la disponibilità di fatto degli schiavi cristiani: essa si riferisce infatti a “omnia quae aput eum repperiuntur”, indipendentemente dal titolo per il quale sono posseduti. Si noti come diversamente impostata è la fattispecie che risulta dalla interpolazione che, della costituzione di Costanzo, fecero i commissari giustinianei. Del resto, nella lettura delle costituzioni imperiali, specie di quelle del basso impero, si deve far sempre conto di particolari atteggiamenti di linguaggio che derivano dall’atteggiamento letterario di chi scriveva, talora seriamente preoccupato dei problemi della retorica, o, per contro, caso questo assai più raro, ostacolato da una troppo superficiale conoscenza del diritto. La seconda ipotesi va però considerata con molta cautela, per non cadere nelle concezioni del volgarismo e del diritto volgare. L’esigenza immediata è quella di non generalizzare, ma soffermarsi invece a ricercare la causa del particolare stile impiegato. Un’esemplare indagine in questo senso ci è stata offerta di recente dal Volterra e non resta che ripercorrerne la strada. La prima ipotesi è assai più frequente e generale, ma non molto spesso le preoccupazioni letterarie degli scrittori giungono al punto di compromettere seriamente il tecnicismo del linguaggio. La costituzione proibisce l’uso (possessio) e la fabbricazione privata di indumenti di porpora; commina la pena della confisca e, in caso di recidiva, la sottoposizione alle sanzioni previste per il delitto di lesa maestà: ma le espressioni usate per esprimere questi concetti sono oltremodo ricercate e volute. Tuttavia, gli esempi come questo sono relativamente pochi: e quel po’ di retorica da cui sono soffusi soprattutto gli edicta raccolti nei nostri codici, non disturba in genere gran che. Va piuttosto fatta un’osservazione generale, essenziale per la valutazione (dal punto di vista tecnico) della terminologia che compare nelle costituzioni imperiali, nonché nelle fonti da esse derivate. Chi legge il Digesto, ha di fronte a sé (tranne per alcuni rari titoli) una trattazione di diritto privato. Così avviene per le istituzioni di Gaio e per gli altri testi della giurisprudenza classica, che siamo abituati a considerare come le fonti più autorevoli della terminologia tecnica ortodossa. Ma non va dimenticato che le costituzioni imperiali sono assai spesso di diritto pubblico, e trattano le branche più disparate di questo: penale, tributario, amministrativo in generale, ecclesiastico. Ora, si pensi al diverso senso che anche nel linguaggio dei nostri giorni assume il termine “possesso” se letto nella legge civile o penale (per la nozione di furto, ad esempio), o in una legge che disciplina l’imposizione tributaria. Queste differenze di significato, oggi, saltano assai meno all’occhio, perché siamo abituati a prendere visione di quelle leggi in momenti diversi, a vederle stampate perfino in volumi diversi: questa separazione materiale, che si riflette in una predisposizione mentale, non ci è quasi per nulla offerta dalle costituzioni degli imperatori romani, tutte raccolte nei codici, e separate solo nella meno immediata distinzione in titoli. Ma, ancor più, il romanista è solitamente aduso ad inquadrare tutto nelle prospettive del diritto privato, il che lo porta, talora, ad impiegare canoni di valutazione sostanzialmente aberranti.
Buonasera a tutti!!!! Leggendo il terzo capitolo del libro, ho notato che viene ripreso il tema della Gewere, l’istituto di origine germanica di cui avevamo già in parte discusso nel corso delle prime lezioni. A questo proposito, usando come fonti il nostro libro di testo e un paragrafo di un libro trovato nella biblioteca della nostra facoltà, ho deciso di pubblicare un commento che in breve ci rinfreschi un po’ la memoria su questo istituto e sugli studi fatti a riguardo nel corso dei secoli. Il testo di cui ho fatto menzione è “Uso, tempo, possesso dei diritti” scritto dal nostro professore con i professori Mannino e Vecchi. La Gewere è forse l’istituto che forse più rispecchia la caratteristica principale del diritto altomedievale e cioè quella di essere composto da più elementi fusi tra di loro: quello romano, quello canonico e quello germanico. La Gewere ha da sempre attirato l’attenzione di tanti grandi studiosi del diritto in quanto è un istituto dal contenuto vago, mutevole, indefinito. Incarnava sia la proprietà che il possesso e poteva essere utilizzato per la difesa di qualsiasi situazione di fatto, di qualsiasi diritto: da quelli reali a quelli personali, quali l’assunzione di uffici pubblici o ecclesiastici. Nel corso del medioevo venne tradotto con il termine investitura e processualmente veniva molto più utilizzata rispetto alla possessio romana. La Gewere infatti, grazie alla sua duttilità e alla sua adattabilità a qualsiasi tipo di diritto, si adattava alle esigenze della pratica molto più che il diritto romano che esigeva rigidi requisiti normativi. Si fa l’esempio del trascorrere del tempo che per il diritto romano non bastava a far acquisire un diritto reale, mentre per quello germanico invece si; il trascorrere del tempo rappresentava quindi il titolo, l’investitura per il riconoscimento del diritto e era sufficiente per vincere la causa. Sulla Gewere sono stati scritti importanti testi di autorevoli autori, basti ricordare Savigny e il Finzi. Un’opera molto importante è sicuramente quella di Wilhelm Albrecht scritta in piena epoca romantica dove imperversava la lotta tra romanisti e germanisti. Albrecht, in quanto germanista, studia soprattutto fonti germaniche che vanno da leggi, a atti della pratica notarile, alla giurisprudenza e ha lo scopo di dimostrare la germanicità dell’istituto, il suo essere espressione suprema del famoso Volksgeist. Altra opera importante è quella di Andreas Heusler che utilizza fonti non solo germaniche, ma anche francesi, spagnole e italiane; tenendo conto del fatto che anche queste terre subirono la dominazione longobarda e franca e quindi ne furono influenzate anche sotto il profilo del diritto. Heusler sostiene che la Gewere continuò a essere utilizzata anche durante l’epoca dei glossatori anche se con un nome diverso. Nella diffusa contrapposizione tra possessio civilis caratterizzato dall’animus e possessio naturalis caratterizzato dalla materialità, egli rinviene l’eterna contrapposizione tra diritto romano e germanico. In realtà gli studiosi del XII e XIII secolo rinvenivano in questa contrapposizione il rapporto tra aequitas naturalis e ius civile. Inoltre la contrapposizione fra le due forme di possessio prima menzionate serviva semplicemente a creare un’interpretazione più ampia che andasse bene per più situazioni. Il diritto romano infatti era caratterizzato da forte rigidità e si cercava in tutti i modi di creare aperture in vista del mutare della società e delle sue esigenze sempre più crescenti di flessibilità. Le prime aperture in favore del riconoscimento di situazioni di fatto diverse dalla possessio si ebbero con il diritto canonico che diede per esempio rilevanza al semplice trascorrere del tempo per l’acquisizione di diritti incorporali.
Buongiorno a tutti!!!! Leggendo il terzo capitolo del libro, ho notato che viene ripreso il tema della Gewere, l’istituto di origine germanica di cui avevamo già in parte discusso nel corso delle prime lezioni. A questo proposito, usando come fonti il nostro libro di testo e un paragrafo di un libro trovato nella biblioteca della nostra facoltà, ho deciso di pubblicare un commento che in breve ci rinfreschi un po’ la memoria su questo istituto e sugli studi fatti a riguardo nel corso dei secoli. Il testo di cui ho fatto menzione è “Uso, tempo, possesso dei diritti” scritto dal nostro professore con i professori Mannino e Vecchi. La Gewere è forse l’istituto che forse più rispecchia la caratteristica principale del diritto altomedievale e cioè quella di essere composto da più elementi fusi tra di loro: quello romano, quello canonico e quello germanico. La Gewere ha da sempre attirato l’attenzione di tanti grandi studiosi del diritto in quanto è un istituto dal contenuto vago, mutevole, indefinito. Incarnava sia la proprietà che il possesso e poteva essere utilizzato per la difesa di qualsiasi situazione di fatto, di qualsiasi diritto: da quelli reali a quelli personali, quali l’assunzione di uffici pubblici o ecclesiastici. Nel corso del medioevo venne tradotto con il termine investitura e processualmente veniva molto più utilizzata rispetto alla possessio romana. La Gewere infatti, grazie alla sua duttilità e alla sua adattabilità a qualsiasi tipo di diritto, si adattava alle esigenze della pratica molto più che il diritto romano che esigeva rigidi requisiti normativi. Si fa l’esempio del trascorrere del tempo che per il diritto romano non bastava a far acquisire un diritto reale, mentre per quello germanico invece si; il trascorrere del tempo rappresentava quindi il titolo, l’investitura per il riconoscimento del diritto e era sufficiente per vincere la causa. Sulla Gewere sono stati scritti importanti testi di autorevoli autori, basti ricordare Savigny e il Finzi. Un’opera molto importante è sicuramente quella di Wilhelm Albrecht scritta in piena epoca romantica dove imperversava la lotta tra romanisti e germanisti. Albrecht, in quanto germanista, studia soprattutto fonti germaniche che vanno da leggi, a atti della pratica notarile, alla giurisprudenza e ha lo scopo di dimostrare la germanicità dell’istituto, il suo essere espressione suprema del famoso Volksgeist. Altra opera importante è quella di Andreas Heusler che utilizza fonti non solo germaniche, ma anche francesi, spagnole e italiane; tenendo conto del fatto che anche queste terre subirono la dominazione longobarda e franca e quindi ne furono influenzate anche sotto il profilo del diritto. Heusler sostiene che la Gewere continuò a essere utilizzata anche durante l’epoca dei glossatori anche se con un nome diverso. Nella diffusa contrapposizione tra possessio civilis caratterizzato dall’animus e possessio naturalis caratterizzato dalla materialità, egli rinviene l’eterna contrapposizione tra diritto romano e germanico. In realtà gli studiosi del XII e XIII secolo rinvenivano in questa contrapposizione il rapporto tra aequitas naturalis e ius civile. Inoltre la contrapposizione fra le due forme di possessio prima menzionate serviva semplicemente a creare un’interpretazione più ampia che andasse bene per più situazioni. Il diritto romano infatti era caratterizzato da forte rigidità e si cercava in tutti i modi di creare aperture in vista del mutare della società e delle sue esigenze sempre più crescenti di flessibilità. Le prime aperture in favore del riconoscimento di situazioni di fatto diverse dalla possessio si ebbero con il diritto canonico che diede per esempio rilevanza al semplice trascorrere del tempo per l’acquisizione di diritti incorporali.
DE CUPIS/ DI PASQUALE Salve! Noi abbiamo deciso di approfondire il discorso sull’istituto della gewere, sulla sua natura, facendo anche un raffronto con la figura giuridica romana della possessio. La relazione del soggetto con la cosa, la situazione di fatto elevata a titolo, necessaria al fine di proteggere l’esercizio da parta del soggetto con esclusione di altri, o al fine di ristabilire la relazione violata portano a considerare l’istituto dell’investimentum o gewere. È questa una figura giuridica tra le più indefinite e controverse per i significati che il termine assume nelle fonti legislative e documentali e per le diverse interpretazioni offerte dalla dottrina storico-giuridica. D’altra parte è un termine che viene usato fin dalla metà del secolo VII, comprendeva indifferentemente i concetti di proprietà, possesso e usufrutto. La figura è stata considerata da alcuni storici come il corrispondente nel diritto barbarico della possessio romana, comprendente addirittura il possesso degli iura. Esso si sostanziava in un rapporto materiale ed esteriore tra il soggetto e la cosa ed indicava la volontà, riconosciuta e tutelata dalla legge, di tenere la cosa in proprio potere. Il rapporto materiale era esteriormente identico, sia che la cosa fosse in proprietà, sia che fosse in possesso. Il concetto fondamentale è quello di tutela e di difesa della cosa e dello specifico rapporto con essa . Per G. Diurni non corrisponde alla possesso romana e ne ricomprende i concetti del diritto romano di proprietà, possesso, mera detenzione venendo così a costituire una categoria generale ed unica. La corrispondenza tra possesso e gewere è sostenuta invece dal Besta, secondo il quale da un approfondito studio sulla gewere apparirebbero in modo evidente i punti di contatto con il possesso romano per il fatto che anche nel diritto romano il possesso può prescindere dall’ animus domini. Questa tesi è seguita anche dal Ravioli il quale afferma :”Gewere è il possesso che come tale è giuridicamente riconosciuto senza alcun riguardo alla qualità del possesso cosicché nel diritto germanico si ha possesso giuridico tanto nel caso che questo possesso sia giusto quanto ingiusto, di buona o di mala fede”. Nella concezione delle gewere è evidente la preoccupazione degli interpreti di trovare un valido istituto sostitutivo della proprietà, sconosciuta al mondo barbarico. La più probabile spiegazione della mancanza del concetto di proprietà nella civiltà giuridica dei germanici è data dal fatto che le popolazioni erano seminomadi per cui non occupavano stabilmente il territorio. La dottrina ha voluto a tutti i costi ricercare nella gewere gli elementi che la differenziano o congiungono alla proprietà e alla possessio ed ha enfatizzato possibili punti di contatto tra queste figure lasciando in ombra gli aspetti essenziali della gewere. Sono stati così introdotti nel mondo germanico figure o elementi giuridici che non aveva mai conosciuto. Si è considerato pertanto la gewere quale possesso di una cosa su cui il soggetto assume di avere la proprietà. CONTINUA..
(VEDI SOPRA) Le figure considerate mostrano in modo evidente la loro diversa natura soprattutto per ciò che riguarda la tutela. Mentre la possessio riceve una tutela particolare ed efficace attraverso il procedimento interdittale, non può dirsi altrettanto per la gewere, che sottostà alle regole apprestate per qualsiasi situazione giuridica. Queste regole costituiscono il processo ordalico; l'ordalia ( dal germanico antico ordal, che significa "giudizio di Dio") è un'antica pratica giuridica, secondo la quale l'innocenza o la colpevolezza dell'accusato venivano determinate sottoponendolo ad una prova dolorosa o a un duello. La determinazione dell'innocenza derivava dal completamento della prova senza subire danni (o dalla rapida guarigione delle lesioni riportate) oppure dalla vittoria nel duello. Nel processo ordalico chi aveva la gewere poteva risolvere in modo positivo la lite con il semplice giuramento nel caso in cui l’attore non deduceva una prova concreta in suo favore e contraria al godimento della cosa da parte del convenuto. Il che significa che anche l’investito dovere fornire la prova del titolo che l’abilita a tenere la cosa, mentre nel diritto romano si presuppone l’esistenza di un rapporto legittimo dell’esercente con la cosa. Si assiste ad una tutela di tipo negativo, in cui non si stabilisce il diritto né si accerta alcunché attraverso un processo di cognizione, ma si parte da una situazione di fatto il cui fruitore a determinate condizioni ha possibilità di paralizzare la rivendica altrui. La mancata reazione però per un anno ed un giorno dallo spoglio subito e conosciuto fa acquistare la gewere al nuovo fruitore della cosa. Pertanto la tutela della gewere non può essere avvicinata a quella possessoria romana, essa è più semplicemente la tutela del potere di fatto, derivante sia per l’altrui tolleranza o inerzia nella difesa del proprio potere di fatto sia per il suo trasferimento mediante la formale vestitura da parte del precedente fruitore, che assurge a titolo di appartenenza, a gewere appunto.
EMILIA DE CUPIS CLAUDIA DI PASQUALE
Fonti: G.Diurni, “Le situazioni possessorie nel Medioevo”, Giuffrè editore, Milano 1988.
Nella lettura del paragrafo sul possesso nei processi romani del XII secolo, ho trovato di nuovo il riferimento all’utraque lex e ho pensato di fare un piccolo approfondimento in tema, prendendo spunto da Cortese, “Il diritto nella storia medievale”, Roma, 1995. E’ la diffusa religiosità a conservare saldo l’ancoraggio del diritto a tradizioni antiche, alla visione ecclesiale del mondo, al dualismo gelasiano di temporale e spirituale distinti eppur uniti: diritto civile e diritto canonico continuano in effetti nell’XI secolo a rimanere le due facce inscindibili del fenomeno giuridico. Il Calasso fu molto colpito dai documenti della regione di Gaeta di poco posteriori al Mille, segnalati dal suo maestro Brandileone, in cui donazioni e testamenti invocano reiteratamente l’auctoritas ecclesiastica insieme con la lex romana. E’ un’invocazione generica che nessuna citazione di norme viene a precisare: e probabilmente i notai non ne avevano in mente alcuna. Sapevano solo che nella sostanza gli atti che redigevano erano e dovevano essere conformi a quanto prescrivevano la volontà di Dio e la legge terrena, sicchè chiamarle entrambe in causa serviva a tranquillizzare le coscienze. L’uso di una tale formula non è un fato occasionale e circoscritto al territorio di Gaeta. Il Vismara ha segnalato ch’essa circolava in Provenza in anni anteriori, e anzi ha rilevato (in territori a regime diverso e in età ancora più antica, sin dai primi anni del X secolo) l’uso dei lombardi di dichiararsi proprietari “et canonico ordine et legibus”. Il rito notarile esigeva dunque che ogni negozio o atto andasse misurato non a un solo ma a due ordinamenti, regolatore l’uno della vita materiale e l’altro di quella dello spirito, destinati ad agire insieme e insieme a garantire la legittimità dei comportamenti umani. Non si creda a un mero capriccio legalitario di notai: era un dato generale della coscienza dei tempi. Nell’aprile del 1047 a Rimini, per esempio, Enrico II in persona intervenne a dirimere un dubbio che aveva fatto discutere i giuristi: si trattava d’interpretare filologicamente niente meno che una costituzione del Codice giustinianeo. Enrico la adeguò ai principi canonici, ma avvertì che ciò facendo aveva seguito il volere anche di Giustiniano, che assegna infatti ai canoni dei santi padri la medesima efficacia delle leggi. [Si veda il provvedimento di Enrico II in MGH, Const, I, 96 s, nr. 50. Il quesito era se la costituzione di C. 1.3.25.1 esimesse dal iusiurandum calumniae – il giuramento che si doveva prestare agli inizi dei processi per attestare l’inesistenza dell’intento di nuocere – tutti gli ecclesiastici o soltanto quelli di Costantinopoli. A porre il problema era l’erroneo inserimento in C.1.3.23 dell’ Inscriptio di C.1.3.20. (errore peraltro presente nel Codice epitomato di Pistoia del X secolo e quindi presumibilmente abbastanza diffuso nei manoscritti). Enrico dispone che gli ecclesiastici siano tutti e sempre esentati dal giuramento in conformità con quanto vuole il diritto canonico; la norma sarà introdotta nel Capitulare italicum e quindi sia nel Liber Papiensis, sia nella Lombarda.] (Ciò è stato anche trattato precedentemente a lezione). Giustificazione teorica, quest’ultima, tolta dall’ Epitome Iuliani e ineccepibile: a fornirla all’imperatore era stata ovviamente la sua cancelleria, che una volta di più si rivela ai nostri occhi abile manipolatrice di una precoce cultura romanistica. Una cancelleria chiaramente in mano di ecclesiastici che rispecchiavano il pensiero della Chiesa: proprio l’argomento che i canoni siano dotati della medesima efficacia delle leggi romane, e possano quindi derogarvi, verrà ereditato da taluni correnti scientifiche e scolastiche del secolo seguente ( un altro filo della continuità tra preirnerio e postirnerio! ) , correnti tutte legate all’insegnamento canonistico e alla prassi (si pensi al Libro di Tubinga e alla cosiddetta Summa Vindocinensis). ...Continua...
...Vedi sopra... Un altro dato da segnalare nella costituzione di Enrico II è che il diritto canonico vi è senz’altro chiamato lex divina. L’identificazione, per la verità, era caratteristica piuttosto del linguaggio corrente della Chiesa e continuerà ad esserlo in futuro, sebbene il passar del tempo e lo sviluppo del diritto canonico la destinino a diventare mistificante: essa aveva senza dubbio il vantaggio di rafforzare il potere vincolante dei canoni esibendoli come norme derivate direttamente dalla volontà di Dio. Ma quanto si deve soprattutto sottolineare, per concludere, e che la singolare costituzione enriciana di Rimini designa i due ordinamenti ecclesiastico e laico con l’espressione utraque lex: ch’è espressione in cui si coglie bene il vincolo concettuale stabilito per ridurre il dualismo normativo a unità. Nell’ultimo quarto del secolo, quando la lotta tra Chiesa e Impero divampa più forte, l’aspirazione alla sintesi dei due ordini canonico e civile non si attenua affatto. Né dalla parte di Gregorio VII né da quella di Enrico IV si coglie alcuna tentazione di separare i sistemi giuridici: sarebbe un segno di “laicismo” incompatibile con la religiosità viva che anima, oltre che i gregoriani, anche gli scismatici. Anzi, è proprio la Defensio Heinrici IV regis, l’opera che meglio manifesta le concezioni politico – giuridiche dei seguaci dell’Impero, a innalzare la bandiera dell’utraque lex: giunge a darne una descrizione teorica che conserva tutto il sapore e il fascino delle creazioni intellettuali dell’alto Medioevo, pur mostrandosi consapevole dei nuovi valori culturali: “dacchè il Creatore, tra le sue creature, ha particolarmente caro l’uomo, gli ha dato due leggi, l’una per il tramite degli apostoli ha indirizzata agli ecclesiastici, l’altra per mezzo di imperatori e re ha data ai laici. Ma la divina bontà ha voluto che l’una e l’altra – utraque lex – profittasse sia al clero, sia al popolo, di modo che nessuno e in nessun negozio osasse violarle: lo stesso legislatore umano lo attesta nel Codice quando dichiara che chiunque offenda la santità della legge divina cade nel sacrilegio”. E così, nel tardo XI secolo, la ricomparsa dei testi originali di Giustiniano nella prassi notarile e forense nonché nelle cancellerie s’inquadra in cornici tutte medievali, in visioni in cui Cristo e Giustiniano si tengono per mano e si scambiano regole e principi. ...Continua...
...Vedi sopra... All’inizio la cosa porterà a confusioni e occasionalmente anche rozzezze sorprendenti: v’è per esempio il primo maestro di diritto romano, il Pepo, il quale interverrà intorno al 1080 a un placito di Enrico IV in Lombardia, pretenderà di non far applicare le vigenti norme longobardo – franche a un caso di omicidio e mescolerà Bibbia, Isidoro di Siviglia e Istituzioni giustinianee per trarne un pastrocchio normativo da lasciar perplessi. (Il caso, infatti, era quello dell’omicida di un servo, che i giudici del regno Italico intendevano correttamente condannare a una mulcta pecuniaria, ossia alla normale compositio. Ma si alzò Pepo con foga a richiedere la pena di morte in applicazione di una norma di diritto naturale da lui inventata: chiunque avesse strappato un uomo dal consorzio umano “naturale” meritava di esserne eliminato a sua volta – egli affermò, presumibilmente pensando alla biblica legge del taglione – e nulla importava che l’ucciso fosse un servo, perché la servitù non cancellava la “naturale” condizione umana. Ma a chiarire per sempre le cose e a togliere la maschera altomediale a Giustiniano provvederà la grande scienza che fiorirà esuberante dal XII secolo: esigendo anzitutto un approccio filologico al testo, e pretendendo la sua interpretazione letterale, essa consentirà al diritto romano, ancor prima di venir usato, di essere minuziosamente e correttamente compreso. Questa scienza, responsabile di un deciso salto di qualità culturale, si formerà nelle scuole; dalle scuole, col tempo, instaurerà un proficuo dialogo con la prassi giuridica, con l’alta amministrazione, con la politica e con tutti i rami del sapere. Sicchè non è esagerato dire che la nascita della scienza accademica segna l’apertura di una nuova era nella storia del diritto.
Andando avanti con la lettura del terzo capitolo abbiamo voluto approfondire l’editto di Grimoaldo. Una maggiore attenzione da parte dell’ordinamento alto medievale verso le situazioni di carattere possessorio si verifica con i sovrani successivi a Rotari. L’editto di Grimoaldo riguarda il caso di chi abbia posseduto “casas, familias vel terres” per più di trent’anni. Il possessore può difendersi con il semplice giuramento senza giungere al duello. La lite si definisce attraverso il procedimento ordalico, il quale termina con un sentenza di prova, costituita dal giuramento del possessore-convenuto. Il possesso, rapporto effettivo con la cosa, diventa l’oggetto centrale della tutela; e il giuramento si sostanzia nella difesa del possesso dalle contestazioni. L’innovazione riguarda quindi l’esclusione del duello; vi è infine un riferimento essenziale ad un possesso pubblico e indisturbato.
E’ dunque la notorietà della relazione che il soggetto ha instaurato con la cosa che lo pone in condizioni di difenderlo. Il che poi è alla base e forma la sostanza del rapporto di gewere. La legislazione di Grimoaldo persegue infatti non tanto la finalità di costituire a favore di un soggetto un diritto sulla cosa ma piuttosto quella di difendere una situazione di fatto. Elemento determinate è quello temporale; il tempo trascorso fa venir meno la possibilità di ripristinare una situazione violata; in quanto la negligenza nella difese dei proprio interessi e la tolleranza o l’acquiescenza verso situazione contrarie al proprio diritto sono valutate negativamente dalla società barbarica e così sanzionate con la perdita definitiva della cosa . L’ azione di rivendica, anche se, si basa su di un documento scritto e il soggetto rivendicante non abbia mai posseduto, si deve applicare la legge di Grimoaldo; egli potrà servirsi del documento solamente se il possesso è di durata inferiore ai trent’anni. In conclusione le caratteristiche del tempo e della notorietà, accompagnate all’inazione dell’altra parte, rendono così possibile al soggetto detenente la difesa della situazione possessoria.
Fonti: G.Diurni, “Le situazioni possessorie nel Medioevo”, Giuffrè editore, Milano 1988.
Il POSSESSO NEL DIRITTO COMUNE di Rosa Pastena Leggendo il terzo capitolo del libro mi sono soffermata sulla definizione di possesso. Dal testo ORDO IURIS.Storia e forme dell'esperienza giuridica (giuffè editore 2003) ho tratto il saggio di Volante, su "La definizione del possesso nel diritto comune". Ecco una sintesi di quanto rilevato dal Volante. a potenza normativa del fatto è un momento fondante nel diritto medievale, la concezione attuale è invece quella della norma giuridica come prodotto della volontà del soggetto, non come il risultato della forza propria dei fatti. Nell'esperienza medievale i fenomeni materiali si trasformano immediatamente in effettività giuridica senza nessun elemento volitivo dei soggetti. Questa prospettiva non cambia neanche con l'avvento del diritto frutto dell'interpretatio dei testi antichi, ma si cerca di ingabbiarla nelle architetture offerte dal Corpus giustineaneo. Nel medioevo la normatività immediata del fatto deve incontrarsi con la rappresentazione attraverso enunciati la cui formulazione risponde a precise regole scientifiche. Il terreno migliore per mostrare i caratteri di quest'equilibrio è l'istituto del possesso. Già dall'analisi di una delle prime opere giuridiche del medioevo la Summa Trecensis si scorgono i problemi definitori che la nozione di possesso - mutuata dal Digesto - pone agli interpreti. E' subito evidente la difficoltà che gli stessi glossatori individuavano nel limitare la descrizione del possesso a una dimensione solo fattuale. Non si può descrivere il possesso solo con riferimento alla sua dimensione materiale, enumerando i comportamenti che il soggetto intrattiene con riferimento al bene: ogni fatto della vicenda possessoria è permeato di fatto e diritto. Per la summa Trecensis esiste un unica nozione di possesso che dà luogo a due accezioni distinte: possessio naturalis non solo l'analisi dei momenti fattuali ma questi inevitabilmente prevalgono rispetto il momento della qualificazione giuridica. La materialità della relazione tra soggetto e cosa è in grado di indicare immediatamente la sostanza della relazione giuridica che giustifica l'apprensione del bene interpretatio iuris si riferisce all'apprensione della cosa: il possesso si caratterizza per la relazione giuridica che lega il soggetto al bene. E' lo ius ad individuare il fatto e non il contrario. Due concezioni opposte della relazione tra diritto e fatto, ma non inconciliabili. Possono infatti integrare due diverse tipologie di ipotesi. Per la prima, rileva giuridicamente il profilo materiale della relazione tra soggetto e cosa. Su questo carattere si individua la possessio naturalis che caratterizza fattispecie tra loro molto diverse. Alcune comportano l'immediata acquisizione della proprietà sul bene (es: Occupazione) altre individuano l'atteggiamento di mera detenzione del conduttore nei confronti dell'oggetto del contratto. In entrambe i casi si instaura una relazione con la cosa basata sul fatto, sorretta da una civilis causa: l'animus possidendi, che permette al fatto di essere considerato come possesso. Il possesso in questo caso si acquista in virtù di un atto di materiale apprensione, da cui può derivare una causa civilis, una relazione giuridica che viene tutelata attraverso la salvaguardia del momento fattuale. Altra ipotesi è quella individuata nei casi in cui il momento fattuale deriva da una fattispecie precedente instaurata: la civilis possessio infatti produce i medesimi effetti della naturalis, ma consegue a vicende costruite in modo opposto per cui il momento reale deriva dal precedente instaurarsi di una relazione giuridica fra due soggetti che legittima. (continua...)
(...continua -Rosa Pastena-)Piacentino ha rilevato che il possesso in senso proprio è solo quello che si istaura attraverso un atto di materiale apprensione , una condotta tale da creare una relazione tra l'uomo e la cosa. Attraverso una fictio si individua il possesso in capo a chi in realtà non possiede, con un'operazone che va contro la natura delle cose. Tale possesso artificiale produce una conseguenza (prevista dalla legge): l'usucapione. Ipotesi del tutto estranea al concetto di possesso basato sull'immediatezza dei fatti, che porterebbe ad ammettere che il rapporto diretto, naturale con la cosa costituisce sempre un titolo sufficiente per l'usucapione. Si dovrebbe cioè ammettere che un colono possa, esercitando il suo godimento del bene farlo proprio. Una tale conclusione è impensabile per il giurista medievale: il colono può essere possessore naturaliter della cosa, il che impedisce l'usucapione. Solo il possesso civile (la situazione qualificata dal diritto) può condurre il titolare ad appropriarsi di quest'ultimo. Qualunque tipologia di possesso si realizza nel momento in cui all'atto di materiale apprensione si unisce l'animus. Al variare delle modalità di perfezionamento della fattispecie non corrispondono diversi modelli di possesso ma solo diverse qualità dello stesso istituto. La possessio può essere vista come l'epifenomeno di svariate situazioni giuridiche. Esiste un solo possesso: chi posiede solo civiliter non ha con l'oggetto un rapporto diverso e più qualificato rispetto a chi possiede anche natulariter. Queste sono 2 specie di possesso che possono istaurarsi perfettamente conducendo pertanto all'usucapione del bene e in modo imperfetto tale da non poter condure all'acquisizione del dominio. Si possiede civiliter quando si è in una situazione giuridcia col bene ma manca l'elemento dell'appresione materiale. Si possiede civiliter et naturaliter quando alla relazione derivante da un titolo di legittimazione di unisce un profilo fattuale. Il possesso naturaliter non può configurarsi. Chi si disinteressa di un proprio bene è comunque possessore civiliter e naturaliter : è impossibile fondare il possesso solo sulla base fattuale. Se così fosse chi cessa la relazione fattuale col bene ne perde immediatamente il possesso. L'analisi di Piacentino mostra la difficoltà a razionalizzare la defnizione di possesso. La sua rilevanza deve essere recuperata su un profilo che trascenda la realtà del fenomeno di apprensione materiale. E qui risiede la difficoltà per l'interprete di isolare l'elemento giuridico. E' interessante notare che Piacentino non offre una propria definizione di possesso scissa dall'immagine dell'occupazione fisica del bene (tipica della tradizione romanistica). Si limita a costruirci accanto un concetto parallelo di possesso civile. La prima definizione autonoma di Possesso è quella di Giovanni Bassiano: “ definire autem potest sic, secundum Ioannis, possessio est ius quoddam rem detinendi sibi”. Cerca di identificare il minimo comune denominatore delle due ipotesi di possesso. Da questo muove i propri passi l'allievo Azone. Egli ritiene che il possesso è definibile non come uno stato di fatto ma come uno ius, il diritto di tenere con sè la cosa. Non guarda alle modalità di costituzione del possesso ma all'effetto. Guarda al risultato della situazione possessoria non la sua dinamica. Questa scelta di Azone però non individua una soluzione unitaria tra possessio naturalis e possessio civilis. Lo ius rem sibi detinendi può costituirsi o attraverso l'istaurarsi di una relazione materiale con una cosa, e darà luogo al possesso naturale, o mediante il solo animus possidendi integrando il possesso civile , come accade in quelle situazioni in cui il soggetto interrompe il rapporto col bene mantenendone il possesso. Il tentativo di superare la definizione romana di possesso non riesce a restituire un concetto unitario di possesso. (...continua)
(...continua - Rosa Pastena)Azone cerca la definizione di possesso individuando tre elementi fondamentali: 1.La materialità delle cose. Il possesso può avere ad oggetto solo cose corporali. 2.La necessaria presenza sia dell'apprensione materiale che dell'animus possidendi. Il possesso non può realizarsi solo nel suo aspetto di relazione concreta tra soggetto e cosa: occorre un atteggiamento particolare nel possessore che possa qualificare la sua condotta materiale. Il possesso naturale è tale per il gesto di acquisizione che deve essere costituito sia dal fenomeno materiale quanto dall'atteggiamento spirituale. Questo stesso possesso si definisce altresì civile in virtu della sua altra e ineliminabile caratteristica: l'adprobatio operata dallo ius. Non ci sono due ipotesi diverse di possesso, ma una sola che si distingue in 2 profili. Il riconoscimnto da parte dello ius civile non è un elemento che si aggiunge ad una fattispecie che sarebbe altrimenti incompleta, ma è con le categorie della natura e dello ius che si isolano due prospettive diverse della stessa realtà: da un lato la relazione tra soggetto e cosa viene tutelata per lo stesso fatto di esistere nella sua materialità di fernomeno; dall'altro la situazione di vantaggio del possessore produce effetti perchè il diritto la salvaguarda al di là della persistenza di una relazione materialmente apprezzabie, per come è nel caso del possesso ritenuto solo animo. 3.L'adminiculum iuris. Il possesso è sempre frutto di un atto materiale unito ad un momento di legittimazione da parte del diritto, ma questi due elementi possono combinarsi in modo diverso nelle singole fattispecie concrete. In alcuni casi prevale lo ius rispetto al factum come nel caso del possesso del padrone sui beni facenti parte del peculio del servo. La legittimazione operata dal diritto è indispensabile per ogni tipologia di possesso. L'adminiculum iuris è l'elemento necessario per valutare la salvaguardia della situazione di fatto, assolve il compito di tutelarla in quanto necessaria e prodromica alla proprietà stessa. Nella concezione di Azone esiste una sola relazione di fatto effettivamente possessoria, se è possibile che un numero indefinito di rapporti fattuali esistano tra più soggetti , solo uno è da riservarsi il titolo di possesso naturale. Uno solo è il posseso civile poichè se esso appartiene ad un soggetto non può appertenere ad altri. Non può esistere una proprietà per due soggetti sulla totalità di uno stesso bene, quindi non può configuararsi neanche la titolarità per due persone della civilis possessio. Per Azone il possesso naturale si costituisce anche senza un comportamento materialmente apprezzabile, al pari di quello civile: la differenza risiede non in una diversa struttura della fattispecie ma nel titolo, nella diversa causa che determina lo ius a prestare tutela alla situazione di fatto. Bartolo di Sassoferrato critica le analisi effettuate dai glossatori, perchè condotta mescolando due problemi che debbono essere affrontati indipendentemente, come la definizione della nozione di possesso e la distinzione delle diverse fattispecie da cui il possesso può trarre origine.Se ci si chiede cosa sia il possesso, la risposta consiste nella definizione del possesso in generale. In questo senso il possesso è il diritto di tenere o occupare la cosa il cui possesso non sia altrimenti vietato. Possesso come diritto, non si confonde con la semplice detenzione, che è un comportamento di mero fatto. Il suo contenuto riguarda solo la relazione materiale che il titolare può avere con la cosa, non nella facoltà di disporre del bene o di rivendicarlo da terzi (prerogative tipiche del diritto di proprietà). (...continua...)
(...continua - Rosa Pastena) Bartolo non ha l'intento di individuare una nozione definitiva di posseso ma solo quella che possa costituire un archetipo comune a tutte le diverse ipotesi di possesso. Egli individua tre distinte specie di possesso: 1.Possessio civilis <>. E' la situazione idonea a far conseguire al titolare la proprietà della cosa attraverso l'usucapione e la prescrizione.Non c'è possidere animo et corpore. 2.La seconda possessio individua la posizione di ogni possibile dominus utilis, la relazione di rapporto immediato con la cosa che se non può condurre a elidere la proprietà del concedente, attribuisce al concessionario il diritto di usare della cosa e trarne i frutti. 3.La terza individua la relazione di fatto con la cosa che produce come unico effettto quello di poter ritenere o recuperare la cosa dinanzi ai tentativi di appropriazione da parte dei terzi.
Uguccio da Pisa, autore della preziosissima Summa Decretorum, analizzata nella scorsa lezione, è un personaggio che ha attirato la mia attenzione e, vista la sua straordinaria importanza, ho ritenuto giusto approfondire la sua figura. Gabriel Le Bras nel suo libro “La Chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche.” ha riconosciuto in Uguccio “le qualità di un maestro di prodigiosa scienza e di originalità singolare”. Infatti il grande decretista pisano (attributo forse riduttivo considerando l’eclettismo che caratterizza la sua complessa figura di politico, letterato, grammatico, diplomatico, amministratore e vescovo) ha offerto un notevole apporto alla comprensione del Decretum Grazianeo. Si può notare che Uguccio da Pisa, pur appartenendo per ragioni storico-anagrafiche alla generazione dei primi decretisti, si collega, o meglio anticipa, l’attività dei commentatori operanti verso la fine del XIII secolo e nei periodi successivi. Fabio Vecchi in “Fortuna e modernità del metodo lessicografico di Uguccione da Pisa decretista” intende riproporre la figura del vescovo ferrarese nei termini di una modernità complessiva della sua azione e del suo pensiero. A tal proposito il Vecchi insiste sull’idea innovativa dell’interpretatio, intesa da Uguccione come svolgimento logico e critico del dato normativo. In ciò è dato rilevare la scelta coraggiosa di reazione alla sudditanza reverenziale che il giurista medievale nutriva nei confronti delle antiche norme scritte quasi promanassero da un testo sacro. Si tratta, per Fabio Vecchi, del limite psicologico di tutti i pensatori del Medioevo, in qualche modo soggetti al fascino dell’autorità e del significato metagiuridico evocato dal diritto romano. Uguccio invece si pone criticamente nei confronti del testo e raffina le sue ricerche, scrive il Vecchi, “con un enciclopedismo integrato dall’inserimento della grammatica e della dialettica e con l’intento di una trattazione indipendente dalle fonti, razionalizzata dal desiderio di conoscere le origini della parola in modo da garantirne la correttezza per un uso futuro da cui trarrà beneficio anche Dante nel Convivio”. C’è anche da dire che poi la ricerca su nuove metodologie di studio si confonde nella sensibilità del vescovo con la sensibilità del politico. Per comprendere bene la posizione politica del nostro decretista è necessario ricordare il suo atteggiamento sulla Donazione di Costantino, che consiste nel rifiuto di ogni uso politico della questione, per affermare , almeno in materia spirituale, la subiectio dell’Impero alla Chiesa e sostenere, sulla base testuale del Decretum Gratiani, il principio espresso nella nota Epistola Gelasiana ad Imperatorem Anastasium, circa la iurisdictio divisa. Uguccione si sa che è uomo pienamente votato alla causa ecclesiastica, ma la difesa del sacerdotium viene sottilmente organizzata e condotta attraverso il diritto romano riconosciuto. In questo modo, Uguccio ci appare un uomo libero dai condizionamenti culturali del suo tempo, tanto nell’atteggiamento politico quanto nell’approccio teoretico ed esegetico. A meglio illuminare la qualità e la fama del personaggio basti ricordare le delicate incombenze delle quali fu incaricato sia nella veste istituzionale di vescovo nella normale composizione delle liti civili intervenute tra i burgenses o nel dirimere le controversie tra vescovi circonvicini e i canonici loro subordinati (circostanza questa più delicata che presupponeva l’incarico pontificio), sia nel vestire i panni di bonum vir (quando il papa Innocenzo III nel 1206 lo incaricava di riportare clero e popolo di Trecenta all’ubbidenza del loro vescovo, il Patriarca di Aquileia), sia nella circostanza che vede Uguccione prendere l’iniziativa di sostituirsi al pontefice nelle competenze pattizie per la conclusione di una concordia con i consoli del comune di Bergantino, e sia nella delicatissima missione che lo vede amministratore generale per metter freno alla gestione patrimoniale del corrotto abate Bonifacio di Nonantola.
Per riassumere dunque l’atteggiamento del decretista verso i problemi del diritto pubblico medievale è opportuno ricordare Gaetano Catalano che nel suo “Impero, regni e sacerdozio nel pensiero di Uguccio da Pisa” ci dice che il dogma imperiale sostenuto da Uguccio è funzionale, nella stessa identica misura nella quale lo è il diritto romano sussunto nel canonico, alla defensio Ecclesiae. Sul versante del metodo, è invece neccessario osservare la felice osservazione di Cortese in “Le grandi linee della storia giuridica medievale” secondo il quale, il vescovo ferrarese “teneva a distinguere la glossa dal commento”. Uguccione infatti precisa che la glossa, anche quando serve ad indagare il senso di una frase della legge, deve sempre partire dall’esposizione della lettera, mentre il commento tende solo al senso. Nella sua Summa Decretorum è dunque possibile ravvisare i segni della nuova idea del metodo uguccioniano. Qui il vescovo è sia organizzatore sia interprete in senso “moderno”: egli scompone i vecchi schemi e traccia le regole del procedimento da seguire. Da un lato riorganizza il Decretum rispettando le materie, ma in modo che le trattazioni seguano un ordine logico che difetta nei predecessori; in secondo luogo, l’analisi del testo è compiuta con un procedimento scrupoloso di sezionamento di ciascuna parola con l’elemento nuovo della critica. Come ben si evince siamo di fronte al crollo dell’auctoritas del testo, alla sua desacralizzazione. La Summa, redatta a Bologna tra il 1188 e il 1190, è un’opera importante anche per l’apporto di Uguccio, come abbiamo visto a lezione e come ci dice il nostro Professor Conte in “Servi medievali. Dinamiche del diritto comune”, alla dottrina dell’errore sulla condizione personale del coniuge. L’esposizione di questa delicata materia è in Uguccio piana ed esauriente: in un primo momento Uguccio limita la rilevanza dell’errore al caso in cui la condizione del coniuge risulti inferiore a ciò che si credeva (errore sulla qualità), poi, considerando l’error condicionis, analizza il problema della valutazione delle condizioni intermedie (liberti, ascritizzi, manenti, originarii) le quali, per Uguccio, dovevano essere ricomprese nel genus dei liberi. Infatti queste condizioni non potevano esser confuse con quella servile perché non esprimono altro che l’obbligo, per chi vi è sottoposto, di prestare opere e servizi, senza però cancellare lo stato di libertà. La conferma dunque della fortuna di Uguccio, sta dunque anche nel fatto, come ci fa notare il nostro Professore, che i grandi apparati che si formarono sul Decreto vent’anni dopo il 1190 riprendono la teoria di Uguccio sull’error conditionis che teneva ben conto della differenza tra servi e queste categorie intermedie. C’è però da dire che la rinomanza del grande canonista pisano, avra`, una lunga battuta di arresto dopo che il Gutemberg ebbe inventato i torchi per la stampa. Uguccio verrà sospettato di simpatie per la “pars gebellina”; sarà giudicato per alcune sue opinioni poco “scrupolosus” in senso ortodosso; il suo dizionario etimologico o “Liber derivationum” verrà soppiantato dal “Catholicon” di Giovanni Balbi. Ma nonostante queste ombre del passato, oggi lo studio del pensiero di Uguccio costituisce una condizione primaria ed indispensabile per accedere alla fortezza del “jus canonico” medievale.
Buongiorno a tutti! Scorrendo i vari commenti del blog, anche i più recenti, ho notato che spesso si è parlato o accennato a un importantissimo giurista medievale, Bartolo da Sassoferrato. Navigando in internet ho trovato un articolo che parla di lui, delle sue opere principali e dell’importanza che ha rivestito nella sua epoca e che tutt’oggi riveste per gli studiosi del diritto. Eccone il testo, da me in parte rielaborato e riassunto.
Bartolo da Sassoferrato fu uno dei giuristi più insigni del medioevo, nato vicina ad Ancona e vissuto nel XIV secolo, professore all’Università di Pisa ed in Polonia e apprezzato enormemente in tutta l’Europa. Egli fu il primo a concepire l’idea che il diritto doveva unirsi con la vita di tutti i giorni e con i suoi bisogni concreti, quindi lo studio ed il commento del Corpus Iuris Civilis fu improntato per adattare il diritto romano a questi bisogni. La sua elaborazione dei principi che determinavano i rapporti tra diritto romano e diritto canonico contribuirono in maniera decisiva a sviluppare nuove leggi, e furono la base per lo studio e l’affermazione di quello che oggi chiamiamo diritto internazionale pubblico e privato. Egli nel trattare la materia faceva attenzione a evidenziare lo spirito di una legge piuttosto che la formula, usando l’analogia ed il principio di aequitatis iuris (o giustezza della legge) per poi commentare o postillare ed aveva seguaci in tutta l’Europa chiamati bartolisti, dialettici o commentatori. Egli, soprattutto nel suo caposaldo giuridico, il "De Tyranno", mise l'evidenza sui ruoli legalitari che si stavano costituendo nel medioevo e che introducevano la modernità nelle istituzioni (Imperatore, Comuni e Signorie); fece insomma, nell'ambito giuridico la prima seria riflessione su quella che fu definita "reazione legalitaria" ad un esercizio arbitrario del potere costituito prendendo spunto da tutto ciò che il Diritto Romano, anche riveduto nei secoli, poteva portare in dote. Per questo egli parlava apertamente tanto di legittimità del potere quanto del suo esercizio, tema che da quel momento diventò l'asse portante di tutta la giurisprudenza europea moderna. Proprio di questo periodo fu il passaggio, soprattutto nella nostra penisola, da un potere tutto sommato "legittimo e scevro da assolutismo" (il Comune) ad un potere decisamente più arbitrario e spesso nemmeno legittimato se non dalla forza delle armi (la Signoria), per questo l'opera di Bartolo apparve in tutta la sua grandezza. Il suo esercizio fu portato non a capovolgere il sistema vigente, impresa francamente impossibile visto l'orientamento socio-politico che si profilava, ma a canalizzarlo all'interno di aspetti giuridici certi ed accettabili istituzionalmente. Bartolo, di cui possiamo vederne l'opera globale nei Commentari al Corpus Iuris arrivata a noi pressoché completa, ebbe il titolo di "Monarcha iuris, in legibus ut terrestre numen", titolo riconosciuto ovunque in Europa.
Difficilmente abbiamo assistito, nel corso della storia, ad una diffusione di studi giuridici simile a quella che avveniva con le sue opere ed i suoi testi erano fondamentali per ogni studente di legge accanto a quelli di Giustiniano. Se vogliamo, egli rappresentò una figura simile a quella di Papiniano, per questo, dato il momento storico importante, i suoi trattati furono utilizzati per ottimizzare le sentenze giuridiche in caso d'impasse, anzi i giudici sostanzialmente s'attennero più alle sue "risoluzioni" che alla legge vigente. Questo "arbitrato" fu accettato in eguale misura in tutto il nostro continente e per questo possiamo considerare la sua opera giuridica come la pietra miliare della giurisprudenza moderna. Per Bartolo, tutti gli imperatori che si sono succeduti sul trono erano eredi di Giustiniano, questo fu un punto estremamente importante quando egli trattò le sue dottrine politiche e le sue teorie giuridiche. Infatti, egli nella controversia esistente tra papato e impero cercò d stabilire il limite possibile della podestà a cui entrambe dovevano cercare d'attenersi, il suo presupposto di partenza fu Giustiniano, per lui esempio illuminante della doppia pratica di potere (religioso e civile), in un momento in cui il diritto canonico e quello romano stavano prendendo strade diverse sull'onda degli avvenimenti politici. Le tesi del diritto romano dovevano essere quindi utilizzate per contrastare una scelta che sarebbe andata contro "l'elezione popolare " nella questione della successione al trono in favore di quella di derivazione divina che in pratica decretava l'ereditarietà. In realtà Bartolo fu la punta di diamante d’uno sviluppo senza precedenti a livello umano per gli studi ed i commenti sul diritto in Italia durante il XIV secolo, compagni di viaggio ideali furono il capostipite Cino da Pistoia, padre spirituale del gruppo, Baldo degli Ubaldi, Paolo di Castro, Raffaele Fulgosio, Giason del Maino, Giovanni D’Andrea e Niccolò dei Tedeschi, nomi di personaggi conosciuti in tutta Europa e citati nelle varie sentenze emanate dai tribunali del tempo, le assolute ed indiscusse autorità di riferimento. La scuola dei commentatori italiana grazie all’indiscutibile genio interpretativo con cui analizzò il vecchio testo romano, le sue consuetudini e quindi le rinnovò traendo sempre spunti incredibilmente originali ed innovativi formò nello studio e nel dibattito un carattere decisamente “europeo”, nuovo quindi per il tempo, grazie alla sistematicità della metodologia con cui si prepararono le tesi, non a caso si parlò di “mos italicus” fuori dei confini italici.
Salve a tutti! Leggendo il III capitolo del libro,abbiamo notato che si torna a parlare (nel paragrafo terzo),della GEWERE,richiamando lo scritto del Prof.,inviatoci poco tempo fa via mail,"Gewere,vestitura,spolium: un'ipotesi di interpretazione". In esso l'intento è quello di rivelare il segreto della VESTITURA,che era considerata traduzione latina della germanica GEWERE. A giudizio del Prof., invece, è molto più probabile il contrario;e sembra che il VESTIMENTUM sia il riconoscimento formale di un diritto ad essere tutelati dall'autorità pubblica in caso di turbative del pacifico godimento. La VESTITURA è la premessa dell'esercizio di un'azione di spoglio. In "Gewere,vestitura,spolium",la trattazione inizia con il riferimneto ad una questione ancora molto discussa: la natura del diritto conferito al portatore di un titolo di credito, che la dottrina chiama legittimazione. Ma i commercialisti si chiedono se essa non sia altro che una manifestazione della titolarità, o se invece dia luogo ad un potere indipendente da essa. Il titolo di credito permette anche a chi non è titolare di disporne attraverso la carta in virtù della sua posizione di legittimato. Tutto ciò ha un "sostrato storico" ricollegabile al termine INVESTITURA: "i germanisti della seconda metà dell'Ottocento considerarono la VESTITURA, che incontravano nei documenti latini medievali come la traduzione dell'originaria parola tedesca GEWERE e l'INVESTITURA come l'atto giuridico che conferisce la GEWERE-VESTITURA ad un soggetto".In seguito si fa riferimento all'opera di Enrico Finzi,Il possesso dei diritti. Durante la prime lezioni, in cui si era cominciato a parlare di possesso, abbiamo avuto modo di reperire questo libro, inserendo a tal proposito un altro intervento. Secondo l'Autore, i rapporti denominati GEWERE possono ricondursi a tre: 1)la GEWERE come puro potere fisico sopra una cosa; 2)la GEWEWRE come potere di fatto, collegato con il diritto corrispondente (ad esempio, GEWERE, del proprietario; 3)la GEWERE priva di potere fisico. Finzi richiama l'opera di Albrecht,DIE GEWERE, in cui si dedica ad un esame etimologico del concetto di GEWERE che corrisponderebbe a "tutela, difesa di una cosa" e distingue la GEWERE in GEWERE con signoria di fatto su una cosa e GEWERE con signoria astratta, chiamando la prima anche POSSESSO. La "Gewere germanica" viene considerata essenzialmente dal punto di vista del suo rapporto col corrispondente diritto, come esteriorità, "apparenza del diritto". Nella parte finale della sua trattazione, Finzi si occupa dell'INVESTITURA. L'incipit è: "all'investitura in un diritto segue la possibilità legale di esercitarne il contenuto". L'effetto dell'INVESTITURA è il possesso formale di un diritto e colui che è soltanto "investito" di un rapporto è in una situazione "precaria", incerta, la cui durata dipende dall'arbitrio altrui. (Silvia Codispoti e Giovannina Damiani) ....Continua....
....Continua.... In "Gewere,vestitura,spolium", il Prof. spiega che nelle fonti in lingua tedesca l'uso del termine GEWERE non risale oltre il IX secolo. La parola non si trova in fonti più antiche della fine dell'VIII secolo; le leggi romano-barbariche non ne fanno menzione, nè GEWERE,nè VESTITURA compaiono nel linguaggio giuridico, tanto che risulta difficile porre l'istituo al centro del diritto privato germanico. Il suggerimento è quello di abbandonare il sostantivo VESTITURA e ricercare invece il verbo: VESTIRE si trova verso il Settecento, ma molto prima si trova REVESTIRE. Quest'ultimo è usato dal giurista Tertulliano per indicare la restituzione della vita promessa al cristiano, il termine è usato per indicare il rimedio alla spogliazione, alla rapina operata dalla morte. Kobler ipotizza che questo uso teologico abbia dato vita ad una terminologia giuridica, quindi conclude che la GEWERE sia un istituto in gran parte costituito nell'esperienza ecclesiastica, e passato poi nella pratica medievale. Nel contesto giuridico REVESTIRE significa dunque "intervenire d'autorità per reintegrare nel godimento dei propri beni e delle prerogative derivanti dalle cariche ricoperte colui che in seguito ad un atto di natura politica o giudiziaria ne era stato privato.E' un REVESTIRE che presenta molte analogie con l'uso teologico del termine che Kobler ha reperito in Tertulliano: il godimento dei propri beni e della propria posizione nella società è infatti concesso e garantito dall'autorità del re, il quale può restituirlo a chi ne è stato privato proprio come Dio, da cui dipende la vita stessa dei fedeli,ha promesso di restituirla a tutti i cristiani dopo la morte". Risulta che il REVESTIRE fosse un rimedio processuale che poteva essere invocato dall'ecclesiatico vittima di un precedente SPOLIUM: privazione irrituale di una posizione nella gerarchia, con tutti i godimenti materiali e spirituali ad essa collegati. Il procedimento di SPOLIUM è formalizzato per la prima volta nelle Decretali PSEUDO ISIDORIANE: gli spogliati potevano chidere di essere reintegrati nel funzioni e nel godimento dei beni ad esse collegati, di essere REVESTITI. Dunque le fonti canoniche sullo SPOLIUM ci mostrano questa VESTITURA nella sua dinamicità: INVESTITURA, SPOLIUM, REVESTIRE. Il possesso romano era altra cosa dalla VESTITURA tutelata dal procedimento di spoglio e gli interdetti ponevano alcuni limiti. I civilisti avevano limitato la figura del possesso ai beni materiali, quindi per uffici pubblici, status personali, diritti di credito, i procedimenti possessori romani erano inutilizzabili. Contro questo rigore il Prof. evidenzia che fu soprattutto Uguccio a trarre dalla norme raccolte da Graziano principi generali da applicare in ogni circostanza. Si ritiene che Uguccio quindi abbia voluto fondere la dottrina canonistica con la civilistica. (Silvia Codispoti e Giovannina Damiani) ....Continua....
....Continua.... "Il possesso romano finisce per convergere con la VESTITURA canonistica per costituire la premessa di procedimenti abbreviati, fondati sul fatto del godimento che, legittimo o no, è stato interrotto senza l'intervento dell'autorità giurisdizionale". Agli inizi del Duecento anche i laci,infatti, potevano tutelare con le azioni di spoglio la propria posizione: posizione che nella società era intesa come un vestito,una VESTITURA, che l'autorità pubblica aveva il dovere di difendere. La procedura di spoglio si applicava a tutte le VESTITURE che caratterizzavano le condizioni personali ed economiche. Il godimento di queste condizioni corrispondeva a ciò che in tedesco era chiamato GEWERE. Alla dottrina germanistica però le origini canonistiche dell'istituto non andavano a genio e così la GEWERE venne forzata dai germanisti in origini che non erano le sue. Civilisti e commercialisti sono tuttora pronti a ricorrere al termine INVESTITURA in materia di legittimazione e titoli di credito, convinti dell'origine germanica dell'istituto, ma poco attenti alla questione delle origini, perchè, come sottolinea il Prof. all'inizio della trattazione, i giuristi spesso non possono fare a meno di ricorrere alla storia, tuttavia a volta tale ricorso alla storia è poco consapevole.
Per rispondere a Silvia e Giovannina, il "vestito" e il "rivestire" sono di fondamentale importanza nella terminologia e nella simbologia cristiana. Non è forse San Paolo che esorta a "rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (Ef, 4,21-24)? Anche nell'antico testamento, Isaia, anticipando la rivelazione dell'Apocalisse giovannea, si rivolge in questi termini: "Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te". Il vestito del cristiano è ovviamente la veste candida che viene concessa ai neobattezzati, ma anche nella cultura romana, il tipo di toga simboleggiava il grado raggiunto dal cittadino nel suo cursus honorum. Nel medioevo l'investitura del vassallo era preceduta da una notte di preghiera e di riflessione in cui avveniva la vestizione. Il senso del "rivestire" è quindi quello di conferire un carattere, che può essere un carisma sacro, oppure una funzione politica. Il vestito è il simbolo ancestrale della propria posizione, nelle più primitive tra le tribù si ritrovano i segni del potere che si evidenziano in determinati "accessori" di cui si dota il capo del villaggio o lo stregone. Per quanto riguarda l'actio spolii riporto questo breve frammento:
Actio spolii eo spectat, ut spoliato res ablata ante omnia restituatur. Itaque nulla contra eum opponi potest exceptio, quae ad petitorium pertineat, veluti domini, renunciationis quod canonici non sit institutus, quod crimen commiserit [...] Quinimo non tantum res ablata spoliato restituitur, aut ejus loco aestimatio datur, sed etiam sarcienda sunt damna, ac restituendi fructus a spoliati percepti, quin etiam percipiendi, si spolium vi, aut dolo malo patratum sit. Quorum probationem, atque aestimationem spoliatus jurejurando peragere potest.
Nel terzo capitolo del libro, la ripresa dell’istituto del possesso, inteso in senso tecnico, viene svelata come spia di una trasformazione che si porta dietro l’apparizione di una nuova cultura giuridica. Trovo utile, alla luce di quanto detto nell’ultima lezione sull’importanza dello studio della storia ai fini di una maggiore comprensione del percorso che ha portato all’attuale sistematica delle due principale figure di appartenenza (possesso e proprietà), fornire qualche elemento rispetto al periodo che stiamo esaminando. A tale scopo mi è sembrato interessante osservare il Medioevo attraverso le pagine di Cinzio Violante, nelle quali l’impero medievale appare in preda ad un mutamento incessante in cui sono coinvolti diversi strati sociali. Ne “La società milanese nell’età precomunale” l’autore fa un tracciato in cui è contenuto tutto il significato del Medioevo come processo di liberazione di forze vive. Il progressivo affiorare di nuove forze politiche, il moltiplicarsi delle richieste di libertà costringono gli imperatori ad allargare la base della società feudale, estendendo i privilegi dai feudatari laici agli ecclesiastici, ai vassalli minori, ai cittadini. L’estensione al massimo del feudalesimo vuole essere, nelle intenzioni degli imperatori, che concedono benefici, privilegi e immunità, il consolidamento del feudalesimo, l’istituzione di una gerarchia rigida e complessa, l’imbrigliamento delle forze nuove nel sistema feudale. Ma a chi consideri la storia non dal solo punto di vista giuridico e pensi che in quest’epoca come non mai il diritto nasce vecchio, tale politica imperiale non appare come elemento d’ordine, bensì tradisce una situazione di disordine, se così si può definire quel momento essenzialmente rivoluzionario della storia in cui il fatto per la medesima forza e concretezza del suo esistere, si pone come diritto. Le classi feudali formatesi a seguito del crollo dell’impero carolingio si sono rinvigorite di potenza e ricchezza nella crisi del potere vescovile; si sono trasferite in città, vi hanno acquistato seguito ed autorità nel nuovo fermento di vita economica e politica. Il vincolo feudale ora è strumento per inserirsi nella gerarchia feudale e partecipare attivamente al governo della cosa pubblica. Il vincolo feudale viene così reclamato come strumento di libertà. Questa evoluzione, che conduce all’inserimento di sempre nuovi e più larghi strati sociali nel sistema feudale, contribuisce anche negativamente, per la reazione che suscita, all’incremento della libertà: quella classe cittadina di proprietari, giudici, negoziatori, che ora necessariamente viene oppressa e vede limitate le proprie libertà dal rigoglioso affermarsi della libertà degli altri come potenza economica, giurisdizionale, feudale insomma, chiede anch’essa per sé libertà, che in questa epoca non può essere se non privilegio, non può significare se non inserimento nella gerarchia feudale. La pacificazione e il reciproco riconoscimento tra i cittadini non feudali e i capitanei sono le basi sulle quali si pongono in comune i propri rivali diritti e poteri che essi detengono a titolo personale in quanto proprietari terrieri. E allora il concetto di comunità inizia a confluire in quello più grande di Comune. E’ così considerato che lo sviluppo della società feudale appare sin dal suo inizio non come un processo di involuzione, particolarizzazione, di immiserimento della vita morale, ma come un ampliarsi e un arricchirsi della vita etico – politica con l’immissione contrastata, ma sempre vittoriosa, di nuove energie. Ora il sovrano non può che limitarsi a ricostruire l’unità della gerarchia feudale su nuove basi sempre più ampie, nel tentativo di domare le energie ribelli, costingendole nell’organismo feudale, ma ottiene l’effetto opposto, perché dà così libertà di vita, inserendole nel sistema feudale, a quelle forze che poi finiranno col distruggere il sistema stesso.
Questi due aspetti centrifugo e accentratore, rivoluzionario e conservatore, del medesimo processo appaiono più chiaramente distinguibili nel secolo XI. È la contrapposizione dialettica, non cronologica di due elementi che solo astrattamente possiamo distinguere in feudale e comunale ma che costituiscono una sola realtà storica e completa: lo svilupparsi, dal seno dell’unità indifferenziata dell’Alto Medioevo, di un processo di differenziazione, ricco di fecondi contrasti che si risolvono in nuove e più complesse sintesi. Nella società feudale il potere non viene frazionato e distribuito progressivamente dall’alto, come il propagarsi di una luce fredda, ma viene conquistato d’assalto, con un moto che parte contemporaneamente dall’alto e dal basso delle classi sociali attraverso violenti scontri e contrasti; e non si ha mai l’affermazione delle classi elevate senza che quelle inferiori non riescano a farsi valere a loro volta provocando il frazionarsi del potere a loro favore. Non più classi sociali una accanto all’altra, né staticamente l’una sull’altra, ma l’una contro l’altra: violenti contrasti sono quindi la legge della società feudale, perché il fermarsi di una classe su posizioni acquisite determina sempre lo scavalcamento, o almeno il tentativo di farlo, da parte delle classi inferiori: contrasti, che non infrangono, ma rendono più viva l’unità medievale. Con tutto ciò che ne consegue in ambito culturale, giuridico e legislativo. Il diritto è fortemente influenzato dal gioco altalenante di cui è costellata l’epoca medievale, e non fa altro che seguire il suo ritmo. Credo che assumendo una visuale evoluzionistica, il decorso storico del Medioevo può essere svelato nella sua reale valenza di ruota motrice di uno sviluppo che tocca e determina anche la cultura giuridica, la quale si snoda in modo mai lineare, avanzando eppure tornando indietro quando è più opportuno, riaffermando a gran voce il proprio carattere universale, eppure rendendosi così vicina alla realtà, rinnovandosi vestendosi di antichità.
Pennington nell'articolo “Innocenzo III e lo ius commune” riprende un vecchio articolo su Innocenzo III, che era stato anni addietro bocciato dal suo editore Stephen Kuttner, in cui si poneva il problema se egli fosse dottore in legge e avesse studiato con Uguccione: le sue decretali si presentano infatti molto professionali ed erudite. il fatto che Pietro di Benevento avesse cambiato parole e frasi delle sue lettere può far supporre che Innocenzo non fosse un vero professore di diritto. Ma possiamo anche pensare che egli non immaginasse Innocenzo seduto nella cancelleria papale. Gli studiosi concordano sul fatto che Innocenzo sia effettivamente l’autore di alcune di quelle lettere, ma la loro individuazione non è facile. In realtà l'approccio allo “ius commune” nella formazione di Innocenzo sembra essere troppo riduttivo: infatti nel suo breve soggiorno a Bologna avrebbe conosciuto anche il diritto romano e i suoi concetti che non avrebbe mai potuto trovare sui testi canonici, soprattutto in tema di procedimento (come il diritto del convenuto di ricusare un giudice, situazione discussa utilizzando la terminologia romana). Pur criticato nei secoli seguenti da studiosi come Rabelais che ha ravvisato certe decretali come ostili al regno di Francia, si possono discutere alcuni esempi in cui la curia ha creato norme per lo ius commune in cui si riscontra la conoscenza legale del Papa. Un aspetto importante del diritto comune era la definizione di istituzioni giuridiche mediante l'utilizzo di massime, che troviamo nel rapporto tra diritto comune e le decretali di Innocenzo: un esempio è “quod omnes omnibus tangit ab approbari debet” che in origine era un passaggio insignificante del codice di Giustiniano, trasformato in una delle massime più suggestive di Bonifacio VIII, diventando una pietra angolare del diritto pubblico medievale. Anche la massima “necessitas legem non habet” aveva radici canonistiche: il concetto di necessità era infatti sconosciuto ai giuristi romani, presente in maniera sporadica ma mai stabilmente definito. Solo Uguccione ha dato una elegante forma al punto, riconoscendo lo stato di necessità come una deroga alla legge, decidendo di volta in volta cosa sia “urgens” o “ius”. altra massima è “publicae utilitatis intersit ne crimina remaneant impunita” nata proprio sotto Innocenzo e ha avuto un grande successo nel tardo medioevo: ha avuto la sua origine nel diritto romano, in particolare nel Digesto e risale al fatto per cui un maestro ungherese aveva ardito rubare due Folia da un registro di papa Alessandro III sotto il naso del cancelliere papale. Innocenzo III chiese al re d'Ungheria (nella decretale “Inauditum”) di indagare e condannare i criminali, affinché la malefatta non fosse impunita, a tutela dell'interesse pubblico. Un canonista inglese, Alano, notò che il passo era stato preso in prestito da una sezione del Digesto dedicata alla Lex Aquilia, in cui era affrontata una questione di diritto privato: risarcimento per danni alla proprietà in cui è stabilito che torti e malefici non rimangano impuniti. Il giurista curiale ha applicato questi principi al diritto penale. Quattro anni dopo, in un'altra decretale indirizzata all'arcivescovo di Lund, viene delegata ai laici la facoltà di individuare questi crimini per il bene pubblico, divenendo un caposaldo del diritto penale medievale.
...“Utilitas” era un concetto chiave nella giurisprudenza del diritto comune: fin dall'inizio del suo pontificato, Innocenzo III aveva ribadito i principi teocratici: la plenitudo potestatis si configurava come un potere per l'utilità pubblica. L’uilitas si è spesso collegata alla necessitas nelle sue lettere (quia vero summa necessitas exigit et communis utilitas requirit). Forse a ragione, Pennington, senza mascherare un certo sarcasmo, ricorda come per “ necessità" Innocenzo avesse indetto la quarta crociata. Mentre il più acuto passaggio linguistico dal termine maleficium a crimen è un’eloquente dimostrazione di come dal diritto privato Romano si realizzasse il nuovo diritto pubblico comune. Tornando alla domanda iniziale, ci chiediamo se effettivamente Innocenzo III fosse a conoscenza della Lex Aquilia nell'oscuro commento di Giuliano? Era veramente così dedito allo studio, oppure tra le mura di Bologna si dedicava all'ozio e a distrazioni varie? Di certo le decretali di Innocenzo III hanno contribuito enormemente alla formazione di una raffinata giurisprudenza del diritto comune. Un altro elemento di valutazione della conoscenza giuridica di Innocenzo III è il “consilium quod dominus papa Innocentius misit crucesignatis sine bulla” mentre i cavalieri si avvicinavano a Costantinopoli durante la quarta crociata. essa è l'unica lettera di Innocenzo denominata “consilium”, e sta ad indicare un responso per un problema giuridico; non era né un giudizio né una dichiarazione vincolante e, soprattutto, non era un rescritto che invece era una risposta autorevole del Papa a quesiti legali posti dai giudici o dai contendenti. Mentre un rescritto doveva avere l'autorità della sede papale, e doveva quindi essere munito della Bolla, un consilium era inviato “sine bulla”. per quanto riguarda la forza giuridica di un consilium, non ci è dato sapere, ma questo consilium non era di certo un giudizio definitivo, né una dichiarazione vincolante: gli storici l'hanno definita come una lettera papale inviata per i crociati. il messaggio ivi contenuto non ha carattere cogente, bensì esortativo. Il consilium divide i canonisti in due: le richieste erano diverse ma legate, presumibilmente formulate nella primavera del 1203 durante il tragitto da Zara a Costantinopoli: la prima questione era se i crociati potessero navigare con i veneziani scomunicati senza cadere essi stessi nella scomunica. il Papa li autorizzò a navigare con i veneziani fino alle terre del Sarracens o alla provincia di Gerusalemme. Questa decisione fu giustificata in due modi: in primo luogo se fosse stato ordinato ai crociati di abbandonare le navi veneziane dopo aver già pagato per il passaggio, i veneziani sarebbero stati ricompensati per la loro intransigenza; in secondo luogo i veneziani scomunicati erano paragonati a un capofamiglia scomunicato e i suoi diretti familiari (i crociati) non erano tenuti a evitare contatti con lui (i veneziani). Questa parte del “consilium” è divenuta parte dei diritto canonico e ha provocato un vivace dibattito tra i canonisti sulla validità di contratti conclusi con gli scomunicati. Innocenzo avvertiva poi i crociati di non muovere guerra ai Veneziani, sempre che essi fossero stati assolti. La seconda parte riguarda la questione di come i crociati potessero ottenere approvvigionamenti senza fondi sufficienti o il supporto dell'imperatore di Costantinopoli. Innocenzo III assicura i crociati di scrivere all'imperatore chiedendogli di provvedere a tutti i loro bisogni. Anche se l'imperatore aveva già promesso aiuti, nel caso in cui egli non l'avesse fatto, i crociati avrebbero potuto prendere tutto ciò di cui necessitavano dalla popolazione locale. Questa previsione imita quella concessa dagli imperatori terreni per cui il suo esercito, se aveva bisogno di cibo, poteva raccogliere le provvigioni da qualsiasi luogo.
...Anche in questo caso Innocenzo correda la disposizione di numerose citazioni bibliche per rafforzare gli argomenti di diritto. il giurista Alano ha inserito il consilium nella sua collezione, fornendolo di una glossa, ma epurandolo di ogni riferimento biblico. Citando la decretale di papa Gregorio VII anch'egli concorda con il fatto che i crociati potessero fare affari con gli eretici e gli scomunicati. per quanto riguarda la seconda parte, quella sull’approvvigionamento, il fatto che le truppe potessero procacciarsi cibo ovunque, deve aver scioccato Alano. il fatto è che Innocenzo, data l'importanza della crociata, allargò i limiti delle norme canoniche per favorire il movimento. Un'altra deroga approntata da Innocenzo fu quella per cui un uomo potesse assumere la croce senza il permesso della moglie (con una grave violazione dei diritti delle donne previsti dalle norme del XII sec.). Alcuni ritengono che Innocenzo si sia ispirato all’Authenticum, in cui viene affrontato questo genere di problema, anche se non permette ai soldati di attingere indiscriminatamente, ma riserva ai magistrati provinciali la dotazione dell'esercito. Ma secondo alcune ricerche Innocenzo non poteva essere a conoscenza di questa novella in quanto è stata aggiunta tempo dopo, per cui ancora non sappiamo quale testo di diritto romano Innocenzo avesse in mente. Sorprendentemente Alano ha citato un'altra lettera di Innocenzo che giustifica “urgens necessitas” una deroga di legge: in questo caso il furto non sarebbe stato un reato, cioè il furto è approvato quando si verifica nel momento del bisogno. Ma l'estrema necessità non avrebbe dovuto essere concepita come un privilegio generale secondo cui era permesso ai soldati di prendere la proprietà altrui. Tuttavia questa legge rimase in vigore. Le argomentazioni bibliche addotte da Innocenzo si troverebbero nel libro dei Giudici, secondo Alano, in cui Gideon uccise gli anziani Succoth e distrusse Penuel perché quelle città non avevano fornito di cibarie il suo esercito. Secondo questo abile montaggio, Alano cercò di incorporare il secondo consilium nel diritto canonico mentre i giuristi che seguiranno non saranno della stessa opinione, i quali elimineranno ogni argomentazione teologica. In base a questo Consilium, se si dovesse valutare la conoscenza giuridica di Innocenzo, il voto sarebbe alquanto basso. In conclusione Pennington si rivolge all’editore che anni addietro aveva smontato le sue teorie, ribadendo i suoi dubbi sulla formazione giuridica di Innocenzo III, in quanto se teniamo conto solo della massima “ne crimina remaneant impunita” allora Innocenzo sembrerebbe un grande giurista; ma se ci aggiungiamo il Consilium per i crociati, allora le sue capacità scadono notevolmente.
Riallacciandomi all'intervento di Irene sull'Umanesimo va ribadito che, con l'umanesimo giuridico, siamo giunti ad un momento intenso di frattura verso le certezze medievali, siamo giunti in altre parole, al primo atto di una vicenda nuova; l'umanesimo giuridico, lungi dal restare conchiuso nei termini storici dei secoli XV e XVI in cui si manifesta, avrà uno sviluppo dei secoli successivi e contribuirà a plasmarli. Il nessaggio dell'umanesimo giuridico può essere ridotto ad una ferma polemica verso le carenze metodologiche di glossatori e commentatori, verso il modo disinvolto con cui essi avevano maneggiato il diritto romano. Il loro sguardo si era accontentato di analizzare puntigliosamente il Corpus iuris giustinianeo senza la preoccupazione di comparare i vari stadii di elaborazione che la Cancelleria bizantina del secolo VI d.C. aveva confuso ed anche soffocato. Agli occhi dei nuovi giureconsulti umanisti il diritto romano doveva essere recuperato alla sua effettiva dimensione storica, cioè per quello che era stato e come era stato e come si era sviluppato in mille anni di vita. E' una battaglia culturale che impegna gli ingegni più vivaci in tutta Europa: il lombardo Andrea Alciato, il francese Guillame Budé e il germanico Ulrich Zasius sono i modelli più prestigiosi di un orientamento metodologico che sta avendo consensi sempre più larghi. L'apporto di altre scienze, invocato a fornire solidti supporti culturali al diritto , è la strada maestra che può portare a uno strutturale riordinamento dell'ammasso caotico del diritto romano. Quello voluto e attuato da Giustiniamo e dai suoi solidali non lo fu; fu piuttosto il soffocamento delle precedenti voci del diritto classico e post classico nella loro tipicità storica. L'esigenza è,ormai, una sola: restituire il diritto romano ai Romani, seguirne fedelmente le mutazioni prodotte nella civiltà giuridica romana durante il distendersi di un millennio.
GRANATO LORENA Mi scuso sia per l’orario insolito sia per il ritardo col quale posto questo mio breve commento ma per problemi tecnici mi è stato possibile elaborare e postare detto commento solo ora. Noto che è stato già fatto un grande lavoro incentrato sul terzo capitolo, come suggeritoci dal professor Conte, e soprattutto focalizzato sulla proprietà, possesso e Gewere. A completamento di quanto già da voi detto vorrei inserire alcune parti di uno scritto di Puchta che mette in evidenza, relativamente al diritto romano, quelli che erano i rimedi esperibili a difesa del possesso: gli INTERDETTI.
Ma il Possesso ha realmente nel diritto romano una esistenza giuridica? Fra gli Interdetti Possessori, coi quali il Pretore difendeva gli interessi privati, occorrono oltre quelli che suppongono la prova d’un diritto sopra una cosa, o sopra una persona, e nei quali il giudice doveva decidere sulla esistenza di questi diritti, anche alcuni altri, nei quali trattasi solamente di investigare, se realmente si esercitava non in un modo provvisorio un diritto pubblico, di famiglia e di proprietà: sicchè l’Interdetto si fondava sulla semplice esistenza di questo Fatto, e da essa dipendeva parimenti la decisione; interdica quae possessionis causam habent. In questa classe sono noverati anche quelli, che hanno a loro fondamento il Possesso dell’attore,e che sono i veri Interdetti Possessori: i quali alcune volte hanno lo scopo di assicurare da una violazione il presente possesso, altre volte di restituire il possesso perduto, essendo detti secondo questa differenza d’un tale scopo retinendae o recuperandae possessionis. Le Interdicta retineandae possessionis hanno lo scopo di conservare il possesso, che non viene riconosciuto e opposto alla parte contraria. L’opposizione può essere una violazione materiale, un fatto, col quale s’impedisca a colui a cui il possesso dà un potere di fatto sulla cosa, d’imprendere alcun che su questa, oppure che l’opponente esegua egli stesso qualche cosa, senza negare però il possesso al possessore. Ma anche il semplice fatto di negare il possesso senza essere accompagnato da un’attività esterna è sufficiente ragione per concedere l’interdetto(era questa anzi la situazione ordinaria). Nelle questioni sulla proprietà la parte che doveva sostenere ciascuno dei litiganti nel processo dipendeva dal possesso: il presente possessore aveva il vantaggio di essere il convenuto, essendo imposto alla parte contraria l’onus petitoris. Ma quando ciascuna delle parti pretendeva il possesso, era questa la prima questione da risolvere. Secondo il più antico diritto non si faceva di ciò un processo speciale, decidendo il pretore secondo il so criterio: ma successivamente fu dato l’interdictum retinendae possessionis, conseguentemente al quale era decisa in un giudizio speciale la questione sul possesso: secondo Ulpiano sarebbe stata questa la prima occasione di questi interdetti. Lo scopo, che si perseguiva con gli interdetti, era sempre il riconoscimento del possesso: nei casi di una violazione di fatto vi si aggiungeva il risarcimento dei danni che ne provenivano. Il Pretore propose un doppio interdetto, per le cose immobili e per le mobili: al possesso delle prime si applicava l’interdictum uti possidetis. Per vincere in questo processo era necessario essere possessore presente: né ciò bastava, il possessore on doveva aver acquistato il possesso dalla parte contraria vi, nec clam, nec precario, ossia che il suo possesso non doveva essergli stato trasmesso con uno di quei tre vitia possessionis: violenza usata contro la parte contraria, occultamento del fatto dell’acquisto del possesso, o di una cessione del possesso con l’obbligazione della restituzione ad arbitrio del cedente. Quando dunque alcuno era affermato possessore, ma il suo possesso aveva rispetto alla parte contraria uno di quei tre vizi, il possesso era riconosciuto a quest’ultima parte: potendo in tal modo avvenire che per effetto dell’interdetto fosse riconosciuto possessore colui che non lo era in quel momento. CONTINUA..
continua(vedi sopra)..GRANATO LORENA Al possesso delle cose mobili si applicava l’interdictum utrubi. In questo interdetto e secondo l’editto pretorio non si decideva del possesso secondo il momento presente: la lite era vinta da colui che provava di aver posseduto più a lungo nell’ultimo anno a cominciare dal principio del processo retroattivamente, non valendo però anche per le cose mobili un possesso che si era acquistato vim, clam o precario dalla parte contraria: per contro ciascuno poteva aggiungere alla durata del suo possesso anche quella del suo antecessore, dal quale lo aveva acquistato ex iusta causa, ammettendosi in tal modo una accessio possessionis. …. Abbiamo osservato, che quando il possesso era tolto al possessore per violenza o furtivamente, o quando egli l’avesse ceduto per precarium, gli era lecito reclamarlo in un anno con gli interdetti retinendae possessionis. Ma occorre un’altra classe speciale d’interdetti, ch’erano principalmente diretti ad un tale scopo e detti interdica recuperandae possessionis: l’interdetto de vi, de clandestina possessione, de precario. … Il possesso, come potere di fatto sopra una cosa, importa due condizioni: 1). uno stato corporale, un rapporto corporale con la cosa, il quale crei quel potere, ossia la possibilità di disporre illimitatamente di essa; 2). una volontà diretta alla cosa: noi non possiamo attribuire alcun dominio sopra questa a colui che manca di coscienza, anche quando esista l’attinenza corporale sulla cosa: che si attacchi, per esempio, qualche cosa a chi dorme, questi non possiederà finchè non ne abbia la conoscenza e la volontà di avere la cosa. Questi due elementi del possesso sono espressi dai giureconsulti romani con leparole: corpus ed animus, ed invece di animus è usata anche l’espressione affectio tenendi o possidenti. Il corpus può essere differente secondo la varietà delle posizioni corporali, che ci pongono in quella condizione: può consistere in ciò, che io abbia la cosa nella mia mano, o la conservi chiusa, o che passeggiando calpesti il territorio ecc. sono queste altrettante forme d’un medesimo stato; ma nella sua essenza il corpus ossia l’attinenza fisica è sempre la medesima. Rispetto a questo primo momento non vi ha differenti specie di possesso. Per contro il potere di fatto può variare a seconda della diversità dell’animus, col quale io posseggo una cosa, e della volontà che si riferisce ad ogni possesso particolare. Ci si presente il caso che la volontà del possessore risponda perfettamente allo stato corporale. Se questo comprende la totalità della cosa, e ne ha l’assoluto dominio e la possibilità di disporne a proprio talento e con esclusione degli altri, la volontà risponde a questo stato corporale, quando intende a questa totale potere sulla cosa ed è diretta ad averla interamente per se. È questa la volontà diretta ad avere un assoluto dominio sulla cosa; e può essere paragonata a quella d’un proprietario…
Questi spezzoni di testo sono tratti dal libro: “Storia del Diritto presso il Popolo Romano, Corso delle Istituzioni” di Georg Friedrich Puchta.
Buonasera a tutti! Oggi a lezione parlando delle modifiche al possesso e alla sua tutela processuale nell’XI secolo, abbiamo accennato al sistema dei danni punitivi. L’anno scorso, al corso di atti e pareri di diritto civile, avevo scritto un tema in cui si spiegava in cosa consistono e si discuteva sulla loro idoneità o meno a entrare nel nostro ordinamento. Ho pensati potesse essere interessante pubblicarlo sul blog anche se ovviamente con il possesso medievale non c’entra praticamente nulla. Le fonti usate sono la sentenza in esame della Cassazione, n. 1183 del 2007 e due articoli: Castronovo, “Del non risarcibile aquiliano:danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale” e Sirena, “Il risarcimento dei c.d. danni punitivi e la restituzione dell’arricchimento senza causa”.
La sentenza della III sezione civile della Corte di Cassazione del 19 Gennaio 2007 n. 1183 ha riaperto il dibattito in dottrina sulla risarcibilità o meno dei cosiddetti danni punitivi nel nostro Paese. Prima di soffermarsi sulla sentenza e sulle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte, è necessaria una breve premessa che chiarisca cosa si intenda per danni punitivi e quale sia l’origine di questo istituto. I danni punitivi nascono nel sistema nordamericano dei torts e consistono nel riconoscimento da parte dei giudici (spesso non professionali, le cosiddette giurie) di una somma di denaro notevolmente maggiore rispetto all’entità del danno subito dal soggetto richiedente quando la condotta del soggetto danneggiante è considerata particolarmente deplorevole e pericolosa. Appare quindi chiaro come la figura in esame abbia una funzione più deterrente che compensativa e le relative sentenze abbiano perciò carattere esemplare nei confronti del danneggiante e dei consociati. C’è da ricordare però che negli ultimi anni a causa del proliferare delle sentenze che riconoscevano il risarcimento dei danni punitivi e soprattutto dell’esagerato ammontare che spesso tali somme raggiungevano, la Corte Suprema americana ha posto dei paletti per la quantificazione di esse: -la non contrarietà ai principi costituzionali e in particolare al concetto di “giusto processo” (XIV emendamento); -il riferimento all’ammontare del danno effettivamente subito dalla vittima, all’antigiuridicità della condotta del danneggiante e a eventuali altre sanzioni civilistiche comminate per comportamenti analoghi; -il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Essendosi ora chiarite la funzione e l’origine dell’istituto si può tornare all’esame della sentenza alla quale si è fatto cenno in principio. La Corte di Cassazione italiana con detta pronuncia ha avallato la decisione della Corte d’Appello di Venezia che aveva rifiutato la delibazione di una sentenza della Corte distrettuale di Jefferson (Alabama) in quanto contraria all’ordine pubblico italiano: l’ammontare eccessivo e il carattere punitivo della somma in questione stridono infatti con il nostro concetto di responsabilità civile caratterizzato dalla natura risarcitoria e compensativa del danno subito. Nello specifico la sentenza condannava un’impresa italiana di caschi a corrispondere una notevole somma di denaro a titolo di danno punitivo alla famiglia di un uomo morto in moto in quanto il casco che portava difettava nella fibbia di chiusura e non lo ha quindi protetto a dovere nello schianto contro un’automobile. I sostenitori dell’estraneità della figura dei damages al nostro sistema (si veda per esempio Carlo Castronovo) fanno leva soprattutto sulla funzione e sul concetto di responsabilità civile come delineata dal nostro codice civile agli articoli 2043 e ss. Tale articolo è preso come perno dell’intera disciplina. In esso è previsto al soggetto danneggiato la corresponsione di un risarcimento a seguito di un danno ingiusto subito a causa della condotta dolosa o colposa del soggetto danneggiante. Dalla formulazione si ricava la natura compensativa, restitutoria di tale risarcimento; la funzione deterrente-punitiva sarebbe quindi inesistente in tale contesto. A ulteriore prova si è aggiunto che la previsione del risarcimento “in natura” o “per equivalente” non può che essere riferito al danno subito e non certo alla condotta tenuta dal danneggiante la cui punizione è eventualmente riservata al diritto penale. Altra parte delle dottrina (si ricorda Guido Calabresi per esempio) invece si presenta più favorevole all’estensione di questa particolare forma di risarcimento anche in Italia partendo dal presupposto che ormai il fenomeno della globalizzazione interessa tutti i campi della cultura e della società compreso quello del diritto. Punto di partenza per una tale conclusione è un’analisi più attenta di tutta la disciplina del risarcimento che coinvolge oltre ai casi del codice civile anche quelli previsti dal diritto dell’ambiente, dalle norme sulla responsabilità civile dei Magistrati e della difesa della proprietà industriale. In questi campi infatti emerge una tutela risarcitoria maggiore, maggiormente calibrata alla deplorevolezza della condotta (i valori in gioco sono particolarmente elevati ) che lascia trasparire anche una funzione sanzionatoria delle norme in questione.
Ma lo stesso articolo 2059 del codice civile potrebbe essere preso per la dottrina in esame, quale punto di partenza per l’ingresso dei danni punitivi nel nostro sistema di responsabilità civile. Esso accorda un ristoro a seguito di una perdita non patrimoniale subita dal soggetto; il risarcimento viene accordato ora, in modo sempre più estensivo, a vittime di reati che hanno subito perdite non solo patrimoniali ma anche morali e sentimentali. Essendo logicamente difficile quantificare in denaro tali danni si lascia la decisione al giudice che quindi come parametri sicuramente non prescinderà dalla condotta alla base del reato causa del danno. Soprattutto in questa sede entrano in gioco grandi valori dell’individuo e quindi appare in tutta chiarezza come non si possa negare che il risarcimento che il giudice attribuirà secondo equità possa fungere anche da sanzione nei confronti del danneggiante oltre che da ristoro per il danneggiato. Si nota inoltre come il processo logico seguito per la quantificazione della somma sia simile a quello svolta dai giudici americani per la liquidazione dei danni punitivi: esame della condotta, del danno e quantificazione della somma che spesso per le delicate questioni a cui si riferisce raggiunge anche cifre decisamente notevoli. Da ultimo si veda anche come pure nel nostro sistema giudiziario negli ultimi anni si stia assistendo a un proliferare di danni riconducibili all’ambito dell’articolo 2059 che hanno indotto i Tribunali a porsi dei freni nell’accordare i risarcimenti e il loro ammontare così come analogamente è successo negli Stati Uniti con l’intervento della Corte Suprema per arginare l’eccessività delle somme erogate a titolo di damages. C’è poi un’altra parte della dottrina (tra cui Pietro Sirena) che si è mantenuta in una posizione per così dire intermedia. Essa ritiene che allo stato attuale nel nostro sistema di responsabilità civile il risarcimento a titolo di damages non sia possibile data l’inequivocabile natura compensativa e non deterrente-punitiva (come del resto ribadito dalla terza sezione della Corte di Cassazione) che da noi riveste e ha sempre rivestito fin dalla tradizione romanistica. Tale dottrina, tuttavia, non è contraria in assoluto all’ingresso nel sistema di questa figura, anzi lo auspica nel futuro. Ritiene però che al fine di rendere ciò possibile bisogni prima pervenire a una modifica legislativa che parta dall’articolo 2059 del codice civile e che includa in quest’ultimo tutti i casi di danni derivanti da atti compiuti in male fede e non solo da reato; dovrebbero essere altresì restituiti tutti i profitti e gli arricchimenti ottenuti in mala fede anche se non hanno prodotto danni e da ultimo, il parametro per la quantificazione delle somme liquidate dovrebbe essere quello del valore di mercato. Concludendo appare chiaro come allo stato attuale la dottrina sia ancora spaccata sulla questione dei danni punitivi, ma allo stesso tempo aperta ad essi e al loro riconoscimento in Italia; è chiaro inoltre che i “punti di aggancio” per il loro ingresso esistono e così come sostenuto dall’ultima dottrina riportata a seguito di una modifica legislativa nulla osterebbe alla loro introduzione. Allo stato attuale però, così come affermato dalla Corte nella sentenza ricordata, essi appaiono ancora contrari o meglio stridenti con il nostro ordinamento e in particolare con le finalità del nostro sistema risarcitorio.
Nell’innovativa esperienza di common law possiamo mirabilmente osservare come la condanna pecuniaria inflitta all’autore di un illecito civile presenta varie componenti costitutive che spaziano a seconda degli scopi perseguiti da risarcimenti aventi finalità riparatorie e restitutorie,si parla allora di “compensatory damages” e risarcimenti con fine sanzionatorio,deterrente o anche meramente simbolico, si parla invece di “non compensatory damages” e finanche di “exemplary damages”. Le funzioni collegate con la prima categoria di danni vengono soddisfatte con il ricorso agli special damages che l’attore deve chiedere specificatamente e ovviamente dimostrarne l’ammontare, e ai general o presumptive damages,che includono i risarcimenti per danno morale e soggettivo(damages for pain and suffering),per cui invece l’attore non deve provarne l’entità. Gli exemplary o vindicative damages….azionano una vera e propria risposta punitiva verso il responsabile della condotta contra ius e svolgono una duplice funzione ripristinatoria e satisfattoria dell’attore ingiustamente danneggiato e special-preventiva,cioè di deterrenza avverso comportamenti indisciplinati del medesimo genere. Tali azioni repressiva e di special-prevenzione soggiacciono alla verifica dell’elemento soggettivo del dolo o colpa grave in capo all’offensore insieme all’elemento oggettivo della realizzazione di forme lesive tipiche ritenute socialmente dannose,come alcune categorie di illeciti civili. L’ambito naturale di applicazione di tali condanne cosiddette esemplari ha spaziato da casi di diffamazione,violazione volontaria dell’integrità fisica,della proprietà e si è espanso ai casi celebri di responsabilità del produttore,lesione di diritti civili,trasgressioni di norme di legge. Si registra,quindi una certa tendenza dilatatoria da forme di tutela rafforzata di diritti assoluti come diritti della persona o di proprietà a forme di responsabilità più recenti e sofisticate. Ammettere una risarcibilità del danno punitivo ha significato e significa tuttora aprire la strada a sanzioni private di stampo penalistico,cosa che a suo tempo fu criticata con preoccupazione già nell’ordinamento degli Stati Uniti a partire da una sentenza del 1844,laddove alcuni giudici americani ritennero tale modus agendi una indebita ingerenza di logiche penalistiche in campo civile. Altri giudici riconobbero una certa ragionevolezza nella potente forza deterrente della sanzione unita alla funzione retributiva della medesima verso una condotta antisociale. Certamente a rigor di logica quello che questi giudici fanno è assolutamente una contaminatio di logiche e categorie del diritto penale agli strumenti di diritto civile,perché sia l’idea di retribuzione che quella di deterrenza e quindi la special-prevenzione nascono connaturate ad una certa visione della funzione della pena e del delitto. E però vanno sottolineti due aspetti:il fatto che non è tipica degli ordinamenti di common law la netta definizione continentale tra torts e crimes;che tale visione del punitive damage si armonizza con una certa marcata indipendenza dei processi penale e civile nell’esperienza americana,che normalmente non smette di creare incongruenze.
Detto ciò la dizione “pena privata” assai cara a qualche autore si deve proprio alle corti di common law che definiscono la figura giuridica proprio come un “private remedy” piuttosto che una “public criminal sanction” e che ammettono la sussistenza non per quei casi di condotta illecita sorretta da mera colpa,perché questa sarebbe funzione pleonastica rispetto a quella svolta dai torts,ma soprattutto quando la condotta lesiva sia caratterizzata da evil motive,fraudolent purposes,o addirittura recklessness,cioè malevolenza,scopi fraudolenti,disprezzo dell’altrui diritto. Ora questi stati soggettivi che una certa dottrina penalistica definirebbe”qualificati” sono tributari della criminal law e si pongono in una situazione di giustapposizione con la classica figura dell’intent. In realtà la “malice” con cui viene mirabilmente definito questo elemento soggettivo del danno punitivo,in sede giurisdizionale è qualcosa di molto più fluido ed attenuato,nel senso che l’accertamento della giuria è volto a sventare anche solo una malice implicita,indiretta ovvero desumibile dalla natura dei fatti. È quindi importante sottolineare come il giudizio sui punitive damages si colloca a metà strada tra le esigenze del processo penale(colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio) e del processo civile(evidenza preponderante della responsabilità dell’offensore).
Delineate queste brevi note,ciò che mi preme ribadire è che il punitive damage di common law risulta ben incardinato, nonostante una certa forza espansiva, in elementi soggettivi e oggettivi di una certa stringenza come dimostra la ricorrenza del particolare e qualificato stato soggettivo dell’agente che è la malice,su cui è chiamata al vaglio anche la giuria, e che va a connotare in maniera quasi costitutiva questa particolare forma di responsabilità. L’elemento soggettivo della malizia,ovviamente tecnicamente intraducibile nelle nostre rigidità, è uno stato soggettivo che parrebbe sfumato come molti altri nel common law dei torts o dei crimes,ma che in realtà conferisce una particolare coloritura psicologica alla condotta dell’agente e al danno da esso prodotto. Ora al contario in un classico sistema di civil law come quello tracciato dal 2043 cc, l’illecito civile a ben pensare non è cosi fortemente connotato all’elemento soggettivo o oggettivo quando piuttosto non risulta assolutamente sbilanciato nella centralità del terzo elemento della responsabilità civile,ovvero il nesso causale,il che dà un radicamento materiale piuttosto forte all’intera vicenda. È ciò è assolutamente testimoniato da un passo della celebre sentenza 1183/2007 della cassazione laddove la corte rammenta l’indiffernza per la condotta del danneggiante nella definizione del risarcimento ex art 2043[ Nel vigente ordinamento l'idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante].
La forza dirompente del danno punitivo si cela nell’inversione del classico rapporto tra risarcimento e sfera del danneggiato a favore di un rivalutato rapporto tra risarcimento e condotta lesiva del danneggiante. Qui il quantum della restituzione si calcola anche e soprattutto tenendo ben in conto la figura dell’autore della condotta illecita. Riposa qui anche il meccanismo della deterrenza,perché se ad un certo punto il risarcimento dipenderà dalle valutazioni fatte sull’offensore,questi potrà in futuro “auto-orientarsi”,specie nei casi di illeciti seriali,assolvendo così alla funzione principale della sanzione. La inflazionata incompatibilità strutturale tra gli elementi costitutivi del danno punitivo e un sistema di responsabilità aquiliana forse è da ricostruirsi in termini storici evidenziando quella così caldeggiata estraneità ai nostri sistemi continentali di diretta derivazione romanistica di una necessaria prevenzione dell’illecito, una ipertrofia del diritto criminale unico detentore di finalità retributive e deterrenti,di una tradizionale funzione del risarcimento come ristorazione, reintegrazione nello status quo ante dell’offeso. Ma se fosse veramente così, e cioè se il risarcimento fosse sempre stato orfano di una idea punitiva-sanzionatoria,come si collocherebbe un primo embrione di danno punitivo che troviamo addirittura nel tardo impero,nella costituzione Si quis in tantam in cui si assiste ad un caso di inasprimento delle conseguenze derivanti dall’insinuazione violenta nel possesso altrui? Qui,leggendo tra le righe ben potremmo vedere nella sanzione comminata dall’imperatore,gli elementi costitutivi del danno punitivo:una condotta contra ius(occupazione violenta di beni posseduti da altri);la malice:animo di ledere l’altrui diritto;l’evento dannoso:il mancato godimento del bene posseduto;la risposta sanzionatoria direttamente inferta dall’alto:perdita del dominium,versamento di una somma pari al valore della res spossessata,restituzione della res in questione.
Oggi a lezione abbiamo parlato della vicenda del divorzio tra Lotario ii e Teutberga. In particolare il riferimento era mirato ad evidenziare come l'azione di restituzio, la revestire, fosse applicata anche a casi, come quello in oggetto, in cui l'episodio attiene ad uno status piuttosto che alla proprietà di un bene materiale. Abbiamo ritenuto interessante approfondire i dettagli di questo divorzio che al tempo provocò tanto scalpore e altrettante trattazioni giuridiche e canoniche. Riportiamo quindi , sperando anche voi possiate trovarlo interessante , quanto rinvenuto a seguito di una piccola ricerca.
Nell'855 Teoberga divenne regina di Lotaringia, avendo sposato Lotario II, figlio secondogenito dell'Imperatore d'Occidente (840-855) Lotario I [(795-† 855) e di Ermengarda di Tours (?-† 851).
Non essendo in grado di concepire un erede a Lotario II, da questi, nell'857, fu ripudiata[1] e rinchiusa in un monastero. Lo scopo di Lotario era quello di poter sposare Waldrada, la sua concubina, e di legittimare i figli avuti con costei. Il fratello di Teoberga, Uberto, abate di Saint Maurice de Valais, non gradì e, prese le armi, impose a Lotario di riprendersi la sorella (858).
Nel febbraio 860, Lotario convocò un concilio ad Aquisgrana (o Aix-la-Chapelle), dove di fronte ai vescovi di Lotaringia, la regina Teoberga confessò le sue colpe e fu condannata, per cui fu imprigionata, ma il sinodo non si pronunciò sulla possibilità del secondo matrimonio. Qualche mese dopo il vescovo di Reims, Incmaro compose un voluminoso trattato, il De divorcio Lotharii et Teulbergae, in cui attaccò, da un punto di vista morale e legale, la condanna della regina pronunciata nel sinodo di Aix-la-Chapelle, che riuscì a coinvolgere nella contesa il re dei Franchi occidentali, Carlo il Calvo, che diede rifugio a Teoberga, che era riuscita a sottrarsi alla prigionia ed a suo fratello, Uberto che aveva dovuto abbandonare il Vallese e la Lotaringia.
Nell'862, con l'appoggio del fratello, l'imperatore, Ludovico II, e dello zio Ludovico II il Germanico, re dei Franchi orientali, Lotario II convocò un secondo concilio ad Aquisgrana, dove il sinodo dei vescovi annullò il matrimonio con Teoberga, per cui Lotario fu finalmente libero di sposare Waldrada. Il matrimonio fu celebrato nello stesso anno (862). Teoberga, con l'appoggio di Carlo il Calvo e del vescovo di Reims, Incmaro, si appellò al papa Nicola I, perché annullasse il matrimonio di Waldrada con Lotario che si appellava anche lui al papa perché lo riconoscesse valido
Nello stesso anno (863), per volere del papa, fu convocato, a Metz, un sinodo di vescovi Franchi nel quale si confermò la validità del matrimonio tra Lotario e Waldrada, basandosi su un preteso matrimonio tra Lotario e Waldrada, precedente all'unione di lotario con Teoberga. Ma l'abate Uberto intervenne presso il Papa Nicola I che, venuto a conoscenza di ciò che era accaduto al sinodo, sconfessò i suoi legati e annullò le decisioni prese a Metz. Gli zii di Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico II il Germanico, re dei franchi orientali, nell'865, si incontrarono a Tusey, nei pressi di Vaucouleurs, dove progettarono la spartizione del regno di Lotario, che spaventato si appellò al papa dichiarandosi disposto ad accettare ogni sua decisione. Lotario, in cambio della garanzia che gli zii avrebbero rispettato l'integrità dei suoi domini, dovette richiamare nuovamente a corte Teoberga, che rientrò in Lotaringia accompagnata dal legato papale, Arsenio, che il 15 agosto 865 officiò una messa solenne di fronte alla coppia reale, che fu investita delle insegne della sovranità, mentre Waldrada, essendo state dichiarate nulle le sue nozze, fu costretta ad abbandonare la Lotaringia. Dopo poco però Waldrada rientrò in Lotaringia e venne scomunicata.
Il papa Nicola I morì il 13 novembre 867 ed il nuovo papa Adriano II, si mostrò più conciliante con Lotario e liberò immediatamente dalla scomunica Waldrada, allora Teoberga, stanca della situazione si disse disposta ad autoaccusarsi di fronte al papa, ma Adriano II rifiutò di riceverla, convinto della sua innocenza. Comunque il papa, nel 869, ricevette Lotario a Roma, dove gli diede una risposta positiva alle sue richieste. Lotario però, sulla strada del ritorno, l’8 agosto 869, morì nei pressi di Piacenza.
I figli di Lotario e Waldrada furono dichiarati bastardi e mentre gli zii Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, che avevano parecchi sostenitori tra la nobiltà della Lotaringia, poterono reclamare la successione, impossessandosi dei domini del nipote. L’anno seguente sancirono la spartizione col Trattato di Mersen.
Alcuni cenni biografici su Incmaro di Reims (806 – Épernay, 21 dicembre 882). E' stato un teologo e filosofo francese, arcivescovo di Reims (Notre-Dame di Reims è la cattedrale di Reims, dove fino al 1825 vennero incoronati i re di Francia, a partire dal 987, quando il conte di Parigi Ugo Capeto iniziò la dinastia dei Capetingi fino all'incoronazione, nel 1825, di Carlo X). Destinato alla vita monastica, fu allevato a Saint-Denis sotto la direzione dell’abate Ilduino (divenuto abate nell'815 e poi nominato vescovo di Parigi intorno all’819 dall'imperatore Ludovico il Pio) che lo introdusse nell'822 alla corte dell'imperatore. Quando Ilduino cadde in disgrazia nell'830 per aver parteggiato per Lotario I, Incmaro lo accompagnò nell’esilio di Corvey in Sassonia, da dove tornarono insieme a Saint-Denis quando l’abate si riconciliò con l'imperatore rimanendogli fedele anche durante le lotte con i figli. Dopo la morte di Lodovico il Pio nell'840, Incmaro appoggiò Carlo il Calvo, ricevendone in cambio le abbazie di Nôtre-Dame a Compiègne e di Saint-Germer-de-Fly. Nel 845 ottenne dal re l'arcivescovado di Reims, a spese del suo predecessore Ebbone, deposto nell'835 nel sinodo di Thionville per aver infranto il patto di fedeltà con l'imperatore Lodovico, essendosi unito a Lotario. Dopo la morte di Lodovico, Ebbone rientrò nelle sue prerogative dall'840 all'844, finché papa Sergio II ne confermò la deposizione. Una delle sue prime iniziative fu quella di ottenere il ritorno alla sede arcivescovile dei beni che erano stati concessi ai laici da Ebbone. Incmaro fu sempre in conflitto con i chierici ordinati da Ebbone, l'ordinazione dei quali egli considerava illegittima. Questo conflitto pesò sul comportamento di Incmaro: nei successive trent'anni della sua vita egli giocò un ruolo preminente negli affari della chiesa e s'ingerì in quelli dello stato. Il suo primo scontro avvenne con il monaco Gotescalco, la cui teoria della predestinazione si richiamava alla dottrina del tardo Agostino. Incmaro la considerò eretica, ottenendo l'imprigionamento a vita di Gotescalco nell'849, per quanto quest’ultimo avesse ottenuto l'appoggio di Lupo Servato, di Floro di Lione, e del vescovo di Lione, Amolone. Gotescalco fu condannato nei concili di Quierzy, tenuto nell'853, di Valence nel 855, di Langres e di Savonnières, presso Toul, nell'859. Per contestare le tesi di Gotescalco, Incmaro compose una De praedestinatione Dei et libero arbitrio, e contro altre proposizioni avanzate da Gotescalco sulla Trinità la De una et non trina deitate. Altro problema di cui volle occuparsi fu il divorzio di Lotario II, re di Lotaringia, che aveva ripudiato la moglie Teutberga per sposare Waldrada. A questo riguardo compose nel 860 il De divorcio Lotharii et Teulbergae, in cui attaccò, da un punto di vista morale e legale, la condanna della regina pronunciata nel sinodo di Aix-la-Chapelle nel febbraio 860. Incmaro appoggiò anche la politica di Carlo il Calvo nei confronti della Lotaringia, della quale Carlo fu consacrato re a Metz nel 870. Nella metà del IX secolo una collezione di false decretali, le cosiddette Decretali dello Pseudo-Isidoro, elaborate molto probabilmente a Reims al tempo di papa papa Leone IV (847-855) e falsamente attribuite a Isidoro di Siviglia per dar loro la massima autorevolezza, assegnavano al papato una decisiva preminenza sui sinodi provinciali e sui singoli vescovi, il cui ufficio veniva altresì sottratto all'influsso dell'imperatore. In questo modo, il papa diveniva il capo assoluto della Chiesa e se i vescovi perdevano dignità di fronte a lui, venivano in compenso sottratti alla tutela del potere laico. Incmaro, particolarmente geloso della propria autorità, entrò presto in rotta di collisione con il vescovo di Soissons, Rotadio, nettamente a favore delle Decretali.
Un ancor più serio conflitto insorse nell'876 tra Incmaro da una parte e Carlo il Calvo e il papa Giovanni VIII dall'altra, quando quest'ultimo, su richiesta dell'imperatore, concesse ad Ansegiso, arcivescovo di Sens, la primazia sulla Gallia e sulla Germania, creandolo vicario apostolico. Il fatto rappresentava, secondo Incmaro, una grave intromissione nei poteri giurisdizionali degli arcivescovi, come espresse nel suo scritto De jure metropolitanorum; nello stesso tempo scrisse una Vita di san Remigio, tentando di provare il primato della Chiesa di Reims su ogni altra chiesa francese e tedesca. Carlo il Calvo, tuttavia, fece riaffermare I diritti di Ansegiso nel sinodo di Ponthion. Nell'852 restaurò e ristrutturò ampiamente la cattedrale di Reims e la consacrò nuovamente. Nell'autunno dell'882 un’irruzione di Normanni lo costrinse a rifugiarsi a Épernay, dove morì alla fine dell'anno. L’Enciclopedia Cattolica attribuisce a Incmaro la leggenda della Santa Ampolla contenuta nella sua Vita di san Remigio. La figura di Incmaro è assai discutibile, basta studiare A. Fliche-V. Martin, Storia della Chiesa, per apprendere la sua lunga attività di falsario di documenti e decretali di diritto canonico o perlomeno di sfruttatore di falsi documenti di prepotente depositore del vescovo Ebbone dalla sua carica, in maniera anticanonica. Incmaro (pur se non è il compilatore di esse) si è riferito certamente alle false decretali sin dall’852 e se ne è servito per il suo potere personale. Papa Niccolo I entrò in conflitto con Incmaro attorno all’862, in quanto egli assai rigido con i suoi soggetti «non ammetteva resistenze dei suoi subalterni; ma l’idea di un potere superiore che intervenisse tra lui e i suoi vescovi, non mancava di ispirargli una certa ripugnanza». Lui poteva disubbidire al Papa, ma guai a chi disubbidiva a lui, “nihil sub sole novi”. Il fatto che l’arcivescovo di Reims fosse il depositario e custode dell’Ampolla portata dallo Spirito Santo a Remigio nel 498 o 499 a Reims, lo rendeva – come il re di Francia – “in un certo senso” indipendente dal Papa. Tutto il suo modo di agire nella controversia che ebbe con Roma fu un lungo temporeggiare, fatto di attestati teorici di obbedienza e dipendenza alla Sede Apostolica, mentre nei fatti continuava ad agire come se fosse il sovrano assoluto della sua arcidiocesi e della chiesa di Francia (data l’importanza di Reims, a causa della Santa Ampolla ivi ancora custodita, su tutta la Gallia).
Buona sera a tutti... Sono riuscita a trovare l'articolo del Professor Leo Peppe, citato oggi a lezione ed intitolato "RIFLESSIONI SULLA NOZIONE DI ‘IUSTITIA’NELLA TRADIZIONE GIURIDICA EUROPEA", 2006; utilizzando come mezzo di ricerca questo sito internet: www.dirittoestoria.it. Ho cercato di fare un sunto. Com’è stato possibile, nella cultura europea, arrivare dal romano cuique suum al motto nazista jedem das Seine apposto all’ingresso del lager di Buchenwald. Da ultimo si è posto, nel 2005, questa domanda lo storico olandese del diritto intermedio, Govaert van den Bergh, trovando la risposta nelle moderne concezioni razionalistiche e positivistiche del diritto. Altri studiosi, come il filosofo tedesco del diritto Hermann Klenner, hanno ribadito la convinzione già kelseniana (e poi di Ernst Topitsch) circa il sintagma cuique suum che esso, così come jedem das Seine, di per se stesso non esprima in realtà un contenuto, ma sarebbe una formula vuota che di volta in volta lo riceve dai concreti ordinamenti. Analoga considerazione è stata espressa nel 2001 da Jutta Limbach, allora Presidente della Corte Costituzionale della RFT. È di questo avviso anche Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista italiano, ex presidente della Corte Costituzionale, il quale nel novembre 2004, introducendo una sua riflessione sulla giustizia nel contesto delle “Lezioni Norberto Bobbio”, così scriveva: “Prendiamo la più famosa e comprensiva tra le formule della giustizia, l'unicuique suum tribuere, il” a ciascuno il suo” dei giureconsulti romani, o la sua riformulazione “tratta gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso”. Formule come queste possono essere accolte da chiunque. I campi di sterminio, per esempio, sono in regola con questa massima della giustizia. Il motto di benvenuto al campo di Buchenwald era, per l'appunto, jedem das Seine, a ciascuno il suo, … ”. Così Zagrebelsky. L’accostamento tra il principio di diritto romano e il “motto” nazista appare a prima vista pienamente pertinente; essi sembrano due enunciati convergenti o addirittura sovrapponibili sia nella loro formulazione lessicale sia nel loro significato ultimo: in taluni autori è infatti esplicita l’ipotesi di un rapporto di discendenza l’uno dall’altro (sia pure con la consapevolezza della molteplicità di contesti nel tempo); in altri invece il motto di Buchenwald è utilizzato come momento di verifica (“per l’appunto”, dice Zagrebelsky) dell’interpretazione data alla formulazione costruita dai giureconsulti romani. Questa utilizzazione di principi giuridici romani può apparire “continuista” oppure decontestualizzata: ma in realtà anche la decontestualizzazione è una forma di continuismo (sia pure realizzata attraverso l’atemporalità). Una siffatta utilizzazione può provocare nel giusromanista una reazione di cautela circa la legittimità della sovrapposizione e quindi della rappresentazione data; anche se forse in diritto romano si può trovare qualche testo che in effetti nella tradizione romanistica è stato utilizzato in quella direzione, il brocardo non è romano, è di origine sconosciuta (e piuttosto recente) e probabilmente deriva dall’adattamento ottocentesco di una regola di diritto canonico, in una complessa mediazione pandettistico/penalistica. ...Continua...
...Vedi sopra... Non è questo certo il caso di cuique suum, che ha una storia molto più documentata e sicura nelle sue origini romane. Vi è però un punto di stretto contatto con la problematica e il tempo che qui ci interessa; infatti il brocardo societas delinquere non potest è stato utilizzato nel processo di Norimberga dal difensore della Gestapo, Rudolf Merkel, che lo ha ricordato – attribuendolo appunto al diritto romano – al fine di sostenere l’impossibilità della responsabilità dell’organizzazione in quanto tale, perché la responsabilità penale può essere esclusivamente personale: non si tratta qui di un uso “nazista” di un principio di diritto romano, al contrario si tratta dell’uso – si potrebbe dire illuminista – di un principio asserito come dell’intera umanità e del diritto romano in particolare, a difesa del più indifendibile degli imputati, in un processo fortemente ispirato al diritto naturale. In altri e più generali termini, in un contesto drammatico della storia europea i principi del diritto romano sembrano emergere, in vario modo, come un punto di riferimento ideale, nel bene e nel male; questo ruolo, che evidentemente è parte integrante della cultura europea (e non solo), deve però essere da una parte esaminato nel suo contesto di utilizzazione e dall’altra studiato nella sua portata originaria, con la miglior consapevolezza possibile di quanto è intercorso nel frattempo. Del resto, proprio nell’esperienza dell’area tedesca il diritto romano ha conosciuto ripetutamente i due estremi dell’adozione piena (dalla Rezeption alla Pandettistica) e del rifiuto più netto (da Lutero al nazismo). La rappresentazione dei perseguitati dal nazismo, in primo luogo degli ebrei, nei termini della figura romana arcaica dell’homo sacer, cioè di esseri umani che sarebbero stati esclusi dalla sfera del diritto; questa rappresentazione è elaborata nell’opera di un filosofo italiano, Giorgio Agamben, sviluppatasi a partire dal suo volume del 1995 Homo sacer: una costruzione molto fortunata, anche al di fuori dell’Italia, ma che invece non ha incontrato fortuna presso i giusromanisti. Luigi Garofalo ha scritto nel 2005 un lungo saggio originato dalla ricostruzione di Agamben, dimostrando l’infondatezza di questo richiamo dell’esperienza giuridica romana da parte di Agamben. Nell’ultimo decennio è stata rivolta ad alcuni giusromanisti l’accusa di neopandettismo: vi sarebbe stata cioè da parte loro la volontà di riproporre il diritto romano e soprattutto le sue categorie dogmatiche di origine ottocentesca come sostrato unificante di un nascente diritto europeo giurisprudenziale, con un’operazione che da una parte avrebbe dovuto coinvolgere gli studiosi di altre discipline giuridiche, in primo luogo i civilisti, dall’altra avrebbe dovuto far sorgere un nuovo polo egemone all’interno della romanistica italiana Ciò premesso, il discorso può proseguire soffermandosi in primis su Jedem das Seine, il motto posto all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald; il pensiero ovviamente va subito all’analogo e ben più noto motto Arbeit macht frei posto all’ingresso di Auschwitz. Qual è l’origine di questi motti? In estrema sintesi può dirsi che Arbeit macht frei nasce a Dachau: le ragioni non sono certe, ma il motto sembra trarre origine comunque da matrici ideologiche recenti. ...Continua...
...Vedi sopra... La storia del campo inizia nel luglio del 1937; assai probabilmente nel febbraio/marzo del 1938 viene realizzato il motto Jedem das Seine. Mancano dati certi idonei a spiegare la scelta di questo motto per questo (e solo questo) campo, in quel momento. Sono state fatte molte congetture, ma un dato è sicuro: a differenza del motto Arbeit macht frei, il motto Jedem das Seine ha nella storia del linguaggio e della cultura tedeschi una vicenda plurisecolare, complessa e articolata; certamente – negli strati più colti della società – corrisponde al cuique suum romano. Si può altresì ricordare che “suum cuique” era il motto del massimo ordine prussiano, “Der Hohe Orden von Schwarzen Adler”, fondato nel 1701 da Federico I di Prussia; oppure si ricordi che nella liturgia protestante uno dei canti è la Cantata BWV 163, Nur jedem das Seine, composta da J. S. Bach nel 1715, su testo di Salomo Franck, che aveva studiato diritto a Jena. Alla fine del 1800 e primi anni del ‘900 Jedem das Seine è utilizzato nei contesti culturali più diversi: ad es., ricorre (1872 e 1892) in Nietzsche, nel 1901 nelle parole di un cabaret-lieder di Arnold Schönberg, nel 1904 è il titolo di un romanzo di intrattenimento di una nota scrittrice, Nataly von Eschstruth. Fortemente anticristiana è la poesia Jedem das Seine di Ludwig Fahrenkrog, pittore e poeta che nel 1900 abbandona il Cristianesimo; la prima traccia pubblica di un uso esplicitamente razzista del motto è in un articolo di Arthur Rosenberg nel nazista Völkischer Beobachter, del 14 sett. 1921, nel quale Rosenberg fa proprie le parole del pastore Ebert di Amburgo, in un contesto di discriminazione contrario agli Ebrei e di poco successivo al Programma del partito nazista (NSDAP) del 24 febbraio 1920; nel 1936, a Lipsia, viene pubblicato da un autore sconosciuto, Herbert Buhl, il libro ovviamente nazista Jedem das Seine (Suum cuique). Si tratta pur sempre diritto, al di là dell’infame contenuto concreto del precetto: in questo senso Zagrebelsky ha alla fin fine ragione ricordando il motto di Buchenwald. Ciò sul versante dell’età moderna, del motto Jedem das Seine, che evidentemente ormai ha perso qualsiasi riferibilità ad un’origine precisa e nei Paesi di lingua tedesca trova il suo significato fondamentale nella sua utilizzazione a Buchenwald. Ma cosa dire per quanto riguarda la formula romana unicuique suum tribuere ricordata da Zagrebelsky e da lui accostata al motto tedesco? A questo punto è già evidente come questa formula romana ricorra in due differenti versioni, in una appunto unicuique, nell’altra cuique. Questa diversità lessicale potrebbe essere irrilevante, ma come è ben noto, è nelle piccole differenze che talvolta si può trovare la traccia di qualcosa di più importante. Non ci si sofferma qui sull’origine del cuique suum nella filosofia greca, con la sua concezione della giustizia distributiva, ciò che qui rilevano sono i testi romani, testi notissimi e studiatissimi. Alcuni di essi si trovano nella compilazione giustinianea, in posizione iniziale e perciò privilegiata. Nei suddetti testi è centrale la dignitas dell’individuo, il valore dell’individuo nella società. Ma già nel De inventione la dignitas non è più il criterio dell’attribuzione, diventa una parola che riassume l’intera posizione individuale, anche se ovviamente rimane sempre una parola ancora profondamente romana e perciò adeguatamente evocativa della complessità dell’attribuzione. Il passo successivo sarà l’eliminazione della menzione della dignitas: infatti, circa trent’anni dopo, in un tempo del tutto diverso della società romana e della vita di Cicerone, vi è una serie di testi ciceroniani: qui rimane solo il suum, ciò che è suo, aprendo una via che molti seguiranno, come Seneca o scrittori cristiani quali Agostino o Ambrogio. Poi, più di due secoli dopo, vi sarà la ridefinizione dell’oggetto dell’attribuzione della iustitia da parte del giurista Ulpiano: non più la sua dignitas, non più il suum, ma il ius suum. ...Continua...
...Vedi sopra... Unicuique suum o cuique suum? quest’ultima – finora – apparsa assai ricorrente. In realtà ancora oggi la versione unicuique suum è utilizzata, in modo ben visibile: essa appare infatti nella testata de L’Osservatore romano, il giornale ufficiale della Santa Sede: a queste parole seguono le chiavi incrociate, il triregno (il copricapo extraliturgico solenne del Papa , abolito da Paolo VI) e, con gli stessi caratteri maiuscoli, non praevalebunt. Perché qui ricorre unicuique e non cuique? Certamente anche unusquisque è lemma pienamente romano, pur se non appare utilizzato in frasi celebri (e risalenti); esso non ricorre – in particolare come unicuique – altresì in nessuno dei testi ed autori qui presi sinora in considerazione: in essi si trova sempre e solo cuique, con l’unica eccezione di Rhet. ad Her, che è anche l’unico testo nel quale in luogo di suum ricorre ius (ma non ius suum, il sintagma che ricorre invece nel Corpus iuris). L’Osservatore romano. Questo giornale inizia ad uscire il 1° luglio 1861, i due motti vengono aggiunti successivamente nel n. 1 dell’anno seguente, dove si spiega che non praevalebunt è una citazione: Portae inferi non praevalebunt. Quanto all’unicuique suum, esso non viene ancorato ad una citazione ma viene spiegato calando la dimensione umana in quella dell’ordine naturale divino. I due motti sono uniti (“il nesso logico e morale che li congiunge in un solo concetto”) nella funzione di baluardo della Chiesa romana contro la rivoluzione, in primo luogo la “rivoluzione italiana”. C’è appena stata l’unificazione dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia. In realtà unicuique suum è espressione che appartiene alla più profonda tradizione cristiana e cattolica, nella sua costruzione aristotelico-tomistica in particolare, ma non solo; più volte è stata utilizzata da papa Giovanni Paolo II. Il punto fermo non può che essere Tommaso d’Aquino; in particolare, nella Summa Theologiae, è possibile rinvenire molti loci nei quali ricorre la terminologia che qui interessa. In realtà è possibile procedere ulteriormente all’indietro nel tempo, nella tradizione cristiana; infatti unicuique ricorre costantemente in questo contesto di “attribuzione di ciò che è suum/ius suum” già in un anonimo monaco cistercense degli inizi del XIII sec. dell’abbazia di S. Maria della Ferrara a Vairano (in provincia di Caserta), in Abelardo, in Gregorio VII, ma in Isidoro di Siviglia, agli albori del Medio Evo, si ritrova cuique . E’ evidente come ancora oggi i testi antichi siano letti nella forma unicuique dagli ecclesiastici. Particolarmente interessante è come ciò avvenga anche a proposito di un testo di Sant’Ambrogio, la cui edizione corretta è invece AMBROS. In sintesi conclusiva può dirsi che, poiché l’unico unicuique, del nostro contesto, di età romana sembra essere Rhet. ad Her (dove comunque però ricorre ius e non suum), appare plausibile che ci si trovi davanti ad una tradizione cristiana relativamente tarda, già formatasi nei secoli precedenti Tommaso e che nella sua opera risulta definitivamente acquisita. ...Continua...
...Vedi sopra... Unicuique suum o cuique suum? quest’ultima – finora – apparsa assai ricorrente. In realtà ancora oggi la versione unicuique suum è utilizzata, in modo ben visibile: essa appare infatti nella testata de L’Osservatore romano, il giornale ufficiale della Santa Sede: a queste parole seguono le chiavi incrociate, il triregno (il copricapo extraliturgico solenne del Papa , abolito da Paolo VI) e, con gli stessi caratteri maiuscoli, non praevalebunt. Perché qui ricorre unicuique e non cuique? Certamente anche unusquisque è lemma pienamente romano, pur se non appare utilizzato in frasi celebri (e risalenti); esso non ricorre – in particolare come unicuique – altresì in nessuno dei testi ed autori qui presi sinora in considerazione: in essi si trova sempre e solo cuique, con l’unica eccezione di Rhet. ad Her, che è anche l’unico testo nel quale in luogo di suum ricorre ius (ma non ius suum, il sintagma che ricorre invece nel Corpus iuris). L’Osservatore romano. Questo giornale inizia ad uscire il 1° luglio 1861, i due motti vengono aggiunti successivamente nel n. 1 dell’anno seguente, dove si spiega che non praevalebunt è una citazione: Portae inferi non praevalebunt. Quanto all’unicuique suum, esso non viene ancorato ad una citazione ma viene spiegato calando la dimensione umana in quella dell’ordine naturale divino. I due motti sono uniti (“il nesso logico e morale che li congiunge in un solo concetto”) nella funzione di baluardo della Chiesa romana contro la rivoluzione, in primo luogo la “rivoluzione italiana”. C’è appena stata l’unificazione dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia. In realtà unicuique suum è espressione che appartiene alla più profonda tradizione cristiana e cattolica, nella sua costruzione aristotelico-tomistica in particolare, ma non solo; più volte è stata utilizzata da papa Giovanni Paolo II. Il punto fermo non può che essere Tommaso d’Aquino; in particolare, nella Summa Theologiae, è possibile rinvenire molti loci nei quali ricorre la terminologia che qui interessa. In realtà è possibile procedere ulteriormente all’indietro nel tempo, nella tradizione cristiana; infatti unicuique ricorre costantemente in questo contesto di “attribuzione di ciò che è suum/ius suum” già in un anonimo monaco cistercense degli inizi del XIII sec. dell’abbazia di S. Maria della Ferrara a Vairano (in provincia di Caserta), in Abelardo, in Gregorio VII, ma in Isidoro di Siviglia, agli albori del Medio Evo, si ritrova cuique . E’ evidente come ancora oggi i testi antichi siano letti nella forma unicuique dagli ecclesiastici. Particolarmente interessante è come ciò avvenga anche a proposito di un testo di Sant’Ambrogio, la cui edizione corretta è invece AMBROS. In sintesi conclusiva può dirsi che, poiché l’unico unicuique, del nostro contesto, di età romana sembra essere Rhet. ad Her (dove comunque però ricorre ius e non suum), appare plausibile che ci si trovi davanti ad una tradizione cristiana relativamente tarda, già formatasi nei secoli precedenti Tommaso e che nella sua opera risulta definitivamente acquisita. ...Continua...
...Vedi sopra... Probabilmente non è però una forzatura trovare in questa formulazione unicuique suum qualcosa di più e diverso rispetto alla tradizione (sia pure con qualche incertezza) cuique suum delle scuole civilistiche, una diversa valenza semantica (nel contesto della tradizione cristiana e poi cattolica, ormai, come si potrebbe evincere dall’uso invece tradizionale in Melantone, nel 1543): se in cuique suum il suum è ciò che spetta, in unicuique quod suum est il suum è ciò che è già suum, il diritto ne prende atto, ne prende le difese, la iustitia è, come dice più volte Tommaso D’Aquino, actus iustitiae oppure, prima ancora, qua recte iudicando sua cuique distribuunt; non a caso si legge appunto non praevalebunt – insieme con UNICUIQUE SUUM – nella testata de L’Osservatore romano. Inoltre,in primo luogo la dizione unicuique è comunque assai diffusa; a partire da qualche edizione della Glossa ordinaria. In secondo luogo, in relazione a questa plausibile tradizione ‘ecclesiastico/romana’, un testo che sembra assai interessante per la sua originalità è un provvedimento giurisdizionale (un investimentum) del Senato Romano del 1162 d. C. che si può inserire nel quadro della prima fase della storia del senato romano medievale e inizia con la seguente formula: Nos senatores pro iustitia cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio costituti. Il Senato romano in questo caso è chiamato a decidere della controversia circa la proprietà della chiesetta di S. Nicola ai piedi della Colonna Traiana tra il presbitero della chiesa Angelo e la badessa di San Ciriaco in Via Lata. Il Senato attribuisce la chiesa e la colonna alla badessa, ma salvo honore publico urbis: infatti al contempo la colonna deve essere preservata così com’è in eterno ad honorem ipsius ecclesie et totius populi Romani finchè mundus durat, sic eius stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ultimum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur. Vengono così tutelati l’interesse privato e l’utilità pubblica e con anticipatrice consapevolezza dell’importanza oggi attribuita ai “beni culturali” privati ed alla loro conservazione. L’affermazione della inadeguatezza della ‘formula’ è un dato ricorrente nella teoria generale del diritto, non da oggi: è sufficiente ricordare la critica kelseniana al suum cuique come tautologica riduzione (“inhaltsleer“) del diritto di ciascuno all’ordinamento giuridico positivo che ne costituisce il presupposto. Ma già Spinoza, in modo esemplare, diceva che, proprio perché in natura il diritto di ciascuno alla fin fine è funzione ed espressione del suo potere, può dirsi che il ius suum di ciascuno non può esistere nello stato di natura, bensì solo nello stato civile: è la feroce similitudine dei pesci nel Trattato teologico-politico: pisces summo naturali iure aqua potiuntur, et magni minores comedunt. Insomma, la ‘formula’, in sé considerata, avulsa da un qualsiasi punto di riferimento, si esaurisce nel diritto positivo, in qualsiasi diritto positivo. Si potrebbe anche affermare che mai sarebbe stato possibile porre cuique suum/jedem das Seine all’ingresso di Buchenwald se, come canta Bach, c’è Dio a cui guardare e l’uomo non è solo con Cesare: ma le concrete vicende della storia non confortano quest’affermazione. Al tempo stesso, è possibile un’alternativa laica, un punto di riferimento laico che impedisca la riduzione del cuique suum e del diritto al diritto positivo? È ciò che cercano tutti coloro che aspirano a collegare norme e valori, anche oggi. ...Continua...
...Vedi sopra... Probabilmente non è però una forzatura trovare in questa formulazione unicuique suum qualcosa di più e diverso rispetto alla tradizione (sia pure con qualche incertezza) cuique suum delle scuole civilistiche, una diversa valenza semantica (nel contesto della tradizione cristiana e poi cattolica, ormai, come si potrebbe evincere dall’uso invece tradizionale in Melantone, nel 1543): se in cuique suum il suum è ciò che spetta, in unicuique quod suum est il suum è ciò che è già suum, il diritto ne prende atto, ne prende le difese, la iustitia è, come dice più volte Tommaso D’Aquino, actus iustitiae oppure, prima ancora, qua recte iudicando sua cuique distribuunt; non a caso si legge appunto non praevalebunt – insieme con UNICUIQUE SUUM – nella testata de L’Osservatore romano. Inoltre,in primo luogo la dizione unicuique è comunque assai diffusa; a partire da qualche edizione della Glossa ordinaria. In secondo luogo, in relazione a questa plausibile tradizione ‘ecclesiastico/romana’, un testo che sembra assai interessante per la sua originalità è un provvedimento giurisdizionale (un investimentum) del Senato Romano del 1162 d. C. che si può inserire nel quadro della prima fase della storia del senato romano medievale e inizia con la seguente formula: Nos senatores pro iustitia cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio costituti. Il Senato romano in questo caso è chiamato a decidere della controversia circa la proprietà della chiesetta di S. Nicola ai piedi della Colonna Traiana tra il presbitero della chiesa Angelo e la badessa di San Ciriaco in Via Lata. Il Senato attribuisce la chiesa e la colonna alla badessa, ma salvo honore publico urbis: infatti al contempo la colonna deve essere preservata così com’è in eterno ad honorem ipsius ecclesie et totius populi Romani finchè mundus durat, sic eius stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ultimum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur. Vengono così tutelati l’interesse privato e l’utilità pubblica e con anticipatrice consapevolezza dell’importanza oggi attribuita ai “beni culturali” privati ed alla loro conservazione. L’affermazione della inadeguatezza della ‘formula’ è un dato ricorrente nella teoria generale del diritto, non da oggi: è sufficiente ricordare la critica kelseniana al suum cuique come tautologica riduzione (“inhaltsleer“) del diritto di ciascuno all’ordinamento giuridico positivo che ne costituisce il presupposto. Ma già Spinoza, in modo esemplare, diceva che, proprio perché in natura il diritto di ciascuno alla fin fine è funzione ed espressione del suo potere, può dirsi che il ius suum di ciascuno non può esistere nello stato di natura, bensì solo nello stato civile: è la feroce similitudine dei pesci nel Trattato teologico-politico: pisces summo naturali iure aqua potiuntur, et magni minores comedunt. Insomma, la ‘formula’, in sé considerata, avulsa da un qualsiasi punto di riferimento, si esaurisce nel diritto positivo, in qualsiasi diritto positivo. Si potrebbe anche affermare che mai sarebbe stato possibile porre cuique suum/jedem das Seine all’ingresso di Buchenwald se, come canta Bach, c’è Dio a cui guardare e l’uomo non è solo con Cesare: ma le concrete vicende della storia non confortano quest’affermazione. Al tempo stesso, è possibile un’alternativa laica, un punto di riferimento laico che impedisca la riduzione del cuique suum e del diritto al diritto positivo? È ciò che cercano tutti coloro che aspirano a collegare norme e valori, anche oggi. ...Continua...
...Vedi sopra... A questo punto il discorso qui si ferma, con un’ultima osservazione: come si è visto, la ‘formula’ cuique suum nelle fonti romane ricorre sia isolatamente sia all’interno di una triade di regole, affiancandosi all’alterum non laedere ed all’honeste vivere. Le tre regole possono essere considerate separatamente, ma anche unitariamente, almeno con la forza enorme di un modello tralatizio imprescindibile, fino a potersi porre come i tre indispensabili praecepta di un ius che non sarebbe più tale se solo uno dei tre fosse mancante. Si potrebbero fare molti esempi, il Leibniz della Nova Methodus e il Kant de Die Metaphysik der Sitten. In particolare, nella Rechtslehre Kant individua nei tre praecepta ulpianei (da lui espressamente ricordati ma riformulati) i Rechtspflichte; si deve entrare nello stato civile perché solo in esso è legalmente determinato ciò che per ognuno è suo; è “il potere giudiziario (che assegna a ciascuno secondo la legge) nella persona del giudice”. Ritornando alle fonti romane, com’è ovvio, sui testi giuridici, i giusromanisti hanno sempre discusso, con esiti molto diversificati, per differenti ragioni, ma soprattutto per il ruolo, comunque venga inteso, assolutamente centrale attribuito ai giuristi in quei testi: una tradizione di legittimazione che arriverà fino all’età moderna, nell’Europa continentale coniugando nelle fortune e nelle disgrazie la figura del giurista professionale con l’uso del diritto romano; vi è anche da chiedersi quanto abbia inciso nello studio di questi testi la proiezione su di essi di una concezione formale, “isolata” (alla Schulz) ed autoreferenziale della scienza del diritto, e persistente ancora oggi (senza soluzione di continuità rispetto a ieri) da una parte nella ricostruzione dell’esperienza giuridica romana dall’altra nella riflessione giuspositivistica. Quanto agli iuris praecepta vi è stato chi ha ritenuto che Ulpiano riassume “positivamente i fondamenti della convivenza civile, gli iuris praecepta”; all’opposto alcuni li riducono al rango di “Leerformeln”, mere enunciazioni; infine, una posizione mediana colloca sul piano delle enunciazioni di principio sia l’alterum non laedere sia l’honeste vivere, affermando invece la validità (in senso giuridico) della regola suum cuique proprio per il ruolo del giurista nel sistema romano di produzione del diritto. Sembra che con queste espressioni il diritto romano non descrive “des droits, mais des statuts”. E, se si accetta questa conclusione, questo può essere probabilmente uno dei punti di maggiore diversità tra la valenza romana della ‘formula’ (il rapporto tra il quisque e il tutto) rispetto a quella moderna (il rapporto tra i singoli soggetti rispetto al tutto), anche se la forza dell’uso attuale può portare ad appiattire la differenza a favore della concezione più recente. In questa prospettiva, il suum cuique romano non ha alcun contenuto di giustizia in termini di valori o, tanto meno, di diritti umani; ma, soprattutto, non ha come punto di riferimento il suum (un contenuto meritevole di tutela) che spetta ad un individuo, in quanto tale astratto portatore di diritti (nella versione più compiuta: tra eguali): né, del resto, la società romana (la sua filosofia, il suo diritto) poteva dis/tribuere il suum in questa prospettiva strettamente individualistica, una rivoluzione dell’età moderna e prima ancora, si deve ricordarlo a fronte di recentissime polemiche italiane, del soggettivismo cristiano. Ed infatti ius e iustitia agli inizi del Digesto giustinianeo non sono distinti (con la significativa inversione nell’etimologia di ius, che viene fatto derivare da iustitia), bensì unificati nell’unitario ambito del bonum et aequum: il diritto deriva dalla giustizia, la giustizia non è un mondo di valori ma un parametro, un criterio, “coltivato” dai giuristi. Si è all’opposto del pensiero del glossatore Piacentino, che recide il rapporto tra ius e iustitia: author iuris homo, iustitiae Deus; quel Piacentino che aveva ben presente il rapporto tra giuristi e potere politico. ...Continua...
...Vedi sopra... A questo punto il discorso qui si ferma, con un’ultima osservazione: come si è visto, la ‘formula’ cuique suum nelle fonti romane ricorre sia isolatamente sia all’interno di una triade di regole, affiancandosi all’alterum non laedere ed all’honeste vivere. Le tre regole possono essere considerate separatamente, ma anche unitariamente, almeno con la forza enorme di un modello tralatizio imprescindibile, fino a potersi porre come i tre indispensabili praecepta di un ius che non sarebbe più tale se solo uno dei tre fosse mancante. Si potrebbero fare molti esempi, il Leibniz della Nova Methodus e il Kant de Die Metaphysik der Sitten. In particolare, nella Rechtslehre Kant individua nei tre praecepta ulpianei (da lui espressamente ricordati ma riformulati) i Rechtspflichte; si deve entrare nello stato civile perché solo in esso è legalmente determinato ciò che per ognuno è suo; è “il potere giudiziario (che assegna a ciascuno secondo la legge) nella persona del giudice”. Ritornando alle fonti romane, com’è ovvio, sui testi giuridici, i giusromanisti hanno sempre discusso, con esiti molto diversificati, per differenti ragioni, ma soprattutto per il ruolo, comunque venga inteso, assolutamente centrale attribuito ai giuristi in quei testi: una tradizione di legittimazione che arriverà fino all’età moderna, nell’Europa continentale coniugando nelle fortune e nelle disgrazie la figura del giurista professionale con l’uso del diritto romano; vi è anche da chiedersi quanto abbia inciso nello studio di questi testi la proiezione su di essi di una concezione formale, “isolata” (alla Schulz) ed autoreferenziale della scienza del diritto, e persistente ancora oggi (senza soluzione di continuità rispetto a ieri) da una parte nella ricostruzione dell’esperienza giuridica romana dall’altra nella riflessione giuspositivistica. Quanto agli iuris praecepta vi è stato chi ha ritenuto che Ulpiano riassume “positivamente i fondamenti della convivenza civile, gli iuris praecepta”; all’opposto alcuni li riducono al rango di “Leerformeln”, mere enunciazioni; infine, una posizione mediana colloca sul piano delle enunciazioni di principio sia l’alterum non laedere sia l’honeste vivere, affermando invece la validità (in senso giuridico) della regola suum cuique proprio per il ruolo del giurista nel sistema romano di produzione del diritto. Sembra che con queste espressioni il diritto romano non descrive “des droits, mais des statuts”. E, se si accetta questa conclusione, questo può essere probabilmente uno dei punti di maggiore diversità tra la valenza romana della ‘formula’ (il rapporto tra il quisque e il tutto) rispetto a quella moderna (il rapporto tra i singoli soggetti rispetto al tutto), anche se la forza dell’uso attuale può portare ad appiattire la differenza a favore della concezione più recente. In questa prospettiva, il suum cuique romano non ha alcun contenuto di giustizia in termini di valori o, tanto meno, di diritti umani; ma, soprattutto, non ha come punto di riferimento il suum (un contenuto meritevole di tutela) che spetta ad un individuo, in quanto tale astratto portatore di diritti (nella versione più compiuta: tra eguali): né, del resto, la società romana (la sua filosofia, il suo diritto) poteva dis/tribuere il suum in questa prospettiva strettamente individualistica, una rivoluzione dell’età moderna e prima ancora, si deve ricordarlo a fronte di recentissime polemiche italiane, del soggettivismo cristiano. Ed infatti ius e iustitia agli inizi del Digesto giustinianeo non sono distinti (con la significativa inversione nell’etimologia di ius, che viene fatto derivare da iustitia), bensì unificati nell’unitario ambito del bonum et aequum: il diritto deriva dalla giustizia, la giustizia non è un mondo di valori ma un parametro, un criterio, “coltivato” dai giuristi. Si è all’opposto del pensiero del glossatore Piacentino, che recide il rapporto tra ius e iustitia: author iuris homo, iustitiae Deus; quel Piacentino che aveva ben presente il rapporto tra giuristi e potere politico. ...Continua...
...Vedi sopra... Le riflessioni appena svolte mostrano la complessità e problematicità di qualsiasi tentativo di ricostruzione della storia del pensiero romano su questo tema e costituiscono in una certa misura lo sfondo necessario sul quale leggere la “vera philosophia”; ma con la consapevolezza che nello stesso pensiero romano devono essere rintracciati due diversi e successivi momenti: il primo, quello del suum cuique della società dei signori, diversi per dignitas, dell’età repubblicana; il secondo quello del suum cuique dei cives tutti uguali, ma subiecti, cioè sudditi, dell’età imperiale. Di conseguenza Ulpiano (e con lui la compilazione giustinianea) potrebbe venire a collocarsi in questa nuova concezione della iustitia, per la quale è oggetto il suum; ma Ulpiano è giurista e la definizione di iustitia per lui non sarebbe tale se non contenesse il riferimento al diritto, tanto più che da una parte ius deriva da iustitia, dall’altra ius può essere collegato alla iustitia rappresentata come aequitas (altro termine fondamentale del ius civile). Vi sono poi i tre iuris praecepta, per i quali si individuano tre ambiti di azione umana, dei quali solo il terzo è suum cuique tribuere. Non ius suum cuique, ma ciò è ovvio se si guarda alla finalità secondo la quale e per la quale è costruita la frase, indicare le tre regole “auree” del diritto: esse per definizione possono avere per oggetto solo una situazione giuridica. Questa conclusione rende inutile la ripetizione di ius in ius suum ed attrae pienamente nella sfera giuridica gli altri due precetti; anzi, in questa prospettiva, ripetere ius avrebbe impoverito la forza giuridica degli altri praecepta. Nel pensiero cristiano si può rintracciare una riflessione simile a quella ulpianea, ma differente però per molti aspetti. I motivi di interesse sono più d’uno, anche se il confronto con il De officiis ciceroniano mostra una semplificazione problematica. In primo luogo i tre praecepta sono riferiti alla iustitia e non al ius, con un’abbreviazione significativa del percorso argomentativo. In secondo luogo, dato di notevole interesse, si può riscontrare con evidenza un’articolazione su tre praecepta, ma con alcune rilevanti differenze rispetto ai testi giustinianei: il suum cuique ricorre per primo, l’honeste vivere è sostituito con la centralità della communis aequitas, infine l’alterum non laedere è a sua volta sostituito con alienum non vindicat. Particolarmente interessante appare anche quest’ultimo punto perché il principio dell’alterum non laedere viene invece rappresentato nella sua piena giuridicità. In Ambrogio vi è già forse una maggiore tensione verso comportamenti concreti, aprendo così la strada verso la iustitia come actus iustitiae in Tommaso (e nell’intero pensiero cristiano): Proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est. ...Continua... (Chiedo scusa se stessi post compaiono più volte)
...Vedi sopra... Le riflessioni appena svolte mostrano la complessità e problematicità di qualsiasi tentativo di ricostruzione della storia del pensiero romano su questo tema e costituiscono in una certa misura lo sfondo necessario sul quale leggere la “vera philosophia”; ma con la consapevolezza che nello stesso pensiero romano devono essere rintracciati due diversi e successivi momenti: il primo, quello del suum cuique della società dei signori, diversi per dignitas, dell’età repubblicana; il secondo quello del suum cuique dei cives tutti uguali, ma subiecti, cioè sudditi, dell’età imperiale. Di conseguenza Ulpiano (e con lui la compilazione giustinianea) potrebbe venire a collocarsi in questa nuova concezione della iustitia, per la quale è oggetto il suum; ma Ulpiano è giurista e la definizione di iustitia per lui non sarebbe tale se non contenesse il riferimento al diritto, tanto più che da una parte ius deriva da iustitia, dall’altra ius può essere collegato alla iustitia rappresentata come aequitas (altro termine fondamentale del ius civile). Vi sono poi i tre iuris praecepta, per i quali si individuano tre ambiti di azione umana, dei quali solo il terzo è suum cuique tribuere. Non ius suum cuique, ma ciò è ovvio se si guarda alla finalità secondo la quale e per la quale è costruita la frase, indicare le tre regole “auree” del diritto: esse per definizione possono avere per oggetto solo una situazione giuridica. Questa conclusione rende inutile la ripetizione di ius in ius suum ed attrae pienamente nella sfera giuridica gli altri due precetti; anzi, in questa prospettiva, ripetere ius avrebbe impoverito la forza giuridica degli altri praecepta. Nel pensiero cristiano si può rintracciare una riflessione simile a quella ulpianea, ma differente però per molti aspetti. I motivi di interesse sono più d’uno, anche se il confronto con il De officiis ciceroniano mostra una semplificazione problematica. In primo luogo i tre praecepta sono riferiti alla iustitia e non al ius, con un’abbreviazione significativa del percorso argomentativo. In secondo luogo, dato di notevole interesse, si può riscontrare con evidenza un’articolazione su tre praecepta, ma con alcune rilevanti differenze rispetto ai testi giustinianei: il suum cuique ricorre per primo, l’honeste vivere è sostituito con la centralità della communis aequitas, infine l’alterum non laedere è a sua volta sostituito con alienum non vindicat. Particolarmente interessante appare anche quest’ultimo punto perché il principio dell’alterum non laedere viene invece rappresentato nella sua piena giuridicità. In Ambrogio vi è già forse una maggiore tensione verso comportamenti concreti, aprendo così la strada verso la iustitia come actus iustitiae in Tommaso (e nell’intero pensiero cristiano): Proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est. ...Continua... (Chiedo scusa se stessi post compaiono più volte)
...Vedi sopra... In conclusione, la storia degli usi di cuique suum (e unicuique suum) potrebbe essere la migliore prova del fatto che questa formula non ha un suo costante e definito contenuto concreto, tale da predeterminarne e circoscriverne gli effetti. Si tratta di una regola destinata ad operare in modo relativo (insieme con altre regole che ne circoscrivono l’ambito), funzionale rispetto all’ordinamento nel quale essa è inserita. Perciò non si potrebbe arrivare a dire che il diritto nazista è stato orrendo in conseguenza dell’adozione di una concezione della giustizia come Jedem das Seine, è stato orrendo perché per esso alcune categorie di individui dovevano essere sterminate. Potrebbe, alla fin fine, sorgere il dubbio che ci si trovi davanti ad un ‘falso amico’ lessicale, che cioè siano accostati due sintagmi per i quali la traduzione tedesca (ma anche italiana, francese, etc.) è fedele all’originale latino, ma solo alla lettera. In realtà il cuique suum della giustizia distributiva romana al singolo civis ha conservato in alcuni contesti dell’età moderna tale significato originario, ma prevalentemente è diventato ciò che spetta a ciascuno in ragione della sua individualità di essere umano, per diritto naturale, umano o divino e in un determinato ordinamento giuridico, con le sue norme fondamentali (non uccidere, etc.): è rispetto a questo secondo significato della formula che l’uso del motto a Buchenwald appare incredibile e insopportabile. Le vicende di questa famosa “formula della giustizia” ne hanno mostrato tutta la storicità e in questo modo ne fanno un costante termine di riferimento per valutare costruzioni filosofiche, teorie giuridiche, ideologie politiche intorno alla nozione di giustizia.
...Vedi sopra... In conclusione, la storia degli usi di cuique suum (e unicuique suum) potrebbe essere la migliore prova del fatto che questa formula non ha un suo costante e definito contenuto concreto, tale da predeterminarne e circoscriverne gli effetti. Si tratta di una regola destinata ad operare in modo relativo (insieme con altre regole che ne circoscrivono l’ambito), funzionale rispetto all’ordinamento nel quale essa è inserita. Perciò non si potrebbe arrivare a dire che il diritto nazista è stato orrendo in conseguenza dell’adozione di una concezione della giustizia come Jedem das Seine, è stato orrendo perché per esso alcune categorie di individui dovevano essere sterminate. Potrebbe, alla fin fine, sorgere il dubbio che ci si trovi davanti ad un ‘falso amico’ lessicale, che cioè siano accostati due sintagmi per i quali la traduzione tedesca (ma anche italiana, francese, etc.) è fedele all’originale latino, ma solo alla lettera. In realtà il cuique suum della giustizia distributiva romana al singolo civis ha conservato in alcuni contesti dell’età moderna tale significato originario, ma prevalentemente è diventato ciò che spetta a ciascuno in ragione della sua individualità di essere umano, per diritto naturale, umano o divino e in un determinato ordinamento giuridico, con le sue norme fondamentali (non uccidere, etc.): è rispetto a questo secondo significato della formula che l’uso del motto a Buchenwald appare incredibile e insopportabile. Le vicende di questa famosa “formula della giustizia” ne hanno mostrato tutta la storicità e in questo modo ne fanno un costante termine di riferimento per valutare costruzioni filosofiche, teorie giuridiche, ideologie politiche intorno alla nozione di giustizia.
Ragazzi, devo ammettere che siete tutti davvero dei fenomeni, visto che non faccio in tempo a pensare ad un argomento da approfondire che già lo trovo postato sul blog!! Oggi a lezione abbimo ritirato fuori dal corso di diritto romano, il discorso che pochi si ricordavano sul postliminium (questo argomento facilmente si ricollega al fatto che nell’alto medioevo la giustizia non deve dare “a ciascuno il suo”, ma deve solo rivestire e reintegrare, per questo è stato per molto tempo sovrapposto al possesso e di conseguenza contrapposto alla Gewere.) Esso era diffusamente utilizzato nell’epoca romana fino ad arrivare al medioevo. Uno dei casi di perdita di personalità è la perdita dello status libertatis. Quando qualcuno veniva catturato durante una battaglia, questi, era ridotto in schiavitù: giuridicamente perdeva ogni capacità, la cittadinanza e la condizione sui generis (ammesso che la possedesse). Tutti i diritti o doveri che gli facevano capo prima della cattura subiscono una sospensione della prescrizione in attesa venisse sciolta la situazione di incertezza nella quale si ignorava la condizione del presunto schiavo. In pratica, non si sapeva se tizio era riuscito a liberarsi dalla schiavitù e stava tentando un ritorno in patria. Questa sospensione (che si estingueva al momento del ritorno dello schiavo perché ritornava in possesso della sua condizione giuridica) era legittimata dal diritto romano in base allo ius postliminium ed è data dal fatto che il diritto è solo una semplice astrazione concettuale per cui era possibile ipotizzarne una sospensione suscettibile di attivazione successiva, di riviviscenza. I romani che venivano fatti schiavi perdevano lo status di cittadini, che potevano riacquistare soltanto con il ritorno in patria. Era previsto anche il riscatto (redemptio ad hostibus) ad opera di privati o da parte dello stato. Le cose o gli uomini passati in mano allo straniero sono irrimediabilmente perduti, e non è possibile il riacquisto dei diritti sopra di essi che per postliminium. La richiesta di restituzione è una vera e propria pretesa giuridica. In tal caso non è ammissibile nessuna pretesa alla restituzione, perché tale pretesa mancherebbe di fondamento giuridico, ed il popolo che si rifiutasse di acconsentirvi non potrebbe esser dichiarato « iniustus ». Il possedere è un comportamento di fatto. Non è suscettibile di sospensione, quando un soggetto viene ridotto in stato di cattività egli perde ogni diritto di possesso sui suoi beni. Nel medioevo raramente venivano fatti prigionieri; questi non erano mai in numero rilevante quindi potevano essere uccisi o più generalmente resi inoffensivi attraverso la mutilazione di arti inferiori o superiori o attraverso l’accecamento, nelle guerre di breve durata e quando ciò era possibile potevano anche essere semplicemente incarcerati al fine di essere scambiati benché tale ultima pratica era molto rara. Le repubbliche marinare impiegavano i prigionieri di guerra slavi come schiavi nelle galere (il termine schiavo deriva appunto da “slav” = slavo ed il nome dell’imbarcazione è tuttora usato come sinonimo di carcere) mentre in seguito, nelle guerre marittime, gli sconfitti a parte talvolta gli ufficiali venivano semplicemente buttati a mare e perciò destinati a morte sicura.
Riguado sempre al periodo medioevale, Voet , nel suo “de iure militari”, presta molta attenzione alla categoria di bellum civile, il quale condanna l’insensata crudeltà della stessa. Si trattava di una tematica che aveva costituito un aspetto importante della dottrina medievale della guerra giusta che proprio questo aveva teso a precisare: l'uso illegittimo della forza non costituiva titolo. Ma non è ad essa che Voet si richiama, egli piuttosto cita anzitutto la lex ulpianea si quis ingenuam (secondo cui i soldati catturati durante una guerra civile non potevano diventare schiavi dei vincitori, né potevano usufruire dei diritti di postliminium). Quindi in questo caso la “finzione” del diritto, che consentiva allo “schiavizzato” di riottenere il suo genus, in questo caso non viene applicato.
Seguendo le dottrine della scuola spagnola di Salamanca, Grozio affermava che non potevano essere ridotti a schiavi i prigionieri di guerra cristiani; “Mansit tamen etiam inter chistianos mos captos custodiendi donec persolutum sit pretium cuius eastimatio in arbitrio est victoris: nisi certi aliquid convenerit”.
Gli unici prigionieri di guerra che venivano incarcerati e quindi trattenuti, a partire dai secoli più recenti erano gli ufficiali o comunque i prigionieri di guerra nobili o ricchi o comunque di spicco e la ragione era chiaramente l’ottenere un riscatto in danaro. Ciò è esplicitamente detto nel testo del digesto D. 49. 15. 19 § 3. Postliminium est ius amissae rei recipiendae ab extraneo, et in statum pristinum restituendae, inter nos ac liberos populos regesque, moribus, le gibus constitutum. Nam quod bello amisimus, aut etiam, citra bellum : hoc si rursus recipiamus, dicimur postliminio recipere. Idque naturali aequitate introductum est, ut, qui per iniuriam ab extraneis detinebatur, i subi in fines suos rediisset, pristinum ius suum reciperet. 3. Post liminio redissevidetur cum in fines nostros excessit. Sed et in civitatem sociam amicamve, aut ad regem socium vel amicum venerit, statim postliminio rediisse videtur quia ibi primum nominee pubblico tutus esse incipiat. Traduzione: Il postliminio è un diritto di riprendere dalle mani di un estraneo una cosa perduta e di rimetterla nel pristino stato, così pattuito tra noi e popoli liberi e per consuetudini e leggi; perché quanto perdemmo per guerra, o ben’anche senza di questa, se lo riprendiamo di nuovo si dice di riprenderlo per postliminio. E ciò fu introdotto per equità naturale, talché colui che per sopruso era detenuto da estranei, tosto che fosse nei suoi confini ritornato, riprenderebbe i suoi primieri diritti. 3. Sembra di essere ritornato per postliminio quando sia entrato nei nostri confini siccome si perde laddove dai nostri confini cessi. Ma se venne in una città alleata ovvero amica, ovvero presso di un re alleato o amico, sembra, che sull’ istante sia ritornato per postliminio: perché ivi per la prima volta comincia ad essere in sicurezza a nome pubblico.
Postliminii ius competit aut in bello aut in pace.(Pomponius lib. 37 ad Quintum Mucium) §.1. In bello, cumhi qui nobis hostes sunt, aliquem ex nostris ceperunt, et intra presidia sua perduxerunt: nam si eodem bello is reversus fuerit, posliminium habet, id est prende omnia restituuntur ei iura, ac si caplus ab hostibus non esset: antequam in presidia preducatur hostium, manet civis: tunc autem reversus intelligitur, si aut ad amicos nostros perveniat, aut intra presidia nostra esse coepit. §.2. In pace quoque postliminium datum est: nam si cum gente aliqua neque amicitiam neque hospitium neque foedus amicitiae causa factum habemus: hi hostes quidam non sunt: quod autem ex nostro ad eos pervenit, illorum fit, et liber Homo noster ab eis captus servus fit et eorum. Idemque est, si ab illis ad nos aliquid perveniat. Hoc quoque igitur casu postliminium datum est. Postliminii ius competit aut in bello aut in pace.(Pomponius lib. 37 ad Quintum Mucium) 1. In bello, cumhi qui nobis hostes sunt, aliquem ex nostris ceperunt, et intra presidia sua perduxerunt: nam si eodem bello is reversus fuerit, posliminium habet, id est prende omnia restituuntur ei iura, ac si caplus ab hostibus non esset: antequam in presidia preducatur hostium, manet civis: tunc autem reversus intelligitur, si aut ad amicos nostros perveniat, aut intra presidia nostra esse coepit. 2. In pace quoque postliminium datum est: nam si cum gente aliqua neque amicitiam neque hospitium neque foedus amicitiae causa factum habemus: hi hostes quidam non sunt: quod autem ex nostro ad eos pervenit, illorum fit, et liber Homo noster ab eis captus servus fit et eorum. Idemque est, si ab illis ad nos aliquid perveniat. Hoc quoque igitur casu postliminium datum est. Traduzione : Il diritto di postliminio compete in guerra o in pace. (Pomponio nel libro 37 a Quinto Mucio) 1. In guerra quando coloro, i quali sono nostri nemici, presero alcuno dei nostri e lo condussero nelle loro guarnigioni; perché se nella guerra medesima costui ritornò gode del postiliminio, cioè gli si restituiscono tutti i diritti come se non fosse stato preso dai nemici, prima di essere condotto nelle guarnigioni dei nemici, resta cittadino; allora poi si intende ritornato, se o perviene presso di amici nostri, o cominciò ad essere tra le nostre guarnigioni 2. In pace ancora fu dato il postliminio, perché se con qualche nazione non abbiamo amicizia né ospizio né alleanza fatta per causa di amicizia, costoro in verità non sono nemici; ma ciò, che del nostro ad essi pervenne, di essi diviene; ed un uomo nostro libero preso da essi diviene anche loro servo. E vale lo stesso, se qualche cosa pervenga da loro a noi. Dunque anche in questo caso fu dato il postliminio. Tutt’ora è ancora utilizzato il Brocardo: “ Postliminium fingit eum, qui captus est, in civitate semper fuisse”, cioè il ritorno dell'assente fa sì che, chi sia stato prigioniero, venga considerato come se fosse rimasto sempre in patria.
Mi rendo conto che sull’argomento “unicuique suum/jedem das Seine” sia stato scritto molto da Eleonora. Ciononostante vorrei riportare alcune mie considerazioni e notizie a riguardo che ho trovato non sul web, ma nell’articolo del Prof. Leo Peppe “ Jedem das Seine, unicuique suum, a ciascuno il suo” nella collana diretta da Labruna e curata da Baccari e Cascione “Tradizione romanistica e costituzione”. Mi sono a lungo interrogata sul motivo che ha portato i nazisti a porre all’ingresso dei campi di concentramento questi motti di “benvenuto”, una sorta di “lasciate ogni speranza, o voi che entrate”. Ad Auschwitz e a Dachau, appunto, troviamo “Arbeit macht frei”, a Buchenwald “Jedem das Seine“ (anche se qui in un primo momento pare che sia stato utilizzato il motto “Recht order Unrecht – Mein Vaterland” “Nell'ordine legale sbagliato, il mio Paese”). Credo che tutti siamo d'accordo a definire cinica e paradossale l'apposizione di queste frasi all'ingresso dei campi. E' ben comprensibile questa aggettivazione da parte di chi rigetta quel mondo, ma è allo stesso tempo fuorviante, perchè queste scritte rispondevano a funzioni di propaganda e di comunicazione ideologica, funzioni alle quali il regime nazista è stato molto attento. Ma i nazisti non furono gli unici ad adottare queste strategie, basti pensare al ventennio fascista italiano e alle famose frasi di Mussolini, tratte anch'esse dal repertorio romano (“Habere non haberi.” o “Ubi ordo, ibi pax et decor. Ubi pax et decor, ibi laetitia.”). Oppure alla sintesi distopica di un libro da poco letto “1984” di George Orwell, ove gli slogans del Partito (“La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza”), più volte ricorrenti , vengono citati la prima volta, dopo poche pagine, in quanto stampati sulla facciata del Ministero della Verità, per poi essere ribaditi sul teleschermo pubblico e nella coscienza di ciascuno. Leo Peppe, nel suo articolo, ci dice che le ragioni dell'utilizzazione del motto a Dachau-Auschwitz non sono certe, perchè vi possono essere confluite diverse circostanze e motivazioni: da una parte il generalizzato uso tedesco di utilizzare frasi siffatte all'ingresso delle grandi proprietà pubbliche e private; dall'altra differenti ragioni, delle quali nessuna elide del tutto l'altra: l'esistenza di tali slogans nei circoli nazionalsocialisti “volkisch”, le campagne naziste di grandi lavori pubblici contro la disoccupazione, qualcuno ha fatto anche riferimento all'etica protestante del lavoro. Quanto sia difficile e anche storiograficamente complessa questa tematica degli slogans nazisti, potrebbe essere evidenziato, per Peppe, da un accostamento con tutta un'altra esperienza, quella dei Gulag sovietici (con i loro regolamenti), anch'essi campi di lavoro, quel famoso lavoro di cui parla la celebre iscrizione che è appesa all'entrata di ogni stabilimento concentrazionario: “Il lavoro è una questione d'onore, una questione di gloria, una questione di valore ed eroismo.” Invece, per Buchenwald, sostiene il Peppe, mancano dati certi a spiegare la scelta del motto “Jedem das Seine”. A proposito sono state fatte molte congetture: da quelle più attendibili, peraltro già riportate da Eleonora, per cui si potrebbe trattare del titolo della poesia “Jedem das Seine” del pittore e scrittore Fahrenkrog, o del motto “suum cuique” del massimo ordine prussiano “Der Hohe Orden Von Schwarzen Adler”; a quelle più fantasiose legate alla vicinanza di Buchenwald a Weimar. Si sa infatti che Weimar nel 700-800 fu uno dei maggiori centri della cultura tedesca: vi dimorarono personaggi dal calibro di Bach e Goethe che poi stranamente nell'epoca del nazismo si ritrovarano ad avere collegamenti con il campo di Buchenwald. Bach nel 1715 compone la cantata BWV 163, un salmo della liturgia protestante, “Nur Jedem das seine”.
Inoltre Buchenwald (tradotto alla lettera vuol dire “bosco di faggi”) era poi il bosco prediletto di Goethe e la quercia, dove si dice che il poeta amava riposare con la compagna Charlotte, venne addirittura conservata nel campo di sterminio. C'è poi da dire che Goethe in una sua lettera datata 4 novembre 1783, mostrandosi favorevole alla condanna a favore dell'infanticida Anna Catharina Hohn, utilizzò proprio l'espressione “Jedem das Seine”. Il Prof. Leo Peppe ha trovato anche in un elenco del 1946 di libri da epurare, un testo del 1936 dal titolo “ Jedem das Seine (Suurn euique)” e sicuramente nazista nello spirito e nel contenuto (vista la data di pubblicazione) avrebbe potuto suggerire l'adozione del motto. In definitiva, “Jedem das Seine”, nella cultura nazista appare divenire uno slogan per una politica sociale e giuridica che sottende non un'attribuzione di diritti o almeno aspettative, ma l'esclusione di alcuni dai diritti che spettano solo ai puri ariani tedeschi, soggetti solo al volere del Fuhrer. Infatti se si vedono le foto del campo di Buchenwald, la scritta posta all'ingresso “Jedem das Seine” è messa in modo tale che si legga sia dall'interno che dall'esterno e in questo modo il suo messaggio sembra risuonare così: agli internati non spetta alcun diritto, dentro e fuori il campo; al popolo nazista tutto è consentito e dovuto. Per concludere voglio riportare parte dell'intervento, che menziona il Prof. Peppe, di Gustavo Zagrebelsky sul tema della giustizia, tenuto a Torino il 15 novembre 2004 : “ Prendiamo la più famosa e comprensiva tra le formule della giustizia, l'unicuique suum tribuere, il “a ciascuno il suo” dei giureconsulti romani, o la sua riformulazione “tratta gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso”. Entrambe lasciano indeterminato il punto decisivo, cioè la nozione di suum, ciò che spetta in rapporto a ciò che ci rende, sotto i più diversi aspetti, uguali e diversi (dato che l'uguaglianza e la diversità assolute non esistono). Formule come queste possono essere accolte da chiunque: dal superuomo nietzschiano come dal difensore dei diritti umani, dal combattente per il comunismo universale, come dal fautore della libertà dello stato di natura, dall'apostolo della fratellanza universale come dal fanatico dello stato razzista. I campi di sterminio ad esempio sono in regola con questa massima della giustizia. Il motto di Buchenwald era appunto “a ciascuno il suo”, ma questo avrebbe potuto essere anche il motto del buon samaritano o di un Martino che divide il suo mantello con l'ignudo. Onde queste regole di giustizia possono essere indifferentemente il programma del regno dell'amore come del regno dell'odio.”
concordo pienamente con cio che ha detto francesca,tutti fenomeni,e raramente si riesce a pensare ad un approfondimento e trovarlo ancora disponibile nel pubblicarlo.io vorrei, a questo punto cercare di fare un sunto di quanto detto all ultima lezione,riguardo al possesso e processo nel XII secolo sulla sentenza affrontata a lezione di papa Onorio II. Tale sentenza è una controversia tra 2 vescovi,Guido vescovo arentino e Goffredo,vescovo di Siena.Rappresenta una sentenza provvisoria del 1125,emanata da Onorio II in seguito ad un procedimento tenuto dal primo cancelliere ,Aimerico,il quale chiese a Bulgaro di scrivere un trattato dove spiegasse come funzionasse il processo nel diritto giustinianeo.Per Bulgaro il processo nel diritto romano è presieduto da un giudice nominato dal potere pubblico(ossia dall imperatore per il diritto romano),formato poi dalle parti.La giustizia nel processo deve seguire a "suum unicuique tribuere"(testimonianza svolta anche da leo peppe con un suo articolo) si afferma il diritto sostanziale che ognuno ha,ossia il principio di riattribuzione "a ciascuno il suo".In precedenza nel periodo altomedievale il processo veniva definito come un accordo,in quanto non si voleva far riconoscere a "ciascuno il suo".Si cercò di mettere fine al contratto che si crea,con la ripresa di un certo individualismo.Bulgaro inoltre afferma che la richiesta di giustizia doveva essere rituale,ossia formulata secondo il sistema romano delle azioni."Comque protraheretur inter vos per dies aliqot altercatio,et nos una cum fratibus....." in questa parte del testo esaminata mercoledi a lezione si dice che" tra voi si era protratta una discussione e noi (cancelliere più altri fratelli)abbiamo lavorato per fare un placito(comporre la lite),il papa morto,il giudice rimanda il processo".
Vediamo che cambia la mentalità:da un placito al processo,compaiono gli avvocati poichè sono gli unici specializzati in questo lavoro. nella seconda parte del testo "terminio itaque prestito,cum utraque pars,adductis ligisperitis et..."viene nominato il fratello guido il quale afferma di essere stato il titolare della parrocchia fino a quando i senesi se ne erano impossessati sostenendo che fosse un territorio senese."senenses se per violentiam ab aretinis..."i senesi sostengono di aver subito loro la violenza,adottando una legge di tutela,svolta da Valentiniano e Arcadio che prevedeva che chi fosse in possesso di beni di un altro, e lo si fa con violenza, il dominio preso deve essere restituito al proprietario,versare a colui che è stato spossessato il valore della cosa.Da osservare è:il testo, che è messo tutto nell atto,questo perche non esistono molte copie del codex,quindi si cerca di riportare tutto il testo con il nome dell autore per conferire autorità."pretor...experiaris"citazione tacita del digestum nuvum,libro 48.nell ultima parte della sentenza, "ceterum advocatis alternatim..." si sostiene che ci si deve soffermare sul possesso,c è un recupero del possesso romano come strumento di attribuzione di un potere di fatto.
Visto che tutti gli argomenti trattati a lezione in quest'ultima settimana sono stati ampiamente discussi sul blog ho provato a sfogliare le pagine degli appunti presi durante il corso. Ho trovato interessante un riferimento fatto dal Professore a proposito di Carlo Ginzburg (Torino 1939) storico, scrittore e saggista italiano. In particolare credo sia interessante il saggio "spie, radici di un paradigma indiziario" che, se pur marginalmente, può toccare i temi da noi trattati a lezione. Con questo saggio l’autore vuole dimostrare come si sia imposto a fine 800 un modello epistemologico in molte scienze umane. Questo paradigma che egli definisce indiziario ha radici antichissime nell’animo umano: deriva infatti dal sapere di tipo venatorio che hanno sviluppato i nostri antenati cacciatori. Essi infatti hanno elaborato la capacità di risalire da dati sperimentali a prima vista trascurabili a una realtà complessa non verificabile direttamente. A questo sapere si sono andati collegando nel corso del tempo altri campi del sapere umano, come la semeiotica medica, la divinazione e il diritto. Infatti, se il paradigma indiziario o divinatorio è rivolto verso il futuro avremo la divinazione in senso proprio; se è rivolto verso il passato, il presente e il futuro avremo la semeiotica medica negli aspetti di diagnosi e prognosi; se è rivolto verso il passato, la giurisprudenza. Col passare del tempo è quindi emersa tutta una costellazione di discipline che si basavano sulla decifrazione di segni. In Grecia, esempio fondamentale è la medicina ippocratica, che sosteneva che solo osservando tutti i sintomi era possibile elaborare una diagnosi, essendo la malattia di per sè inattingibile. Questo paradigma è stato però schiacciato dal modello di conoscenza proposto da Platone. Le discipline che vengono indicate come indiziarie non rientrano nel paradigma delle scienze galileiane, in quanto esse sono eminentemente qualitative e basate su situazioni individuali, in quanto individuali. La scienza galileiana invece impiega la matematica e il metodo sperimentale ed è quindi basata sulla quantificazione e la reiterabilità dei fenomeni. Galileo ha impresso alle scienze della natura una svolta antiantropocentrica e antiantropomorfica. Questo spiega perchè la storia non sia mai riuscita a diventare una scienza galileiana: essa ha una strategia conoscitiva individualizzante (anche se l’individuo è un gruppo o una società intera). La conoscenza storica è congetturale e indiziaria.
Il primo tentativo di fondazione della connoisseurship è da far risalire a Giulio Mancini, medico di papa Urbano VIII. Egli scrisse un libro destinato ai dilettanti; una delle parti più originali è quella dedicata ai metodi per riconoscere i falsi. Questo presuppone che fra l’originale e la sua copia esista una differenza ineliminabile. A ciò è legato l’emergere della figura del conoscitore. Tutto il metodo proposto da Mancini era basato sull’affermazione dell’inimitabilità dei tratti individuali: in questo modo sarebbe stato infatti sufficiente isolare nel quadro gli elementi inimitabili per risalire al vero autore dell’opera. L’identificazione della mano del maestro sarebbe stata possibile particolarmente in quelle parti del quadro eseguite più rapidamente e più sganciate dalla rappresentazione del reale (capelli, panneggi). Questo metodo ci porta a pensare che il vero ostacolo all’applicazione del paradigma galileiano è la centralità o meno dell’elemento individuale. Più i tratti individuali sono preminenti più svanisce la possibilità di poterlo applicare. A questo punto sono quindi possibili 2 vie: o sacrificare l’elemento individuale alla generalizzazione o elaborare un paradigma diverso. La prima via fu percorsa dalle scienze naturali poichè la tendenza a fare a meno dei tratti individuali è direttamente proporzionale alla distanza emotiva dell’osservatore. Infatti, la conoscenza individualizzante è sempre antropocentrica, etnocentrica e così via. Per le discipline a cui era negato l’occhio soprasensoriale della matematica la vista divenne l’organo privilegiato. Tra queste c’erano le scienze umane. Ci furono dei tentativi di introdurre la matematica in queste scienze (statistica), ma esse rimasero comunque ancorate ad un modello qualitativo, che ad esempio nel caso della medicina provocò e provoca polemiche. Le cause dell’incertezza della medicina sono fondamentalmente 2: il catalogare tutte le malattie non è sufficiente perchè in ogni individuo esse si manifestano con caratteristiche differenti; la conoscenza delle malattie è sempre indiretta perchè il corpo vivente è inattingibile. Il fatto quindi che la medicina non possa raggiungere il rigore delle scienze naturali è dovuto al fatto che la quantificazione è impossibile; e questo perchè l’elemento individuale è ineliminabile perchè l’occhio umano coglie più facilmente le differenze fra gli esseri umani. La medicina rimane comunque una scienza socialmente riconosciuta. Non così per la connoisseurship che è relegata ai margini delle discipline. Essa, come altre forme di sapere legate alla pratica quotidiana, è basata sull’esperienza, sul concreto. E questo è il suo limite, il non saper servirsi dell’astrazione. A questo tipo di sapere si era sempre cercato di dare una formulazione scritta, senza mai ottenere risultati rilevanti. Le cose cambiarono nel corso del 700, quando la borghesia iniziò un processo di appropriazione di tutto il sapere, indiziario e non, e nel contempo diede il via ad una acculturazione di massa. Il simbolo di questo processo è l’Encyclopedie. In questo periodo un numero sempre maggiore di lettori venne a contatto con determinate esperienze attraverso le pagine dei libri. Grazie alla letteratura il paradigma indiziario conobbe nuova fortuna.
Due termini sono stati coniati fra il 700 e l’800 per indicare processi conoscitivi e discipline che si basano sul paradigma indiaziario: serendipity, creato da Horace Walpole nel 1754, per designare le scoperte fatte grazie al caso e all’intelligenza. Nel 1880 Thomas Huxley in un ciclo di conferenze dedicate alla diffusione delle scoperte di Darwin utilizzò la definizione “metodo di Zadig”, in riferimento ad una novella di Voltaire. Questa perifrasi indicava il procedimento che accomunava materie come la storia, l’archeologia, l’astronomia fisica, la geologia e la paleontologia: esse si rivolgono infatti al paradigma indiziario, scartando quello galileiano, basandosi sul fatto che quando le cause non sono riproducibili possono essere inferite dagli effetti. Sempre tra 700 e 800 si affermò fra tutte le scienze per prestigio epistemologico la medicina; ad essa fecero riferimento tutte le altre scienze umane. Queste discipline, col passare del tempo, hanno assunto sempre più il paradigma indiziario della semeiotica. A questo punto è chiarito il legame presentato a inizio saggio fra Morelli – Freud – Conan Doyle, tre medici che si sono serviti ampiamente di questo modello. Morelli si era proposto di rintracciare all’interno di un sistema fatto di segni culturalmente influenzati come quello pittorico l’involontarietà dei sintomi, affermando che in questi segni involontari si poteva ritrovare la personalità dell’artista. In questo modo si ricollegava al suo predecessore, Giulio Mancini. Al termine del saggio, l’autore sostiene che se le pretese di sistematicità sono velleitarie, non va però abbandonata l’idea di totalità: l’esistenza di una connessione profonda che lega gli elementi superficiali viene ribadita nel momento in cui si sostiene che una conoscenza diretta di questa è impossibile. Esistono tuttavia spie e indizi che ci permettono di decifrarla. La decadenza del pensiero sistemico è accompagnata dal crescere del pensiero aforistico; il termine stesso significa indizio, sintomo, spia. Aforismi era una raccolta di pensieri di Ippocrate; nel 600 si diffusero raccolte di Aforismi Politici. La letteratura aforistica è per definizione un tentativo di formulare giudizi in base a sintomi. L’autore inoltre si chiede se un paradigma indiziario possa essere ritenuto rigoroso o meno. Ma in fondo questa caratteristica forse non è nemmeno desiderabile nei casi delle discipline che rigurdano l’individualità. In questo tipo di conoscenze devono entrare in gioco colpo d’occhio, fiuto e intuizione, intendendo con quest’ultimo termine la capacità di passare in maniera repentina dal noto all’ignoto sulla base di indizi.
Salve a tutti… Mi sono soffermata su quanto detto oggi a lezione in merito al diritto naturale e al diritto civile, prendendo spunto da Cortese in “Le grandi linee della storia giuridica medievale”. Ius naturale e ius civile erano due ordini diversi che, per quanto legati, agivano ciascuno per conto proprio sulla vita del diritto. Nel campo delle obbligazioni, per esempio, dal diritto naturale nascevano obbligazioni naturali e dal civile obbligazioni civili, sicchè se il soggetto compiva un atto o un negozio conformemente all’equità doveva rispettare la causa tipica di diritto naturale per far nascere l’obbligazione naturale, se tale causa era prevista dal diritto civile, la causa naturale era al contempo causa civile e generava anche un’obbligazione civile. Se invece il diritto positivo ancora non la prevedeva, per far nascere un’obbligazione civile accanto a quella naturale, il soggetto poteva rivolgersi a quelle forme cui la legge annetteva efficacia obbligatoria, per esempio alla stipulatio. Ecco allora la prima scienza giuridica imperniare tutto il sistema delle obbligazioni private sul gioco delle due cause, naturale e civile, ciascuna all’origine di uno dei due tipi di obbligazione in forza dei rispettivi ordinamenti. Quando entrambe le cause sono poste in essere, ed entrambi i diritti agiscono, i soggetti sono pienamente tutelati: si consegna una somma (causa naturale) e si compie una stipulatio per farla restituire (causa civile). Ma se le due cause vengono realizzate in momenti diversi si creano temporanee incertezze, se, ancor peggio, una delle due manca, si creano rapporti scempi e le cose si complicano: qualora in presenza della causa civile faccia difetto la causa naturale, si scatenerà la patologia dell’indebito (la stipulatio effettuata obbliga il debitore a restituire una somma che non è dovuta) e si dovrà correre ai ripari o con un’ exceptio doli per paralizzare l’azione petitoria della controparte, oppure con una condictio in vista della ripetizione. Qualora manchi invece la causa civile nascerà quell’obbligazione solo naturale che consente di trattenere quanto spontaneamente prestato (come nel debito di gioco), ma non di esercitare un’azione petitoria per ottenere quanto dovuto. La descrizione più nota di questi meccanismi, si trova nella prima Summa Codicis, la cosiddetta Trecensis, risalente alla metà circa del XII secolo. E’ vero che si ripropone il connubio preirneriano tra i diritti naturale e civile, ma esso appare lontano dall’utraque lex predicata da Pepo nell’XI secolo. Nel frattempo, le scuole dei legisti essendosi staccate da quelle canonistiche in cui si era verificato il primo ritorno a Giustiniano, il diritto naturale ha dovuto cambiare faccia e assumere quella che gli disegnava il Digesto. La sua vecchia identificazione con il diritto divino continuerà talvolta a riecheggiare fievolmente nelle aule civilistiche, ma solo perché l’eco ne veniva da quelle dei decretisti seguaci di Graziano. ...Continua...
...Vedi sopra... Sebbene talvolta anche il diritto civile generasse aequitates, era il diritto naturale a fornirne in massa in ossequio alla propria specifica funzione, ed erano quindi le causae naturales a rappresentare il momento equitativo di tutti i fenomeni giuridici. Ogni rapporto, pubblico e privato, presupponeva tacitamente lo schema della conversione dell’equità grezza, sostrato immobile ed eterno delle varie specie “naturali” di rapporti umani, nell’equità constituta che altro non era se non ius civile, rifornito dell’energia soggettiva proveniente dalla volontà del legislatore. Agganciati come dovevano essere sia allo statico ordinamento naturale sia al dinamico ordinamento civile, atti, negozi, leggi e consuetudini dovevano ruotare per forza intorno a due principi, l’uno obiettivo l’altro soggettivo, che sono poi da sempre i poli necessari del circuito vitale del diritto. I glossatori furono ben consapevoli di questo quadro: misero come polo obiettivo l’equità, e sulla scorta di fonti sia giuridiche sia teologiche identificarono il polo soggettivo nella giustizia. Già Irnerio descrive la cosa in una delle sue glosse: la dinamica della vita giuridica sta tutta nell’assunzione di aequitates entro formali dichiarazioni di volontà, e queste ultime costituiscono la giustizia. D’altronde la Chiesa insegnava che la giustizia era una delle virtù cardinali, e le arti liberali, ispirandosi a Cicerone, dicevano della virtù che era una predisposizione soggettiva. Le fonti giuridiche, poi, precisavano che la giustizia è quella volontà che ha per oggetto specifico di dare a ciascuno il suo. (Ulpiano) Se ne deduceva che l’identica carica soggettiva doveva muovere tutto il ius, dato che esso discende dalla iustitia (ne deriva persino il nome), ne è quindi figlio ed eredità necessariamente la natura della madre. Completamente impostata sulla trama dei rapporti tra diritto naturale e civile, racchiusa nel circuito che corre tra equità e giustizia, tra principi empirici obiettivi e interventi soggettivi, la teoria generale del diritto dei tempi postirneriani appare strutturata in un’architettura logica e coerente. La maggior produzione del sapere giuridico viene da laboratori minori rispetto a Bologna, spesso transalpini. Si tratta di scuole che, avendo obiettivi di formazione pratica, sono tutto sommato meglio disposte alle costruzioni dogmatiche di quanto sia Bologna, che per tutto il XII secolo resta piuttosto chiusa entro le mura severe dell’esegesi testuale.
Oggi a lezione è emerso il tema del "contempt of court", ecco una breve descrizione per chi non si ricordasse il significato. Il contempt of court è un'azione od omissione che tendenti ad ostacolare o interferire con l'amministrazione della giustizia ordinaria, ovvero a mettere in pericolo la dignità del giudice o il rispetto per la sua autorità. E' possibile rinvenire due generi: diretto e costruttivo". Il "disprezzo" diretto avviene apertamente e in presenza del giudice, attraverso colui che resiste al potere del giudice. Il "disprezzo" costruttivo risulta, invece, da questioni al di fuori della corte, come ad esempio il mancato rispetto degli ordini. E' poi possibile effettuare un'ulteriore classificazione tra disprezzo civile e penale. Il "contempt" civile si verifica quando il contemnor, colui che oltraggia la corte, disobbedisce volontariamente ad un ordine del tribunale. Questo è anche chiamato disprezzo indiretto poiché si verifica al di fuori del controllo immediato del giudice e dovrà essere presentata una prova al giudice per dimostrare il disprezzo. Il "contempt" penale si verifica, invece, quando il contemnor effettivamente interferisce con la capacità del giudice di esercitare correttamente il proprio ufficio, (ad esempio urlare al giudice). Questo è anche chiamato disprezzo diretto perché si verifica direttamente davanti al giudice.
La pena per l'oltraggio civile è di solito il pagamento di una multa, o la detenzione per un periodo indefinito di tempo fino a quando il soggetto reo del disprezzo accetta di svolgere il suo obbligo legale. La pena per l'oltraggio penale è una multa o la reclusione per un determinato periodo di tempo, inteso come una punizione, che deve essere giudicato da una giuria se il "contempt" imporrebbe pene superiori ad un massimo di sei mesi.
Nella lezione odierna si è accennato all’interdetto unde vi, facendo una breve ricerca abbiamo trovato a riguardo un testo su Google Books “Lo studio del diritto romano ovvero Le Instituta e le Pandette Volume III” di Nicola Comerici ; ci siamo soffermati sul titolo XXXV intitolato “Dell’interdetto in caso di violenza fatta colle armi, o senza armi. Riportiamo di seguito alcuni passi che abbiamo trovato interessanti. “Anticamente vi erano due diversi interdetti, uno che riguardava la violenza privata e quotidiana cioè fatta senza armi, l’altra violenza pubblica, cioè fatta colle armi. […] In seguito per ciò che sia diritto competente a chi violentemente fu scacciato dal possesso per esservi reintegrato, questi due interdetti furono quasi in tutto assimilati, e tanto nel Codice quanto negli Instituta vanno ambedue confusi sotto un terzo nome, tratto dalle iniziali parole dell’editto pretorio Unde Vi. […] L’interdetto De vi, et vi armata, ossia unde vi, ha luogo nelle sole cose immobili. Compete a chi è stato scacciato contro chi l’ha scacciato in occasione del delitto da costui commesso. Promosso fra l’anno utile, produce la restituzione dell’intero, essendolo tal tempo, la restituzione di ciò che l’espulsore abbia guadagnato. L’interdetto in esame ha luogo nei fondi, nelle case, e nelle cose attaccate al suolo, non meno che in quelle incorporali, le quali si sogliono annoverare tralle immobili, come è l’usufrutto e l’uso delle cose immobili, la giurisdizione, il diritto di patronato, il diritto di decime, di censo e di annua rendita se non diretto, almeno utile. Lo stesso bisogna dire delle servitù prediali, poiché potendo sopra esse cadere il quasi possesso come sull’uso e sull’usufrutto egualmente riguardo d si può adoperare l’interdetto unde vi. Non così avviene delle cose mobili, alle quali l’interdetto nominato non si estende. […] Se però nel fondo o nella casa, da cui sia stati scacciati, vi sono cose mobili, non vi è dubbio che l’interdetto abbracci anche queste. (Nella lezione odierna il Professore ha citato l’episodio riguardante la disputa tra il vescovo di Bologna e i monaci di Santo Stefano i quali si erano rifiutati di prestare un omaggio annuale, ovvero un carro ricco di alimenti. I monaci incaricano Azzone per la difesa. Quest’ultimo ripropone il caso in una quaestio per i suoi studenti, modificandola a scopi didattici. Il giurista intendeva concedere agli studenti che avrebbero difeso il vescovo di Bologna l’interdetto unde vi. Da quanto appreso nel testo sopra riportato sembra però che tale interdetto poteva essere utilizzato solo per le cose immobili, mentre nel caso in questione il bene era mobile (il carro). Possibile che il carro sia stato considerato come una rendita annua?)
Salve a tutti!
RispondiEliminaNell'ultima lezione ci ha incuriosite il libro citato dal Prof.,"Stato di eccezione" di Giorgio Agamben.Abbiamo subito notato che come "dedica" l'Autore ha rivolto un interrogativo ai giuristi: QUARE SILETIS JURISTAE IN MUNERE VESTRO? Si impone così in modo "prepotente" la riflessione sullo stato di eccezione,che in primo luogo viene definito come paradigma di governo.Agamben ricorda come Carl Schmitt abbia fissato l'essenziale contiguità tra lo stato di eccezione e la sovranità con la sua celebre definizione del sovrano: "colui che decide sullo stato di eccezione"(Politische Thelogiche,1922).Altri autori ritengono che l'eccezione si fondi sullo stato di necessità rifacendosi all'antica massima NECESSITAS
LEGEM NON HABET,ma la definizione stessa del termine è resa difficile dal suo situarsi al limite tra la politica e il diritto."Di fronte all'inarrestabile progressione di quella che è stata definita una "guerra civile mondiale",lo stato di eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea",ed anzi lo stato di eccezione si presenta come una soglia di indeterminazione tra democrazia e assolutismo.All'incertezza del concetto corrisponde l'incertezza terminologica.Infatti questo termine,comune nella dottrina tedesca AUSNAHMEZUSTAND,ma anche NOTSTAND,stato di necessità,è estraneo alle dottrine italiana e francese,in cui figurano termini quali decreti d'urgenza e stato di assedio,mentre nella dottrina anglosassone prevalgono termini come "martial law" ed "emergency powers".Ma l'Autore dopo un lungo excursus sui problemi terminologici e concettuali relativi allo stato di eccezione ricorda un'affermazione densa di significato: "lo stato di eccezione...è diventato la regola"(W.Benjamin);quindi non è misura eccezionale come potrebbero suggerire i termini su menzionati.
Nel progetto dell'attuale Costituzione italiana era stato inserito un articolo che sanciva: "Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione,la resistenza all'oppressione è un diritto e un dovere del cittadino".La proposta incontrò forti opposizioni e alla fine prevalse l'opinione che fosse impossibile regolare giuridicamente qualcosa che,per sua natura,si sottraeva all'ambito del diritto positivo.Al contrario nella Costituzione della Repubblica federale tedesca vi è un articolo,l'art. 20,che afferma "contro chiunque tenti di abolire quell'ordine (la cotituzione democratica),tutti i tedeschi hanno un diritto di resistenza,se altri rimedi non sono possibili",legalizzando senza riserve il diritto di resistenza.(Silvia Codispoti e Giovannina Damiani)
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RispondiEliminaUn'opinione ricorrente pone a fondamento dello stato di eccezione il concetto di necessità.Secondo un adagio latino NECESSITAS LEGEM NON HABET,la necessità non ha legge,che viene inteso nei due sensi opposti: "la necessità non riconosce alcuna legge" e "la necessità crea la sua propria legge".
Il principio secondo cui NECESSITAS LEGEM NON HABET ha trovato la sua formulazione nel DECRETUM di Graziano.Esso vi compare due volte: una volta nella glossa e un'altra nel testo.La glossa,che si riferisce ad un passo in cui Graziano si limita genericamente ad affermare che "molte cose per necessità o per qualsiasi altra causa sono compiute contro la regola"(pars I,dist. 48),sembra attribuire alla necessità il potere di rendere lecito l'illecito (SI PROPTER NECESSITATEM ALIQUID FIT,ILLUD LICITE FIT:QUIA QUOD NON EST LICITUM IN LEGE,NECESSITAS FACIT LICITUM.ITEM NECESSITAS LEGEM NON HABET).Ma in che senso ciò vada inteso,si capisce meglio dal testo successivo di Graziano (pars III,dist.I,cap.II),che si riferisce alla celebrazione della messa.Dopo aver precisato che il sacrificio deve essere offerto sull'altare o su un luogo consacrato,Graziano aggiunge: "E' preferibile non cantare nè ascoltare la messa,che celebrarla nei luoghi in cui non si deve celebrarla;a meno che ciò non avvenga per una suprema necessità,perchè la necessità non ha legge" (NISI PRO SUMMA NECESSITATE CONTINGAT,QUONIAM NECESSITAS LEGEM NON HABET).Più che rendere lecito l'illecito,la necessità agisce qui come giustificazione di una trasgressione in un singolo caso specifico attraverso un'eccezione.
Tommaso d'Aquino,nella SUMMA THEOLOGICA,commenta questo principio proprio in relazione al potere del principe di dispensare dalla legge: "Se l'osservanza della legge secondo le parole non implica un pericolo immediato,a cui bisogna subito porre rimedio,non è nel potere di un uomo qualsiasi interpretare che cosa sia utile o nocivo alla città;ciò è competenza esclusiva del principe,che in un caso del genere ha l'autorità di dispensare dalla legge.Se vi è,però,un pericolo improvviso,rispetto al quale non vi sia il tempo di ricorrere a un superiore,la stessa necessità porta con sè una dispensa,poichè la necessità non soggiace alla legge (IPSA NECESSITAS DISPENSATIONEM HABET ANNEXAM,QUIA NECESSITAS NON SUBDITUR LEGI)".
(Silvia Codispoti e Giovannina Damiani)
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RispondiEliminaLa teoria della necessità è qui nient'altro che una teoria dell'eccezione (DISPENSATIO),in virtù della quale un singolo caso è sottratto all'obbligo dell'osservanza.La necessità non è fonte di legge e nemmeno propriamente sospende la legge;essa si limita a sottrarre un singolo caso all'applicazione letterale della norma.Il fondamento ultimo dell'eccezione non è qui la necessità,ma il principio secondo cui "ogni legge è ordinata alla salvezza comune degli uomini,e solo per questo ha VIM ET RATIONEM LEGIS (forza e ragione di legge);se viene meno a ciò,VIRTUTEM OBLIGANDI NON HABET (non ha efficacia obbligatoria)".
Un caso di disapplicazione della legge EX DISPENSATIONEM MISERICORDIAE si trova in Graziano in un passo in cui afferma che la Chiesa può omettere di sanzionare una trasgressione nel caso in cui il fatto trasgressivo sia già avvenuto (PRO EVENTU REI: ad esempio nel caso in cui una persona che non poteva accedere all'episcopato sia già stata di fatto consacrata vescovo).Qui paradossalmente la legge non si applica proprio perchè l'atto trasgressivo è effettivamente già stato compiuto,ma la sua sanzione implicherebbe conseguenze negative per la Chiesa.L'eccezione medievale rappresenta in questo senso un'apertura del sistema giuridico a un fatto esterno,una sorta di FICTIO LEGIS per cui,nell'esempio suddetto si fa come se l'elezione del vescovo fosse stata legittima.Lo stato di eccezione moderno è,invece,un tentativo di includere nell'ordine giuridico la stessa eccezione,creando una zona di indistinzione in cui fatto e diritto coincidono.
(Silvia Codispoti e Giovannina Damiani)
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RispondiEliminaNel III cap. del libro,Agamben si occupa di un istituto del diritto romano che si può considerare come l'archetipo del moderno AUSNAHMEZUSTAND,il IUSTITIUM.Il termine IUSTITIUM,costruito esattamente come SOLSTITIUM,significa letteralmente "arresto,sospensione del diritto": QUANDO IUS STAT SICUT SOLSTITIUM DICITUR,IUSTISTIUM si dice quando il diritto sta fermo,come (il sole nel) solstizio,ovvero,nelle parole di Aulo Gellio,IURIS QUASI INTERSTITIO QUAEDAM ET CESSATIO,quasi un intervallo e una specie di cessazione del diritto.Esso implicava una sospensione non semplicemente dell'amministrazione della giustizia,ma del diritto come tale,e ciò consiste nella produzione di un vuoto giuridico.
Il capitolo termina con i risultati di questa "inchiesta genealogica" sul IUSTITIUM:
1)Lo stato di eccezione non è una dittatura,ma uno spazio vuoto di diritto,una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche sono disattivate.False sono dunque quelle dottrine che cercano di collegare lo stato di eccezione al diritto e anche quelle,come la dottrina di Schmitt,che cercano di iscrivere mediatamente lo stato di eccezione in un contesto giuridico,attraverso lo stato di necessità.Ma lo stato di necessità non è uno "stato di diritto" ma uno spazio senza diritto.
2)Questo spazio vuoto del diritto sembra essere così essenziale all'ordine giuridico,anche se apparentemente il vuoto giuridico,che è lo stato di eccezione,sembrerebbe impensabile per il diritto.
3)Gli atti commessi durante il IUSTITIUM sembrano situarsi in un assoluto non-luogo,non essendo nè trasgressivi,nè esecutivi,nè legislativi.
L'Autore conclude evidenziando che lo stato di eccezione ha oggi raggiunto il suo massimo dispiegamento planetario.L'aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale,che ignora all'esterno il diritto internazionale e produce all'interno uno stato di eccezione permanente,pretendendo addirittura di stare ancora ad appliccare il diritto!
Silvia Codispoti e Giovannina Damiani.
RINNOVAMENTO RIVESTITO DI ANTICHITA’
RispondiEliminaVogliamo intitolare così il nostro intervento, perché questa è la frase che più ci ha colpito leggendo il terzo capitolo del nostro libro di testo. In effetti, appare un ossimoro “rinnovamento-antichità” e sembra molto strano pensare a un ritorno a Giustiniano come ad un rinnovamento!
Assistiamo qui alla rievocazione dei principi del possesso romano dopo che, nell’Alto-medioevo, questa parola fu oscurata da quella germanica “Gewere”. La Gewere, ci è sembrato di capire, si possa tradurre letteralmente “vestire” e per questo riportabile alla traduzione latina di VESTITURA. Questa “vestitura” aveva luogo quando un soggetto, spogliato dei propri beni o poteri, ne veniva poi reintegrato, si può parlare, quindi, di un atto di restituzione. La vestitura era intesa perciò come premessa indispensabile per l’esercizio dell’azione di spoglio.
Abbiamo trovato un esempio, risalente all’VIII secolo, di Gewere germanica, utile per spiegare la Gewere come una situazione di legittimazione. La fonte è la “Lex Ripuaria” così chiamata perché era la legge dei Franchi Ripuari, così chiamati perché stanziati lungo le “ripe” del Reno. Il passo in latino, che abbiamo letto, è relativo al trasferimento di immobili o appunto “possessiunculae”.
Detta legge prevedeva che si assumessero come testimoni del trasferimento della titolarità reale alcuni bambini e, contestualmente al rito di trasferimento, li si schiaffeggiasse perché potessero serbare memoria anche in futuro di una simile, sgradevole e dolorosa evenienza. Evidentemente, tutta la situazione era preordinata ad una anomala, ma sentita esigenza di pubblicità ‘immobiliare’ ed alla necessità di una sua proiezione nel tempo a venire: si usavano i bambini come testimoni perché avrebbero vissuto più a lungo di altri testimoni più anziani e si infliggeva loro, quindi, una sofferenza che potesse imprimere nella loro memoria, anche per gli anni della maturità e della vecchiaia, il ricordo di quanto si voleva documentare e cioè la costituzione di un rapporto di Gewere, la cui essenza, per l’appunto, consisteva nel protrarsi nel tempo della prova (del titolo) di una legittimazione d’uso, alla cui stabilità nel tempo non soccorrevano elementi soggettivi quali l’animus od altre connotazioni e vicende tipiche della possessio romanistica.
Questo è il quadro di come appare la Gewere nell’Alto-medioevo.
Tutto ciò era destinato a cambiare nell’XI secolo con il ricorso all’autorità dei testi antichi ed ecco perché il professore parla di “rinnovamento rivestito di antichità”.
A quest’opera contribuì Aimerico, cancelliere di Santa Romana Chiesa, che riteneva che i principi di diritto romano coincidessero con quelli di diritto divino e per questo chiese a Bulgaro di redigere un trattato sulle azioni romane. Questo rinnovamento del XII secolo si può sintetizzare con la seguente formula: l’azione rivela il diritto e solo il diritto dà luogo all’azione! Il nuovo possesso, quindi, non aveva più nulla a che fare con la vecchia “vestitura” dell’Alto-medioevo, infatti, insieme alla buona fede e all’idoneità della cosa ad essere posseduta, si riprende in considerazione l’elemento psicologico: l’animus possidendi, che era passato invece in secondo piano durante il periodo precedente. Possiamo perciò dire che si ritorna alla possessio romana, intesa come situazione di fatto con i suoi elementi oggettivi e soggettivi, e che si formulano le proprie azioni attraverso le proprie pretese. E' questa la strategia messa in atto dai giuristi dell’XI e XII secolo chiamati ad essere i legali nelle più importanti cause dell’epoca e ad ottenere la vittoria in tribunale, attraverso la raffinatezza dei testi di Giustiniano.
Camilla Bonadies e Barbara Taccone
(Irene Calzavarini)
RispondiEliminaNelle precedenti lezioni abbiamo fatto riferimento all’Umanesimo Giuridico e al fenomeno della Scuola Culta ;trovando tali argomenti interessanti ho cercato di fare un panorama generale del fenomeno e di riassumere alcuni passi del libro “Gli inizi dell’umanesimo giurico” di Domenico Maffei consigliato recentemente dal Professore.
La Scuola Culta è un movimento dottrinale di giuristi che operarono verso la fine del Medioevo per il rinnovamento del diritto allora vigente al fine di comporre una "culta giurisprudenza" filologicamente coerente con le sue radici storiche giustinianee.
Nel XV secolo alcuni umanisti notarono infatti che il testo del Digesto utilizzato nella scuola e nella prassi era pieno di errori e che sarebbe stato opportuno correggerlo ricorrendo al manoscritto più antico all’epoca disponibile: la famosa Lìttera Pisana (divenuta Florentina, o anche nota come Pandette Fiorentine, a seguito della conquista di Pisa da parte di Firenze. A letture successive, ed in un'ottica più strettamente giuridica, si è potuto riassumere il problema affrontato dalla Scuola Culta come la degradazione del Corpus di istituti giustinianei attraverso la sempre più possente infiltrazione della Glossa, l'interpretazione, a scapito della lettera del testo: come sintetizzato da Paolo Grossi, "il testo giustinianeo altro non è se non un chiodo piantato nel muro, al quale si attacca un filo del tutto autonomo rappresentato dall'interpretatio”. L'errore, sotto un profilo giuridico, nasce allora quando si verificano casi di susseguenze di interpretazioni (pur talvolta indispensabili, come nei casi di incoerenze fra passi dello stesso Digesto) che portano alla fine ad estrema distanza o contraddizione rispetto alla lettera del Corpus Iuris; per esempio, nell'epoca in cui si richiedeva il consolidamento del diritto feudale e con questo prendeva corpo la teoria del dominio diviso, effetto di mera interpretazione creativa, il problema si faceva di grande rilevanza. Ciò anche se l'attività dei glossatori, fiorita intorno all'XI secolo, si era poi ridimensionata sino a pressoché esaurirsi nella metà del XIII secolo, allorché Accursio, pubblicando e facendo circolare la sua Magna Glossa, in pratica aveva codificato, consolidandola, la massa delle interpretazioni correnti.
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(Irene Calzavarini)
RispondiEliminaLa contrapposizione fra un diritto strettamente ancorato alla lettera del testo ed uno invece dipendente dall'interpretazione, era stata resa celebre dagli allievi di Irnerio, Bulgaro e Martino, proprio al sorgere dell'ondata glossatoria dell'XI secolo. Si erano avuti dunque alcuni secoli in cui l'interpretazione aveva guadagnato terreno, salvo arrestarsi nel suo procedere per l'azione stabilizzatrice di Accursio. La Scuola Culta tendeva, perciò, al recupero di una sorta di ortodossia giustinianea (ed oltre l'imperatore direttamente riferita al diritto romano "puro"), e ad una riabilitazione del dogmatismo, ribaltando la prevalenza assunta nel frattempo dal disinvolto diritto giurisprudenziale, che massimamente di glossa si nutriva e non più del testo, e per questo teneva per faro la luce antica dei manoscritti conservati in Toscana.
Molti giuristi aderirono a questa ventata innovatrice, che innovava guardando all'antico. Fra i primi giureconsulti filologi italiani ci furono Emilio Ferretto, ravennate, ed Andrea Alciato, milanese. All'estero si notarono i contributi di Guillaume Budé (francese), dell'alemanno Ulrich Zasius e del portoghese Goveano, allievo del Ferretto. Circa l'importanza dei rispettivi apporti, il Forti éleva l'Alciato un buon gradino sopra gli altri, anche per la sua influenza indiretta sulla Scuola di Bourges, il più importante fra i circoli di questa nouvelle doctrine e quello in cui operò il Duareno (François Douaren), quasi un allievo dell'Alciato stesso. Sempre in Francia, ma critico nei riguardi della Scuola culta, cui pure apparteneva, François Hotman fu uno dei principali detrattori dell'opera di Triboniano, compilatore del Corpus Iuris, nonché dell'insegnamento nozionistico-mnemonico del diritto. Jacques Cujas si interessò anch'egli di Triboniano, del quale analizzò l'opera alla ricerca di quei passaggi nei quali il diritto romano autentico era stato modificato.
Incuriosita dall’argomento in questione ho deciso di leggere il libro “Gli inizi dell’umanesimo giuridico” di Domenico Maffei e sfogliandolo si evince facilmente come gli esponenti della Scuola Culta non perdessero occasione di mettere in rilievo il basso livello degli studi giuridici, la confusione, l’assenza di ogni retto criterio interpretativo delle leggi romane. Parole nelle quali è vivo il senso della polemica caratterizzante la fine del XIV sec e tutto il XV sec,contro la giurisprudenza Medievale condotta dagli umanisti senza esclusione di colpi. Ai Glossatori e ai Bartolisti si rimproverava imperizia e superficialità ,mancanza di buona cultura letteraria,poca ed erronea intelligenza dei testi e molto altro ancora. Questi giudizi,o più propriamente insulti , sono contenuti nel catalogo della biblioteca di Cuiacio. Alle accuse più volgari alla scienza giuridica medievale i Culti,irritati dalla persistenza del “mos italicus”,che cercavano di scalzare dalle università e dai tribunali, non giunsero però che nel XVI sec.
(Irene Calzavarini).
RispondiEliminaAddirittura il Petrarca puntò il dito contro quell’insufficienza della giurisprudenza del suo tempo,egli lamentava nella “Epistolae de rebus familiaribus”..”La maggior parte dei nostri legisti poco o nulla curando il conoscersi delle origini del diritto,e dei primi padri della giurisprudenza , né ad altro fine mirando che a trar guadagno dal suo mestiere , stassi contenta ad apparare quello che dei contratti, dei giudizi, dei testamenti della legge sta scritto ,e non pensa il conoscersi delle arti ,e i primordi e gli autori è di aiuto grandissimo all’uso pratico delle medesime.” Aldilà di questi spunti critici sembra molto più rilevante quello che scrisse nella “Lettera ai posteri” in cui precisa che il diritto che quei giuristi andavano senza scienza applicando era per lui dilettevole studiare perché saturo di quelle antichità romane delle quali egli era ammiratore. Accanto al Petrarca si aggiunge anche Boccaccio nelle cui opere ritornano le accuse alla classe forense e agli avvocati “che si industriano di far leggi e poi di contraffarle e di darne contrastanti interpretazioni,che provano e perpetuano litigi abusando sfacciatamente della loro conoscenza del diritto”.Le critiche degli umanisti sembrano fondarsi non solo sull’insufficienza della metodologia giuridica corrente ma prendono a rifermento anche la funzione assunta dal diritto nella vita della società civile fondata sul diritto.
Nel Quattrocento, uno dei maggiori critici della scienza giuridica medievale fu Lorenzo Valla ,che nel suo “Libellum” , attaccò ferocemente un giurista per aver ritenuto un trattato,il “De insigniis et armis” di Bartolo, superiore a qualsiasi scritto di Cicerone. Anche per il Vegio la colpa della decadenza degli studi giuridici deve esser fatta risalire direttamente a Triboniano che se non avesse deturpato la giurisprudenza classica,questa non sarebbe stata trascurata e sostituita dai confusi commentari di Bartolo e degli altri interpreti. Col Valla e col Vegio è buttato così il seme dell’antitribonianismo che si confonde poi con quello della polemica contro la giurisprudenza medievale. Una ferma esortazione a ritornare allo studio delle fonti pure del diritto romano sale,nello stesso giro d’anni,dall’ambiente umanistico fiorentino,infatti, Ambrogio Traversari in una lettera indirizzata al Porcari lo ammonisce sull’opportunità di lavorare direttamente sulle fonti,trascurando glosse e commenti.
Nonostante il Budeo, influenzato dal Valla e dal Poliziano, si scagliò contro Glossatori e Commentatori definendoli uomini appartenenti all’ “Accursiana setta” non fu costante nei suoi giudizi infatti ebbe parole di ammirazione per il grande giurista Bartolo e distinse tra Accursio e i suoi seguaci,giustificando il primo per i tempi in cui viveva e criticando aspramente i secondi per l’anacronismo del metodo usato. Tra i critici del sistema giuridico in parola va sicuramente ricordato anche Claudio Tolomei che con il suo “ De corruptis verbis iuris civilis dialogus” instaura un acceso dibattito tra il Giason Maino, uno degli ultimi e più chiari maestri del metodo dei Commentatori, e il Poliziano,considerato dai Culti “il primo insigne maestro che alla scienza del diritto applicò la cultura e la dottrina filologica”.
(Irene Calzavarini).
RispondiEliminaIl Poliziano sembra avere la meglio provandogli in 66 paragrafi gli errori degli interpreti e come essi deturpino il pensiero degli antichi. A completare il quadro delle manifestazioni polemiche contro gli interpreti medievali,anteriori alla Scuola Culta francese,sono Andrea Alciato e Ulrico Zasio. Entrambe si staccano nettamente dal coro generale contro i giuristi dell’età di mezzo in quanto i loro giudizi su Accursio,Bartolo,Baldo e gli altri maestri del diritto medievale sono quasi sempre positivi. Come Alciato anche Zasio si propone essenzialmente di liberare il Corpus Iuris dall’apparato che gli era cresciuto intorno ad opera della giurisprudenza del medioevo:sua ispirazione è,come scrive Cantiuncula nel 1518,di riportare la fonti romane alla loro primitiva purezza e di eliminare le erronee interpretazioni dei testi. Dall’ Alciato in poi la questione dell’umanesimo giuridico italiano si sposta in Francia,dove, della polemica comincia a farsi quasi una questione di nazionalità,contrapponendosi un “mos gallicus iuris docendi ac discendi” ad un “mos italicus”; proprio in Francia la ricostruzione storica del diritto romano procede con grande vigore e speditezza ,accentuandosi così il distacco della nuova dalla vecchia posizione metodologica rispetto al Corpus Iuris.
FONTI:
-Gli inizi dell'umanesimo giuridico,Domenico Maffei,Giuffrè editore,1972.
-Wikipedia:
-Borgo Dal Borgo, Dissertazione sopra l'istoria de' codici pisani delle Pandette di Giustiniano imperatore, Lucca, 1764.
-Megliorotto Maccioni, Osservazioni e dissertazioni varie sopra il diritto feudale, concernenti l'istoria e l'opinioni di Antonio da Pratovecchio, Livorno, 1764.
-Francesco Forti, Istituzioni di diritto civile, accomodate all'uso del foro, Eugenio & F. Cammelli, Firenze, 1863.
-Arrigo Brencmanno, Historia Pandectarum, Trajecti ad Rhenum, 1722.
(Irene Calzavarini).
RispondiEliminaIl Poliziano sembra avere la meglio provandogli in 66 paragrafi gli errori degli interpreti e come essi deturpino il pensiero degli antichi. A completare il quadro delle manifestazioni polemiche contro gli interpreti medievali,anteriori alla Scuola Culta francese,sono Andrea Alciato e Ulrico Zasio. Entrambe si staccano nettamente dal coro generale contro i giuristi dell’età di mezzo in quanto i loro giudizi su Accursio,Bartolo,Baldo e gli altri maestri del diritto medievale sono quasi sempre positivi. Come Alciato anche Zasio si propone essenzialmente di liberare il Corpus Iuris dall’apparato che gli era cresciuto intorno ad opera della giurisprudenza del medioevo:sua ispirazione è,come scrive Cantiuncula nel 1518,di riportare la fonti romane alla loro primitiva purezza e di eliminare le erronee interpretazioni dei testi. Dall’ Alciato in poi la questione dell’umanesimo giuridico italiano si sposta in Francia,dove, della polemica comincia a farsi quasi una questione di nazionalità,contrapponendosi un “mos gallicus iuris docendi ac discendi” ad un “mos italicus”; proprio in Francia la ricostruzione storica del diritto romano procede con grande vigore e speditezza ,accentuandosi così il distacco della nuova dalla vecchia posizione metodologica rispetto al Corpus Iuris.
FONTI:
-Gli inizi del'umanesimo Giuridico,Domenico Maffei,Giuffrè editore,1972.
-Wikipedia:
-Borgo Dal Borgo, Dissertazione sopra l'istoria de' codici pisani delle Pandette di Giustiniano imperatore, Lucca, 1764 .
-Megliorotto Maccioni, Osservazioni e dissertazioni varie sopra il diritto feudale, concernenti l'istoria e l'opinioni di Antonio da Pratovecchio, Livorno, 1764.
-Francesco Forti, Istituzioni di diritto civile, accomodate all'uso del foro, Eugenio & F. Cammelli, Firenze, 1863.
-Arrigo Brencmanno, Historia Pandectarum, Trajecti ad Rhenum, 1722 .
Scusate,nn so per quale motivo ma ha postato due volte l'ultimo commento.
RispondiEliminaSalve a tutti…
RispondiEliminaNella lettura del 3° capitolo del nostro libro, ho trovato interessante soffermarmi su un testo di C.A. Cannata, “Possessio possessor possidere nelle fonti giuridiche del basso Impero romano”, Milano, 1962, che ho trovato in biblioteca.
Uno degli impieghi più frequenti del termine possessio nelle fonti post-classiche, è quello che sta ad indicare il fondo, o più propriamente il latifondo. Come ebbe a precisare lo Schulten, “possessio hat eiene juristische, latifundium eine agrarische Grundbedeutung”.
Questo significato è tecnico, benché non vada considerato, il suo, un tecnicismo propriamente giuridico, ma piuttosto paragiuridico, simile a quello di termini come suppellex o penus.
L’uso di possessio per indicare i latifondi è abbastanza antico.
A quanto risulta dalla lettura di Festo, e, più esplicitamente di Isidoro, l’origine di quest’uso va ricercata nei rapporti privati sull’ager publicus. Quando poi, in seguito alle assegnazioni, i terreni assegnati restavano di notevole estensione, cioè non erano divisi, il termine possessiones che li designava, continuava ad essere usato, anche se il loro possessore aveva ormai su di essi la proprietà. Così si spiega il “publici privatique” di Festo.
Ma accanto a quest’uso tecnico di possessio (in origine, soprattutto al plurale, possessiones), ve n’era un altro, volgare, strettamente analogo. Il vocabolo, propriamente al singolare questa volta, è usato per indicare non il latifondo, ma un fondo qualsiasi. Quest’uso fu dapprima contrastato dai giuristi, che si preoccupavano delle confusioni cui esso poteva dar luogo. Il passo di Festo non è strutturato in modo del tutto logico, poiché in esso si salta bruscamente da un discorso sulla terminologia ad un discorso sulla sostanza; tuttavia s’intuisce il preciso chiarimento che il giurista Elio Gallo intendeva fornire. Possessio, si dice, indica un certo rapporto con un fondo, e non il fondo stesso; la possessio non è, infatti, una res, e chi può dire di avere la possessio di una cosa non è per ciò stesso in condizione di affermare che la cosa è sua. Chi afferma spettargli la possessio di una cosa, non può esperire, per farsi riconoscere tale pretesa, un’azione civile, rivendicando la possessio come “suam ex iure Quiritium”, ma deve ricorrere alla tutela interdittale.
Quando i romani ed in particolare i loro giuristi nominavano in un discorso a carattere giuridico, una res, la pensavano come oggetto di proprietà, anzi più esattamente, la vedevano dal punto di vista del diritto di proprietà su di essa. Il pensiero di Elio Gallo, nel testo di Festo, è legato a questo punto di vista; “V’è chi, avrebbe egli potuto scrivere, usa dire ‘possessio mea est’ e simili, quando dovrebbe dire ‘fundus meus est’ ecc. Ebbene, io lo avverto che, con quelle parole, dice tutt’altro, poiché se la possessio è sua, non è detto lo sia anche la proprietà”.
Lo stesso punto di vista è presente in un testo di Giavoleno. La comprensione del frammento offre qualche difficoltà, poiché in esso si notano incongruenze poco chiare. Il punto che più qui ci interessa, è la distinzione fra possessio e ager per il modo come è posta. Non è da escludere che anche Giavoleno, come già Festo, attingesse ai “libri de verbo rum quae ad ius civile pertinent significatione” di Elio Gallo. Anch’egli infatti è sempre sul confine dell’equivoco tra possessio come termine e possessio come rapporto. Quando, ripetendo quasi le parole di Festo (Gallo), dice “possessio ergo usus, ager proprietas loci est”, egli considera possessio come rapporto, mentre ove dice “quid enim adprehendimus etc hoc possessionem appellamus” parla di possessio come res. Il giurista esprime testualmente quella posizione mentale di cui sopra, quando si diceva che per i romani nominare una res è prenderne in considerazione la proprietà.
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RispondiEliminaE’ questo modo di vedere che dà ragione della differenza tra possessio e ager, impostata da Giavoleno: poiché possessio è l’usus, ager la proprietas, per ager s’intende un fondo di cui si ha la proprietà, mentre con possessio ci si riferisce ad un fondo di cui non si ha la proprietà, o perché di fatto non c’è, o perché, per la natura del fondo, non può giuridicamente spettare: evidente allusione ai terreni dei municipia e ai fondi provinciali.
Così dunque i giuristi tentavano di combattere la terminologia volgare che chiamava possessio il fondo; quel che è curioso è che essi talora sembrano proprio, nei loro discorsi, risentire dell’equivoco per evitare il quale si adoperavano: essi volevano distinguere la res dalla possessio della res, ed equivocano tra la possessio come res e la possessio come rapporto.
Prescindendo da questo, la conclusione che possiamo trarre dai due brani di Festo e Giavoleno è la seguente: si eviti di indicare come possessio “ipse fundus”, a meno che non si tratti di un fondo sul quale non abbiamo il diritto di proprietà. Pertanto: con “habeo agrum”, si vuole dire che si è proprietari; con “habeo possessionem” si indica come titolare di un diritto di uso su di un fondo di cui non si ha la proprietà.
Ma dopo il secondo secolo questi sforzi dei giuristi paiono aver ceduto. L’uso di possessio per indicare i fondi e la proprietà su di essi doveva essere talmente comune, che ai giuristi non restò ad un certo punto, che prenderne atto. Nel primo dei Fragmenta Vindobodensia delle istituzioni di Ulpiano si trova un sorprendente impiego di possessiones come equivalente, a quanto pare, di “cose immobili”. Possessione et res pare indubbio stia per “cose immobili e mobili”: si nota il chiaro insistere sull’appartenenza in proprietà privata di quelle possessiones, che son dette, per giunta, proprias.
A questo punto uso tecnico e uso volgare sono fusi: nelle fonti successive si incontra la possessio, al singolare e al plurale, usato per indicare i fondi, con preferenza rustici, ed in particolare (specie se al plurale) i latifondi, indipendentemente da ogni considerazione relativa al loro regime giuridico.
L’esemplificazione che è stata fornita, è stata tratta da giuristi e scrittori; verrà completata con alcune costituzioni imperiali: dati i risultati raggiunti, sembra si possa spiegare la frequenza di quest’impiego di possessio nelle costituzioni imperiali, anche all’epoca classica, senza pensare al fatto che esse siano o meno esempi di uno (stile amministrativo), secondo la terminologia introdotta dal Vernay.
Ci si limiterà a scorrere brevemente le costituzioni fino a Gordiano. Le più antiche sono 4 costituzioni di Caracalla, dell’anno 215. Si parla di “tua possessio” nel senso di “luogo di tua proprietà”.
Alessandro Severo indica l’ipoteca di un fondo dicendo “obbligata fuit possessio”, e gli investimenti immobiliari con l’espressione “pecuniam in emptionem possessionum converter”.
Nelle fonti postclassiche quest’uso di possessio continuò: esso corrispondeva singolarmente bene ad un atteggiamento della mentalità postclassica in materia di cose e di diritti sulle cose.
E’ necessario dare notizia di un atteggiamento nuovo di questo stesso uso di possessio, che compare in certe fonti postclassiche; in esse possessio corrisponde genericamente a res, qualunque res e non necessariamente immobile, tuttavia non esclusivamente mobile. Quest’uso della parola compare in fonti in cui la cosa considerata è indicata in modo generico, e (si tratta di leggi generali) nelle singole fattispecie la cosa che viene in considerazione può essere sia mobile che immobile.
...Continua...
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RispondiEliminaMa quando si ricorre a possessio in questi casi, è perché la cosa è considerata dal punto di vista del diritto a possederla che un soggetto ha su di essa: diritto a possederla che non discende necessariamente dalla proprietà, ma anche, e forse più spesso, nei casi in cui la cosa è immobile, dall’enfiteusi o rapporti consimili. E’ forse proprio per questo che in tali casi si dice possessio e non res: per adottare cioè una terminologia che possa esser propria per una più vasta gamma di fattispecie.
Secondo il Levy nel testo della costituzione costantiniana che vieta il patto commissorio, possessio sarebbe usato per indicare il diritto stesso sulla cosa, in una parola starebbe per “dominium”, proprietà. L’illazione non sembra esatta: anzitutto (argomento, questo, certo non sufficiente, ma indicativo, il luogo corrispondente della costituzione interpretata ha res. Inoltre, va considerato il contesto in cui è usata la parola possessio, e precisamente l’espressione “possessionem suam recipiat”: intendendo possessio come proprietà, suam e recipiat si troverebbero in contraddizione: se il debitore deve riavere la proprietà, ciò significa che questa attualmente non è sua. Intendendo possessio come la “cosa”, tutto corre invece perfettamente. Si cominci col considerare che la costituzione costantiniana sancisce la nullità del patto commissorio, sanzione fedelmente rispecchiata dalla interpretatio, e pertanto la proprietà (od altro diritto reale) sulla cosa pignorata non passa mai al creditore: ciò è confermato dalla parafrasi della costituzione, ove si afferma che il debitore “non videtur vendere” al creditore. E’ pertanto evidente che, ciò che al debitore si consente di “recipere”, è la sua cosa, e non il suo diritto. Siamo dunque precisamente di fronte a quella eccezione di possessio.
La legge di Valentiniano toglie il divieto, ma stabilisce alcune sanzioni per il caso che il funzionario abusi, nella conclusione del contratto o nella esecuzione di esso, di particolari situazioni derivanti dalla sua posizione o dalla situazione dell’altra parte. Anche questa legge stabilisce la nullità degli atti traslativi, e le espressioni “possessionem nihilominus perditurus, ut ad dominum redeat, cui taliter probatori ablata”, contengono 3 esempi dell’uso di possessio. Nella norma in tema di donazione da parte di privati a certi funzionari in carica: il regime che la costituzione stabilisce per queste donazioni è il seguente: entro 5 anni dall’uscita di carica del funzionario donataria, o parente del donatario, il donante può adire il giudice e, semplicemente provando la data della donazione (cioè che questa è avvenuta mentre il funzionario era in carica) ottiene la rescissione di essa per cui ha diritto alla restituzione della cosa e dei frutti. Anche qui dunque si tratta di conseguire il possesso della cosa, che appartiene all’attore per un titolo incontroverso.
Spesso le parole possessor, possessio e possidere, benché usate nelle loro accezioni tecniche, sono atteggiate in modo particolare, per cui è necessaria una certa riflessione onde rendersi conto esattamente del loro impiego. Il verbo possidere è usato per invadere, occupare; eppure il suo uso è perfettamente tecnico, poiché indica il fatto di chi, occupa una parte del suolo pubblico, lo tiene come se gli appartenesse.
...continua...
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RispondiEliminaMa quando si ricorre a possessio in questi casi, è perché la cosa è considerata dal punto di vista del diritto a possederla che un soggetto ha su di essa: diritto a possederla che non discende necessariamente dalla proprietà, ma anche, e forse più spesso, nei casi in cui la cosa è immobile, dall’enfiteusi o rapporti consimili. E’ forse proprio per questo che in tali casi si dice possessio e non res: per adottare cioè una terminologia che possa esser propria per una più vasta gamma di fattispecie.
Secondo il Levy nel testo della costituzione costantiniana che vieta il patto commissorio, possessio sarebbe usato per indicare il diritto stesso sulla cosa, in una parola starebbe per “dominium”, proprietà. L’illazione non sembra esatta: anzitutto (argomento, questo, certo non sufficiente, ma indicativo, il luogo corrispondente della costituzione interpretata ha res. Inoltre, va considerato il contesto in cui è usata la parola possessio, e precisamente l’espressione “possessionem suam recipiat”: intendendo possessio come proprietà, suam e recipiat si troverebbero in contraddizione: se il debitore deve riavere la proprietà, ciò significa che questa attualmente non è sua. Intendendo possessio come la “cosa”, tutto corre invece perfettamente. Si cominci col considerare che la costituzione costantiniana sancisce la nullità del patto commissorio, sanzione fedelmente rispecchiata dalla interpretatio, e pertanto la proprietà (od altro diritto reale) sulla cosa pignorata non passa mai al creditore: ciò è confermato dalla parafrasi della costituzione, ove si afferma che il debitore “non videtur vendere” al creditore. E’ pertanto evidente che, ciò che al debitore si consente di “recipere”, è la sua cosa, e non il suo diritto. Siamo dunque precisamente di fronte a quella eccezione di possessio.
La legge di Valentiniano toglie il divieto, ma stabilisce alcune sanzioni per il caso che il funzionario abusi, nella conclusione del contratto o nella esecuzione di esso, di particolari situazioni derivanti dalla sua posizione o dalla situazione dell’altra parte. Anche questa legge stabilisce la nullità degli atti traslativi, e le espressioni “possessionem nihilominus perditurus, ut ad dominum redeat, cui taliter probatori ablata”, contengono 3 esempi dell’uso di possessio. Nella norma in tema di donazione da parte di privati a certi funzionari in carica: il regime che la costituzione stabilisce per queste donazioni è il seguente: entro 5 anni dall’uscita di carica del funzionario donataria, o parente del donatario, il donante può adire il giudice e, semplicemente provando la data della donazione (cioè che questa è avvenuta mentre il funzionario era in carica) ottiene la rescissione di essa per cui ha diritto alla restituzione della cosa e dei frutti. Anche qui dunque si tratta di conseguire il possesso della cosa, che appartiene all’attore per un titolo incontroverso.
Spesso le parole possessor, possessio e possidere, benché usate nelle loro accezioni tecniche, sono atteggiate in modo particolare, per cui è necessaria una certa riflessione onde rendersi conto esattamente del loro impiego. Il verbo possidere è usato per invadere, occupare; eppure il suo uso è perfettamente tecnico, poiché indica il fatto di chi, occupa una parte del suolo pubblico, lo tiene come se gli appartenesse.
...Continua...
(chiedo scusa, il post precedente compare due volte)
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Poiché la costituzione non parla che della compravendita, parrebbe che possessio stia per proprietà: e invece la disposizione sembra piuttosto diretta a togliere ai giudei, senza indugio, la disponibilità di fatto degli schiavi cristiani: essa si riferisce infatti a “omnia quae aput eum repperiuntur”, indipendentemente dal titolo per il quale sono posseduti. Si noti come diversamente impostata è la fattispecie che risulta dalla interpolazione che, della costituzione di Costanzo, fecero i commissari giustinianei. Del resto, nella lettura delle costituzioni imperiali, specie di quelle del basso impero, si deve far sempre conto di particolari atteggiamenti di linguaggio che derivano dall’atteggiamento letterario di chi scriveva, talora seriamente preoccupato dei problemi della retorica, o, per contro, caso questo assai più raro, ostacolato da una troppo superficiale conoscenza del diritto.
La seconda ipotesi va però considerata con molta cautela, per non cadere nelle concezioni del volgarismo e del diritto volgare. L’esigenza immediata è quella di non generalizzare, ma soffermarsi invece a ricercare la causa del particolare stile impiegato. Un’esemplare indagine in questo senso ci è stata offerta di recente dal Volterra e non resta che ripercorrerne la strada.
La prima ipotesi è assai più frequente e generale, ma non molto spesso le preoccupazioni letterarie degli scrittori giungono al punto di compromettere seriamente il tecnicismo del linguaggio.
La costituzione proibisce l’uso (possessio) e la fabbricazione privata di indumenti di porpora; commina la pena della confisca e, in caso di recidiva, la sottoposizione alle sanzioni previste per il delitto di lesa maestà: ma le espressioni usate per esprimere questi concetti sono oltremodo ricercate e volute. Tuttavia, gli esempi come questo sono relativamente pochi: e quel po’ di retorica da cui sono soffusi soprattutto gli edicta raccolti nei nostri codici, non disturba in genere gran che.
Va piuttosto fatta un’osservazione generale, essenziale per la valutazione (dal punto di vista tecnico) della terminologia che compare nelle costituzioni imperiali, nonché nelle fonti da esse derivate.
Chi legge il Digesto, ha di fronte a sé (tranne per alcuni rari titoli) una trattazione di diritto privato. Così avviene per le istituzioni di Gaio e per gli altri testi della giurisprudenza classica, che siamo abituati a considerare come le fonti più autorevoli della terminologia tecnica ortodossa. Ma non va dimenticato che le costituzioni imperiali sono assai spesso di diritto pubblico, e trattano le branche più disparate di questo: penale, tributario, amministrativo in generale, ecclesiastico. Ora, si pensi al diverso senso che anche nel linguaggio dei nostri giorni assume il termine “possesso” se letto nella legge civile o penale (per la nozione di furto, ad esempio), o in una legge che disciplina l’imposizione tributaria. Queste differenze di significato, oggi, saltano assai meno all’occhio, perché siamo abituati a prendere visione di quelle leggi in momenti diversi, a vederle stampate perfino in volumi diversi: questa separazione materiale, che si riflette in una predisposizione mentale, non ci è quasi per nulla offerta dalle costituzioni degli imperatori romani, tutte raccolte nei codici, e separate solo nella meno immediata distinzione in titoli. Ma, ancor più, il romanista è solitamente aduso ad inquadrare tutto nelle prospettive del diritto privato, il che lo porta, talora, ad impiegare canoni di valutazione sostanzialmente aberranti.
Eleonora Cannatà
Buonasera a tutti!!!!
RispondiEliminaLeggendo il terzo capitolo del libro, ho notato che viene ripreso il tema della Gewere, l’istituto di origine germanica di cui avevamo già in parte discusso nel corso delle prime lezioni.
A questo proposito, usando come fonti il nostro libro di testo e un paragrafo di un libro trovato nella biblioteca della nostra facoltà, ho deciso di pubblicare un commento che in breve ci rinfreschi un po’ la memoria su questo istituto e sugli studi fatti a riguardo nel corso dei secoli. Il testo di cui ho fatto menzione è “Uso, tempo, possesso dei diritti” scritto dal nostro professore con i professori Mannino e Vecchi.
La Gewere è forse l’istituto che forse più rispecchia la caratteristica principale del diritto altomedievale e cioè quella di essere composto da più elementi fusi tra di loro: quello romano, quello canonico e quello germanico.
La Gewere ha da sempre attirato l’attenzione di tanti grandi studiosi del diritto in quanto è un istituto dal contenuto vago, mutevole, indefinito. Incarnava sia la proprietà che il possesso e poteva essere utilizzato per la difesa di qualsiasi situazione di fatto, di qualsiasi diritto: da quelli reali a quelli personali, quali l’assunzione di uffici pubblici o ecclesiastici. Nel corso del medioevo venne tradotto con il termine investitura e processualmente veniva molto più utilizzata rispetto alla possessio romana. La Gewere infatti, grazie alla sua duttilità e alla sua adattabilità a qualsiasi tipo di diritto, si adattava alle esigenze della pratica molto più che il diritto romano che esigeva rigidi requisiti normativi. Si fa l’esempio del trascorrere del tempo che per il diritto romano non bastava a far acquisire un diritto reale, mentre per quello germanico invece si; il trascorrere del tempo rappresentava quindi il titolo, l’investitura per il riconoscimento del diritto e era sufficiente per vincere la causa.
Sulla Gewere sono stati scritti importanti testi di autorevoli autori, basti ricordare Savigny e il Finzi. Un’opera molto importante è sicuramente quella di Wilhelm Albrecht scritta in piena epoca romantica dove imperversava la lotta tra romanisti e germanisti. Albrecht, in quanto germanista, studia soprattutto fonti germaniche che vanno da leggi, a atti della pratica notarile, alla giurisprudenza e ha lo scopo di dimostrare la germanicità dell’istituto, il suo essere espressione suprema del famoso Volksgeist.
Altra opera importante è quella di Andreas Heusler che utilizza fonti non solo germaniche, ma anche francesi, spagnole e italiane; tenendo conto del fatto che anche queste terre subirono la dominazione longobarda e franca e quindi ne furono influenzate anche sotto il profilo del diritto. Heusler sostiene che la Gewere continuò a essere utilizzata anche durante l’epoca dei glossatori anche se con un nome diverso. Nella diffusa contrapposizione tra possessio civilis caratterizzato dall’animus e possessio naturalis caratterizzato dalla materialità, egli rinviene l’eterna contrapposizione tra diritto romano e germanico. In realtà gli studiosi del XII e XIII secolo rinvenivano in questa contrapposizione il rapporto tra aequitas naturalis e ius civile. Inoltre la contrapposizione fra le due forme di possessio prima menzionate serviva semplicemente a creare un’interpretazione più ampia che andasse bene per più situazioni. Il diritto romano infatti era caratterizzato da forte rigidità e si cercava in tutti i modi di creare aperture in vista del mutare della società e delle sue esigenze sempre più crescenti di flessibilità. Le prime aperture in favore del riconoscimento di situazioni di fatto diverse dalla possessio si ebbero con il diritto canonico che diede per esempio rilevanza al semplice trascorrere del tempo per l’acquisizione di diritti incorporali.
Elena Lauretti
Buongiorno a tutti!!!!
RispondiEliminaLeggendo il terzo capitolo del libro, ho notato che viene ripreso il tema della Gewere, l’istituto di origine germanica di cui avevamo già in parte discusso nel corso delle prime lezioni.
A questo proposito, usando come fonti il nostro libro di testo e un paragrafo di un libro trovato nella biblioteca della nostra facoltà, ho deciso di pubblicare un commento che in breve ci rinfreschi un po’ la memoria su questo istituto e sugli studi fatti a riguardo nel corso dei secoli. Il testo di cui ho fatto menzione è “Uso, tempo, possesso dei diritti” scritto dal nostro professore con i professori Mannino e Vecchi.
La Gewere è forse l’istituto che forse più rispecchia la caratteristica principale del diritto altomedievale e cioè quella di essere composto da più elementi fusi tra di loro: quello romano, quello canonico e quello germanico.
La Gewere ha da sempre attirato l’attenzione di tanti grandi studiosi del diritto in quanto è un istituto dal contenuto vago, mutevole, indefinito. Incarnava sia la proprietà che il possesso e poteva essere utilizzato per la difesa di qualsiasi situazione di fatto, di qualsiasi diritto: da quelli reali a quelli personali, quali l’assunzione di uffici pubblici o ecclesiastici. Nel corso del medioevo venne tradotto con il termine investitura e processualmente veniva molto più utilizzata rispetto alla possessio romana. La Gewere infatti, grazie alla sua duttilità e alla sua adattabilità a qualsiasi tipo di diritto, si adattava alle esigenze della pratica molto più che il diritto romano che esigeva rigidi requisiti normativi. Si fa l’esempio del trascorrere del tempo che per il diritto romano non bastava a far acquisire un diritto reale, mentre per quello germanico invece si; il trascorrere del tempo rappresentava quindi il titolo, l’investitura per il riconoscimento del diritto e era sufficiente per vincere la causa.
Sulla Gewere sono stati scritti importanti testi di autorevoli autori, basti ricordare Savigny e il Finzi. Un’opera molto importante è sicuramente quella di Wilhelm Albrecht scritta in piena epoca romantica dove imperversava la lotta tra romanisti e germanisti. Albrecht, in quanto germanista, studia soprattutto fonti germaniche che vanno da leggi, a atti della pratica notarile, alla giurisprudenza e ha lo scopo di dimostrare la germanicità dell’istituto, il suo essere espressione suprema del famoso Volksgeist.
Altra opera importante è quella di Andreas Heusler che utilizza fonti non solo germaniche, ma anche francesi, spagnole e italiane; tenendo conto del fatto che anche queste terre subirono la dominazione longobarda e franca e quindi ne furono influenzate anche sotto il profilo del diritto. Heusler sostiene che la Gewere continuò a essere utilizzata anche durante l’epoca dei glossatori anche se con un nome diverso. Nella diffusa contrapposizione tra possessio civilis caratterizzato dall’animus e possessio naturalis caratterizzato dalla materialità, egli rinviene l’eterna contrapposizione tra diritto romano e germanico. In realtà gli studiosi del XII e XIII secolo rinvenivano in questa contrapposizione il rapporto tra aequitas naturalis e ius civile. Inoltre la contrapposizione fra le due forme di possessio prima menzionate serviva semplicemente a creare un’interpretazione più ampia che andasse bene per più situazioni. Il diritto romano infatti era caratterizzato da forte rigidità e si cercava in tutti i modi di creare aperture in vista del mutare della società e delle sue esigenze sempre più crescenti di flessibilità. Le prime aperture in favore del riconoscimento di situazioni di fatto diverse dalla possessio si ebbero con il diritto canonico che diede per esempio rilevanza al semplice trascorrere del tempo per l’acquisizione di diritti incorporali.
Elena Lauretti
Chiedo scusa a tutti ma non so perchè mi ha pubblicato due volte lo stesso commento!!!
RispondiEliminaElena Lauretti
DE CUPIS/ DI PASQUALE Salve! Noi abbiamo deciso di approfondire il discorso sull’istituto della gewere, sulla sua natura, facendo anche un raffronto con la figura giuridica romana della possessio. La relazione del soggetto con la cosa, la situazione di fatto elevata a titolo, necessaria al fine di proteggere l’esercizio da parta del soggetto con esclusione di altri, o al fine di ristabilire la relazione violata portano a considerare l’istituto dell’investimentum o gewere. È questa una figura giuridica tra le più indefinite e controverse per i significati che il termine assume nelle fonti legislative e documentali e per le diverse interpretazioni offerte dalla dottrina storico-giuridica. D’altra parte è un termine che viene usato fin dalla metà del secolo VII, comprendeva indifferentemente i concetti di proprietà, possesso e usufrutto. La figura è stata considerata da alcuni storici come il corrispondente nel diritto barbarico della possessio romana, comprendente addirittura il possesso degli iura. Esso si sostanziava in un rapporto materiale ed esteriore tra il soggetto e la cosa ed indicava la volontà, riconosciuta e tutelata dalla legge, di tenere la cosa in proprio potere. Il rapporto materiale era esteriormente identico, sia che la cosa fosse in proprietà, sia che fosse in possesso.
RispondiEliminaIl concetto fondamentale è quello di tutela e di difesa della cosa e dello specifico rapporto con essa . Per G. Diurni non corrisponde alla possesso romana e ne ricomprende i concetti del diritto romano di proprietà, possesso, mera detenzione venendo così a costituire una categoria generale ed unica. La corrispondenza tra possesso e gewere è sostenuta invece dal Besta, secondo il quale da un approfondito studio sulla gewere apparirebbero in modo evidente i punti di contatto con il possesso romano per il fatto che anche nel diritto romano il possesso può prescindere dall’ animus domini. Questa tesi è seguita anche dal Ravioli il quale afferma :”Gewere è il possesso che come tale è giuridicamente riconosciuto senza alcun riguardo alla qualità del possesso cosicché nel diritto germanico si ha possesso giuridico tanto nel caso che questo possesso sia giusto quanto ingiusto, di buona o di mala fede”. Nella concezione delle gewere è evidente la preoccupazione degli interpreti di trovare un valido istituto sostitutivo della proprietà, sconosciuta al mondo barbarico. La più probabile spiegazione della mancanza del concetto di proprietà nella civiltà giuridica dei germanici è data dal fatto che le popolazioni erano seminomadi per cui non occupavano stabilmente il territorio. La dottrina ha voluto a tutti i costi ricercare nella gewere gli elementi che la differenziano o congiungono alla proprietà e alla possessio ed ha enfatizzato possibili punti di contatto tra queste figure lasciando in ombra gli aspetti essenziali della gewere. Sono stati così introdotti nel mondo germanico figure o elementi giuridici che non aveva mai conosciuto. Si è considerato pertanto la gewere quale possesso di una cosa su cui il soggetto assume di avere la proprietà. CONTINUA..
(VEDI SOPRA)
RispondiEliminaLe figure considerate mostrano in modo evidente la loro diversa natura soprattutto per ciò che riguarda la tutela. Mentre la possessio riceve una tutela particolare ed efficace attraverso il procedimento interdittale, non può dirsi altrettanto per la gewere, che sottostà alle regole apprestate per qualsiasi situazione giuridica. Queste regole costituiscono il processo ordalico; l'ordalia ( dal germanico antico ordal, che significa "giudizio di Dio") è un'antica pratica giuridica, secondo la quale l'innocenza o la colpevolezza dell'accusato venivano determinate sottoponendolo ad una prova dolorosa o a un duello. La determinazione dell'innocenza derivava dal completamento della prova senza subire danni (o dalla rapida guarigione delle lesioni riportate) oppure dalla vittoria nel duello. Nel processo ordalico chi aveva la gewere poteva risolvere in modo positivo la lite con il semplice giuramento nel caso in cui l’attore non deduceva una prova concreta in suo favore e contraria al godimento della cosa da parte del convenuto. Il che significa che anche l’investito dovere fornire la prova del titolo che l’abilita a tenere la cosa, mentre nel diritto romano si presuppone l’esistenza di un rapporto legittimo dell’esercente con la cosa. Si assiste ad una tutela di tipo negativo, in cui non si stabilisce il diritto né si accerta alcunché attraverso un processo di cognizione, ma si parte da una situazione di fatto il cui fruitore a determinate condizioni ha possibilità di paralizzare la rivendica altrui. La mancata reazione però per un anno ed un giorno dallo spoglio subito e conosciuto fa acquistare la gewere al nuovo fruitore della cosa. Pertanto la tutela della gewere non può essere avvicinata a quella possessoria romana, essa è più semplicemente la tutela del potere di fatto, derivante sia per l’altrui tolleranza o inerzia nella difesa del proprio potere di fatto sia per il suo trasferimento mediante la formale vestitura da parte del precedente fruitore, che assurge a titolo di appartenenza, a gewere appunto.
EMILIA DE CUPIS
CLAUDIA DI PASQUALE
Fonti:
G.Diurni, “Le situazioni possessorie nel Medioevo”, Giuffrè editore, Milano 1988.
Nella lettura del paragrafo sul possesso nei processi romani del XII secolo, ho trovato di nuovo il riferimento all’utraque lex e ho pensato di fare un piccolo approfondimento in tema, prendendo spunto da Cortese, “Il diritto nella storia medievale”, Roma, 1995.
RispondiEliminaE’ la diffusa religiosità a conservare saldo l’ancoraggio del diritto a tradizioni antiche, alla visione ecclesiale del mondo, al dualismo gelasiano di temporale e spirituale distinti eppur uniti: diritto civile e diritto canonico continuano in effetti nell’XI secolo a rimanere le due facce inscindibili del fenomeno giuridico.
Il Calasso fu molto colpito dai documenti della regione di Gaeta di poco posteriori al Mille, segnalati dal suo maestro Brandileone, in cui donazioni e testamenti invocano reiteratamente l’auctoritas ecclesiastica insieme con la lex romana. E’ un’invocazione generica che nessuna citazione di norme viene a precisare: e probabilmente i notai non ne avevano in mente alcuna. Sapevano solo che nella sostanza gli atti che redigevano erano e dovevano essere conformi a quanto prescrivevano la volontà di Dio e la legge terrena, sicchè chiamarle entrambe in causa serviva a tranquillizzare le coscienze. L’uso di una tale formula non è un fato occasionale e circoscritto al territorio di Gaeta. Il Vismara ha segnalato ch’essa circolava in Provenza in anni anteriori, e anzi ha rilevato (in territori a regime diverso e in età ancora più antica, sin dai primi anni del X secolo) l’uso dei lombardi di dichiararsi proprietari “et canonico ordine et legibus”.
Il rito notarile esigeva dunque che ogni negozio o atto andasse misurato non a un solo ma a due ordinamenti, regolatore l’uno della vita materiale e l’altro di quella dello spirito, destinati ad agire insieme e insieme a garantire la legittimità dei comportamenti umani. Non si creda a un mero capriccio legalitario di notai: era un dato generale della coscienza dei tempi. Nell’aprile del 1047 a Rimini, per esempio, Enrico II in persona intervenne a dirimere un dubbio che aveva fatto discutere i giuristi: si trattava d’interpretare filologicamente niente meno che una costituzione del Codice giustinianeo. Enrico la adeguò ai principi canonici, ma avvertì che ciò facendo aveva seguito il volere anche di Giustiniano, che assegna infatti ai canoni dei santi padri la medesima efficacia delle leggi. [Si veda il provvedimento di Enrico II in MGH, Const, I, 96 s, nr. 50. Il quesito era se la costituzione di C. 1.3.25.1 esimesse dal iusiurandum calumniae – il giuramento che si doveva prestare agli inizi dei processi per attestare l’inesistenza dell’intento di nuocere – tutti gli ecclesiastici o soltanto quelli di Costantinopoli. A porre il problema era l’erroneo inserimento in C.1.3.23 dell’ Inscriptio di C.1.3.20. (errore peraltro presente nel Codice epitomato di Pistoia del X secolo e quindi presumibilmente abbastanza diffuso nei manoscritti). Enrico dispone che gli ecclesiastici siano tutti e sempre esentati dal giuramento in conformità con quanto vuole il diritto canonico; la norma sarà introdotta nel Capitulare italicum e quindi sia nel Liber Papiensis, sia nella Lombarda.] (Ciò è stato anche trattato precedentemente a lezione).
Giustificazione teorica, quest’ultima, tolta dall’ Epitome Iuliani e ineccepibile: a fornirla all’imperatore era stata ovviamente la sua cancelleria, che una volta di più si rivela ai nostri occhi abile manipolatrice di una precoce cultura romanistica. Una cancelleria chiaramente in mano di ecclesiastici che rispecchiavano il pensiero della Chiesa: proprio l’argomento che i canoni siano dotati della medesima efficacia delle leggi romane, e possano quindi derogarvi, verrà ereditato da taluni correnti scientifiche e scolastiche del secolo seguente ( un altro filo della continuità tra preirnerio e postirnerio! ) , correnti tutte legate all’insegnamento canonistico e alla prassi (si pensi al Libro di Tubinga e alla cosiddetta Summa Vindocinensis).
...Continua...
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RispondiEliminaUn altro dato da segnalare nella costituzione di Enrico II è che il diritto canonico vi è senz’altro chiamato lex divina. L’identificazione, per la verità, era caratteristica piuttosto del linguaggio corrente della Chiesa e continuerà ad esserlo in futuro, sebbene il passar del tempo e lo sviluppo del diritto canonico la destinino a diventare mistificante: essa aveva senza dubbio il vantaggio di rafforzare il potere vincolante dei canoni esibendoli come norme derivate direttamente dalla volontà di Dio. Ma quanto si deve soprattutto sottolineare, per concludere, e che la singolare costituzione enriciana di Rimini designa i due ordinamenti ecclesiastico e laico con l’espressione utraque lex: ch’è espressione in cui si coglie bene il vincolo concettuale stabilito per ridurre il dualismo normativo a unità.
Nell’ultimo quarto del secolo, quando la lotta tra Chiesa e Impero divampa più forte, l’aspirazione alla sintesi dei due ordini canonico e civile non si attenua affatto. Né dalla parte di Gregorio VII né da quella di Enrico IV si coglie alcuna tentazione di separare i sistemi giuridici: sarebbe un segno di “laicismo” incompatibile con la religiosità viva che anima, oltre che i gregoriani, anche gli scismatici. Anzi, è proprio la Defensio Heinrici IV regis, l’opera che meglio manifesta le concezioni politico – giuridiche dei seguaci dell’Impero, a innalzare la bandiera dell’utraque lex: giunge a darne una descrizione teorica che conserva tutto il sapore e il fascino delle creazioni intellettuali dell’alto Medioevo, pur mostrandosi consapevole dei nuovi valori culturali: “dacchè il Creatore, tra le sue creature, ha particolarmente caro l’uomo, gli ha dato due leggi, l’una per il tramite degli apostoli ha indirizzata agli ecclesiastici, l’altra per mezzo di imperatori e re ha data ai laici. Ma la divina bontà ha voluto che l’una e l’altra – utraque lex – profittasse sia al clero, sia al popolo, di modo che nessuno e in nessun negozio osasse violarle: lo stesso legislatore umano lo attesta nel Codice quando dichiara che chiunque offenda la santità della legge divina cade nel sacrilegio”.
E così, nel tardo XI secolo, la ricomparsa dei testi originali di Giustiniano nella prassi notarile e forense nonché nelle cancellerie s’inquadra in cornici tutte medievali, in visioni in cui Cristo e Giustiniano si tengono per mano e si scambiano regole e principi.
...Continua...
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RispondiEliminaAll’inizio la cosa porterà a confusioni e occasionalmente anche rozzezze sorprendenti: v’è per esempio il primo maestro di diritto romano, il Pepo, il quale interverrà intorno al 1080 a un placito di Enrico IV in Lombardia, pretenderà di non far applicare le vigenti norme longobardo – franche a un caso di omicidio e mescolerà Bibbia, Isidoro di Siviglia e Istituzioni giustinianee per trarne un pastrocchio normativo da lasciar perplessi. (Il caso, infatti, era quello dell’omicida di un servo, che i giudici del regno Italico intendevano correttamente condannare a una mulcta pecuniaria, ossia alla normale compositio. Ma si alzò Pepo con foga a richiedere la pena di morte in applicazione di una norma di diritto naturale da lui inventata: chiunque avesse strappato un uomo dal consorzio umano “naturale” meritava di esserne eliminato a sua volta – egli affermò, presumibilmente pensando alla biblica legge del taglione – e nulla importava che l’ucciso fosse un servo, perché la servitù non cancellava la “naturale” condizione umana.
Ma a chiarire per sempre le cose e a togliere la maschera altomediale a Giustiniano provvederà la grande scienza che fiorirà esuberante dal XII secolo: esigendo anzitutto un approccio filologico al testo, e pretendendo la sua interpretazione letterale, essa consentirà al diritto romano, ancor prima di venir usato, di essere minuziosamente e correttamente compreso.
Questa scienza, responsabile di un deciso salto di qualità culturale, si formerà nelle scuole; dalle scuole, col tempo, instaurerà un proficuo dialogo con la prassi giuridica, con l’alta amministrazione, con la politica e con tutti i rami del sapere. Sicchè non è esagerato dire che la nascita della scienza accademica segna l’apertura di una nuova era nella storia del diritto.
Eleonora Cannatà
Emilia De Cupis
RispondiEliminaClaudia Di Pasquale
Andando avanti con la lettura del terzo capitolo abbiamo voluto approfondire l’editto di Grimoaldo.
Una maggiore attenzione da parte dell’ordinamento alto medievale verso le situazioni di carattere possessorio si verifica con i sovrani successivi a Rotari. L’editto di Grimoaldo riguarda il caso di chi abbia posseduto “casas, familias vel terres” per più di trent’anni. Il possessore può difendersi con il semplice giuramento senza giungere al duello. La lite si definisce attraverso il procedimento ordalico, il quale termina con un sentenza di prova, costituita dal giuramento del possessore-convenuto. Il possesso, rapporto effettivo con la cosa, diventa l’oggetto centrale della tutela; e il giuramento si sostanzia nella difesa del possesso dalle contestazioni. L’innovazione riguarda quindi l’esclusione del duello; vi è infine un riferimento essenziale ad un possesso pubblico e indisturbato.
E’ dunque la notorietà della relazione che il soggetto ha instaurato con la cosa che lo pone in condizioni di difenderlo. Il che poi è alla base e forma la sostanza del rapporto di gewere. La legislazione di Grimoaldo persegue infatti non tanto la finalità di costituire a favore di un soggetto un diritto sulla cosa ma piuttosto quella di difendere una situazione di fatto. Elemento determinate è quello temporale; il tempo trascorso fa venir meno la possibilità di ripristinare una situazione violata; in quanto la negligenza nella difese dei proprio interessi e la tolleranza o l’acquiescenza verso situazione contrarie al proprio diritto sono valutate negativamente dalla società barbarica e così sanzionate con la perdita definitiva della cosa . L’ azione di rivendica, anche se, si basa su di un documento scritto e il soggetto rivendicante non abbia mai posseduto, si deve applicare la legge di Grimoaldo; egli potrà servirsi del documento solamente se il possesso è di durata inferiore ai trent’anni. In conclusione le caratteristiche del tempo e della notorietà, accompagnate all’inazione dell’altra parte, rendono così possibile al soggetto detenente la difesa della situazione possessoria.
RispondiEliminaFonti:
G.Diurni, “Le situazioni possessorie nel Medioevo”, Giuffrè editore, Milano 1988.
Emilia De Cupis
Claudia Di Pasquale
Il POSSESSO NEL DIRITTO COMUNE
RispondiEliminadi Rosa Pastena
Leggendo il terzo capitolo del libro mi sono soffermata sulla definizione di possesso.
Dal testo ORDO IURIS.Storia e forme dell'esperienza giuridica (giuffè editore 2003) ho tratto il saggio di Volante, su "La definizione del possesso nel diritto comune".
Ecco una sintesi di quanto rilevato dal Volante.
a potenza normativa del fatto è un momento fondante nel diritto medievale, la concezione attuale è invece quella della norma giuridica come prodotto della volontà del soggetto, non come il risultato della forza propria dei fatti.
Nell'esperienza medievale i fenomeni materiali si trasformano immediatamente in effettività giuridica senza nessun elemento volitivo dei soggetti. Questa prospettiva non cambia neanche con l'avvento del diritto frutto dell'interpretatio dei testi antichi, ma si cerca di ingabbiarla nelle architetture offerte dal Corpus giustineaneo.
Nel medioevo la normatività immediata del fatto deve incontrarsi con la rappresentazione attraverso enunciati la cui formulazione risponde a precise regole scientifiche. Il terreno migliore per mostrare i caratteri di quest'equilibrio è l'istituto del possesso.
Già dall'analisi di una delle prime opere giuridiche del medioevo la Summa Trecensis si scorgono i problemi definitori che la nozione di possesso - mutuata dal Digesto - pone agli interpreti. E' subito evidente la difficoltà che gli stessi glossatori individuavano nel limitare la descrizione del possesso a una dimensione solo fattuale.
Non si può descrivere il possesso solo con riferimento alla sua dimensione materiale, enumerando i comportamenti che il soggetto intrattiene con riferimento al bene: ogni fatto della vicenda possessoria è permeato di fatto e diritto.
Per la summa Trecensis esiste un unica nozione di possesso che dà luogo a due accezioni distinte:
possessio naturalis non solo l'analisi dei momenti fattuali ma questi inevitabilmente prevalgono rispetto il momento della qualificazione giuridica. La materialità della relazione tra soggetto e cosa è in grado di indicare immediatamente la sostanza della relazione giuridica che giustifica l'apprensione del bene
interpretatio iuris si riferisce all'apprensione della cosa: il possesso si caratterizza per la relazione giuridica che lega il soggetto al bene. E' lo ius ad individuare il fatto e non il contrario.
Due concezioni opposte della relazione tra diritto e fatto, ma non inconciliabili. Possono infatti integrare due diverse tipologie di ipotesi.
Per la prima, rileva giuridicamente il profilo materiale della relazione tra soggetto e cosa. Su questo carattere si individua la possessio naturalis che caratterizza fattispecie tra loro molto diverse. Alcune comportano l'immediata acquisizione della proprietà sul bene (es: Occupazione) altre individuano l'atteggiamento di mera detenzione del conduttore nei confronti dell'oggetto del contratto. In entrambe i casi si instaura una relazione con la cosa basata sul fatto, sorretta da una civilis causa: l'animus possidendi, che permette al fatto di essere considerato come possesso. Il possesso in questo caso si acquista in virtù di un atto di materiale apprensione, da cui può derivare una causa civilis, una relazione giuridica che viene tutelata attraverso la salvaguardia del momento fattuale.
Altra ipotesi è quella individuata nei casi in cui il momento fattuale deriva da una fattispecie precedente instaurata: la civilis possessio infatti produce i medesimi effetti della naturalis, ma consegue a vicende costruite in modo opposto per cui il momento reale deriva dal precedente instaurarsi di una relazione giuridica fra due soggetti che legittima. (continua...)
(...continua -Rosa Pastena-)Piacentino ha rilevato che il possesso in senso proprio è solo quello che si istaura attraverso un atto di materiale apprensione , una condotta tale da creare una relazione tra l'uomo e la cosa. Attraverso una fictio si individua il possesso in capo a chi in realtà non possiede, con un'operazone che va contro la natura delle cose. Tale possesso artificiale produce una conseguenza (prevista dalla legge): l'usucapione. Ipotesi del tutto estranea al concetto di possesso basato sull'immediatezza dei fatti, che porterebbe ad ammettere che il rapporto diretto, naturale con la cosa costituisce sempre un titolo sufficiente per l'usucapione. Si dovrebbe cioè ammettere che un colono possa, esercitando il suo godimento del bene farlo proprio. Una tale conclusione è impensabile per il giurista medievale: il colono può essere possessore naturaliter della cosa, il che impedisce l'usucapione. Solo il possesso civile (la situazione qualificata dal diritto) può condurre il titolare ad appropriarsi di quest'ultimo.
RispondiEliminaQualunque tipologia di possesso si realizza nel momento in cui all'atto di materiale apprensione si unisce l'animus. Al variare delle modalità di perfezionamento della fattispecie non corrispondono diversi modelli di possesso ma solo diverse qualità dello stesso istituto. La possessio può essere vista come l'epifenomeno di svariate situazioni giuridiche.
Esiste un solo possesso: chi posiede solo civiliter non ha con l'oggetto un rapporto diverso e più qualificato rispetto a chi possiede anche natulariter. Queste sono 2 specie di possesso che possono istaurarsi perfettamente conducendo pertanto all'usucapione del bene e in modo imperfetto tale da non poter condure all'acquisizione del dominio.
Si possiede civiliter quando si è in una situazione giuridcia col bene ma manca l'elemento dell'appresione materiale. Si possiede civiliter et naturaliter quando alla relazione derivante da un titolo di legittimazione di unisce un profilo fattuale. Il possesso naturaliter non può configurarsi. Chi si disinteressa di un proprio bene è comunque possessore civiliter e naturaliter : è impossibile fondare il possesso solo sulla base fattuale. Se così fosse chi cessa la relazione fattuale col bene ne perde immediatamente il possesso.
L'analisi di Piacentino mostra la difficoltà a razionalizzare la defnizione di possesso. La sua rilevanza deve essere recuperata su un profilo che trascenda la realtà del fenomeno di apprensione materiale. E qui risiede la difficoltà per l'interprete di isolare l'elemento giuridico.
E' interessante notare che Piacentino non offre una propria definizione di possesso scissa dall'immagine dell'occupazione fisica del bene (tipica della tradizione romanistica). Si limita a costruirci accanto un concetto parallelo di possesso civile.
La prima definizione autonoma di Possesso è quella di Giovanni Bassiano: “ definire autem potest sic, secundum Ioannis, possessio est ius quoddam rem detinendi sibi”.
Cerca di identificare il minimo comune denominatore delle due ipotesi di possesso.
Da questo muove i propri passi l'allievo Azone. Egli ritiene che il possesso è definibile non come uno stato di fatto ma come uno ius, il diritto di tenere con sè la cosa. Non guarda alle modalità di costituzione del possesso ma all'effetto. Guarda al risultato della situazione possessoria non la sua dinamica.
Questa scelta di Azone però non individua una soluzione unitaria tra possessio naturalis e possessio civilis. Lo ius rem sibi detinendi può costituirsi o attraverso l'istaurarsi di una relazione materiale con una cosa, e darà luogo al possesso naturale, o mediante il solo animus possidendi integrando il possesso civile , come accade in quelle situazioni in cui il soggetto interrompe il rapporto col bene mantenendone il possesso.
Il tentativo di superare la definizione romana di possesso non riesce a restituire un concetto unitario di possesso. (...continua)
(...continua - Rosa Pastena)Azone cerca la definizione di possesso individuando tre elementi fondamentali:
RispondiElimina1.La materialità delle cose. Il possesso può avere ad oggetto solo cose corporali.
2.La necessaria presenza sia dell'apprensione materiale che dell'animus possidendi. Il possesso non può realizarsi solo nel suo aspetto di relazione concreta tra soggetto e cosa: occorre un atteggiamento particolare nel possessore che possa qualificare la sua condotta materiale. Il possesso naturale è tale per il gesto di acquisizione che deve essere costituito sia dal fenomeno materiale quanto dall'atteggiamento spirituale. Questo stesso possesso si definisce altresì civile in virtu della sua altra e ineliminabile caratteristica: l'adprobatio operata dallo ius. Non ci sono due ipotesi diverse di possesso, ma una sola che si distingue in 2 profili. Il riconoscimnto da parte dello ius civile non è un elemento che si aggiunge ad una fattispecie che sarebbe altrimenti incompleta, ma è con le categorie della natura e dello ius che si isolano due prospettive diverse della stessa realtà: da un lato la relazione tra soggetto e cosa viene tutelata per lo stesso fatto di esistere nella sua materialità di fernomeno; dall'altro la situazione di vantaggio del possessore produce effetti perchè il diritto la salvaguarda al di là della persistenza di una relazione materialmente apprezzabie, per come è nel caso del possesso ritenuto solo animo.
3.L'adminiculum iuris. Il possesso è sempre frutto di un atto materiale unito ad un momento di legittimazione da parte del diritto, ma questi due elementi possono combinarsi in modo diverso nelle singole fattispecie concrete. In alcuni casi prevale lo ius rispetto al factum come nel caso del possesso del padrone sui beni facenti parte del peculio del servo. La legittimazione operata dal diritto è indispensabile per ogni tipologia di possesso.
L'adminiculum iuris è l'elemento necessario per valutare la salvaguardia della situazione di fatto, assolve il compito di tutelarla in quanto necessaria e prodromica alla proprietà stessa.
Nella concezione di Azone esiste una sola relazione di fatto effettivamente possessoria, se è possibile che un numero indefinito di rapporti fattuali esistano tra più soggetti , solo uno è da riservarsi il titolo di possesso naturale. Uno solo è il posseso civile poichè se esso appartiene ad un soggetto non può appertenere ad altri.
Non può esistere una proprietà per due soggetti sulla totalità di uno stesso bene, quindi non può configuararsi neanche la titolarità per due persone della civilis possessio.
Per Azone il possesso naturale si costituisce anche senza un comportamento materialmente apprezzabile, al pari di quello civile: la differenza risiede non in una diversa struttura della fattispecie ma nel titolo, nella diversa causa che determina lo ius a prestare tutela alla situazione di fatto.
Bartolo di Sassoferrato critica le analisi effettuate dai glossatori, perchè condotta mescolando due problemi che debbono essere affrontati indipendentemente, come la definizione della nozione di possesso e la distinzione delle diverse fattispecie da cui il possesso può trarre origine.Se ci si chiede cosa sia il possesso, la risposta consiste nella definizione del possesso in generale. In questo senso il possesso è il diritto di tenere o occupare la cosa il cui possesso non sia altrimenti vietato.
Possesso come diritto, non si confonde con la semplice detenzione, che è un comportamento di mero fatto. Il suo contenuto riguarda solo la relazione materiale che il titolare può avere con la cosa, non nella facoltà di disporre del bene o di rivendicarlo da terzi (prerogative tipiche del diritto di proprietà). (...continua...)
(...continua - Rosa Pastena)
RispondiEliminaBartolo non ha l'intento di individuare una nozione definitiva di posseso ma solo quella che possa costituire un archetipo comune a tutte le diverse ipotesi di possesso. Egli individua tre distinte specie di possesso:
1.Possessio civilis <>. E' la situazione idonea a far conseguire al titolare la proprietà della cosa attraverso l'usucapione e la prescrizione.Non c'è possidere animo et corpore.
2.La seconda possessio individua la posizione di ogni possibile dominus utilis, la relazione di rapporto immediato con la cosa che se non può condurre a elidere la proprietà del concedente, attribuisce al concessionario il diritto di usare della cosa e trarne i frutti.
3.La terza individua la relazione di fatto con la cosa che produce come unico effettto quello di poter ritenere o recuperare la cosa dinanzi ai tentativi di appropriazione da parte dei terzi.
Uguccio da Pisa, autore della preziosissima Summa Decretorum, analizzata nella scorsa lezione, è un personaggio che ha attirato la mia attenzione e, vista la sua straordinaria importanza, ho ritenuto giusto approfondire la sua figura. Gabriel Le Bras nel suo libro “La Chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche.” ha riconosciuto in Uguccio “le qualità di un maestro di prodigiosa scienza e di originalità singolare”. Infatti il grande decretista pisano (attributo forse riduttivo considerando l’eclettismo che caratterizza la sua complessa figura di politico, letterato, grammatico, diplomatico, amministratore e vescovo) ha offerto un notevole apporto alla comprensione del Decretum Grazianeo. Si può notare che Uguccio da Pisa, pur appartenendo per ragioni storico-anagrafiche alla generazione dei primi decretisti, si collega, o meglio anticipa, l’attività dei commentatori operanti verso la fine del XIII secolo e nei periodi successivi. Fabio Vecchi in “Fortuna e modernità del metodo lessicografico di Uguccione da Pisa decretista” intende riproporre la figura del vescovo ferrarese nei termini di una modernità complessiva della sua azione e del suo pensiero. A tal proposito il Vecchi insiste sull’idea innovativa dell’interpretatio, intesa da Uguccione come svolgimento logico e critico del dato normativo. In ciò è dato rilevare la scelta coraggiosa di reazione alla sudditanza reverenziale che il giurista medievale nutriva nei confronti delle antiche norme scritte quasi promanassero da un testo sacro. Si tratta, per Fabio Vecchi, del limite psicologico di tutti i pensatori del Medioevo, in qualche modo soggetti al fascino dell’autorità e del significato metagiuridico evocato dal diritto romano. Uguccio invece si pone criticamente nei confronti del testo e raffina le sue ricerche, scrive il Vecchi, “con un enciclopedismo integrato dall’inserimento della grammatica e della dialettica e con l’intento di una trattazione indipendente dalle fonti, razionalizzata dal desiderio di conoscere le origini della parola in modo da garantirne la correttezza per un uso futuro da cui trarrà beneficio anche Dante nel Convivio”. C’è anche da dire che poi la ricerca su nuove metodologie di studio si confonde nella sensibilità del vescovo con la sensibilità del politico. Per comprendere bene la posizione politica del nostro decretista è necessario ricordare il suo atteggiamento sulla Donazione di Costantino, che consiste nel rifiuto di ogni uso politico della questione, per affermare , almeno in materia spirituale, la subiectio dell’Impero alla Chiesa e sostenere, sulla base testuale del Decretum Gratiani, il principio espresso nella nota Epistola Gelasiana ad Imperatorem Anastasium, circa la iurisdictio divisa. Uguccione si sa che è uomo pienamente votato alla causa ecclesiastica, ma la difesa del sacerdotium viene sottilmente organizzata e condotta attraverso il diritto romano riconosciuto. In questo modo, Uguccio ci appare un uomo libero dai condizionamenti culturali del suo tempo, tanto nell’atteggiamento politico quanto nell’approccio teoretico ed esegetico. A meglio illuminare la qualità e la fama del personaggio basti ricordare le delicate incombenze delle quali fu incaricato sia nella veste istituzionale di vescovo nella normale composizione delle liti civili intervenute tra i burgenses o nel dirimere le controversie tra vescovi circonvicini e i canonici loro subordinati (circostanza questa più delicata che presupponeva l’incarico pontificio), sia nel vestire i panni di bonum vir (quando il papa Innocenzo III nel 1206 lo incaricava di riportare clero e popolo di Trecenta all’ubbidenza del loro vescovo, il Patriarca di Aquileia), sia nella circostanza che vede Uguccione prendere l’iniziativa di sostituirsi al pontefice nelle competenze pattizie per la conclusione di una concordia con i consoli del comune di Bergantino, e sia nella delicatissima missione che lo vede amministratore generale per metter freno alla gestione patrimoniale del corrotto abate Bonifacio di Nonantola.
RispondiElimina(...continua...)
Per riassumere dunque l’atteggiamento del decretista verso i problemi del diritto pubblico medievale è opportuno ricordare Gaetano Catalano che nel suo “Impero, regni e sacerdozio nel pensiero di Uguccio da Pisa” ci dice che il dogma imperiale sostenuto da Uguccio è funzionale, nella stessa identica misura nella quale lo è il diritto romano sussunto nel canonico, alla defensio Ecclesiae. Sul versante del metodo, è invece neccessario osservare la felice osservazione di Cortese in “Le grandi linee della storia giuridica medievale” secondo il quale, il vescovo ferrarese “teneva a distinguere la glossa dal commento”. Uguccione infatti precisa che la glossa, anche quando serve ad indagare il senso di una frase della legge, deve sempre partire dall’esposizione della lettera, mentre il commento tende solo al senso. Nella sua Summa Decretorum è dunque possibile ravvisare i segni della nuova idea del metodo uguccioniano. Qui il vescovo è sia organizzatore sia interprete in senso “moderno”: egli scompone i vecchi schemi e traccia le regole del procedimento da seguire. Da un lato riorganizza il Decretum rispettando le materie, ma in modo che le trattazioni seguano un ordine logico che difetta nei predecessori; in secondo luogo, l’analisi del testo è compiuta con un procedimento scrupoloso di sezionamento di ciascuna parola con l’elemento nuovo della critica. Come ben si evince siamo di fronte al crollo dell’auctoritas del testo, alla sua desacralizzazione. La Summa, redatta a Bologna tra il 1188 e il 1190, è un’opera importante anche per l’apporto di Uguccio, come abbiamo visto a lezione e come ci dice il nostro Professor Conte in “Servi medievali. Dinamiche del diritto comune”, alla dottrina dell’errore sulla condizione personale del coniuge. L’esposizione di questa delicata materia è in Uguccio piana ed esauriente: in un primo momento Uguccio limita la rilevanza dell’errore al caso in cui la condizione del coniuge risulti inferiore a ciò che si credeva (errore sulla qualità), poi, considerando l’error condicionis, analizza il problema della valutazione delle condizioni intermedie (liberti, ascritizzi, manenti, originarii) le quali, per Uguccio, dovevano essere ricomprese nel genus dei liberi. Infatti queste condizioni non potevano esser confuse con quella servile perché non esprimono altro che l’obbligo, per chi vi è sottoposto, di prestare opere e servizi, senza però cancellare lo stato di libertà. La conferma dunque della fortuna di Uguccio, sta dunque anche nel fatto, come ci fa notare il nostro Professore, che i grandi apparati che si formarono sul Decreto vent’anni dopo il 1190 riprendono la teoria di Uguccio sull’error conditionis che teneva ben conto della differenza tra servi e queste categorie intermedie. C’è però da dire che la rinomanza del grande canonista pisano, avra`, una lunga battuta di arresto dopo che il Gutemberg ebbe inventato i torchi per la stampa. Uguccio verrà sospettato di simpatie per la “pars gebellina”; sarà giudicato per alcune sue opinioni poco “scrupolosus” in senso ortodosso; il suo dizionario etimologico
RispondiEliminao “Liber derivationum” verrà soppiantato dal “Catholicon”
di Giovanni Balbi. Ma nonostante queste ombre del passato, oggi lo studio del pensiero di Uguccio costituisce una condizione primaria ed indispensabile per accedere alla fortezza del “jus canonico” medievale.
Laura Infante
Buongiorno a tutti!
RispondiEliminaScorrendo i vari commenti del blog, anche i più recenti, ho notato che spesso si è parlato o accennato a un importantissimo giurista medievale, Bartolo da Sassoferrato.
Navigando in internet ho trovato un articolo che parla di lui, delle sue opere principali e dell’importanza che ha rivestito nella sua epoca e che tutt’oggi riveste per gli studiosi del diritto.
Eccone il testo, da me in parte rielaborato e riassunto.
Bartolo da Sassoferrato fu uno dei giuristi più insigni del medioevo, nato vicina ad Ancona e vissuto nel XIV secolo, professore all’Università di Pisa ed in Polonia e apprezzato enormemente in tutta l’Europa.
Egli fu il primo a concepire l’idea che il diritto doveva unirsi con la vita di tutti i giorni e con i suoi bisogni concreti, quindi lo studio ed il commento del Corpus Iuris Civilis fu improntato per adattare il diritto romano a questi bisogni.
La sua elaborazione dei principi che determinavano i rapporti tra diritto romano e diritto canonico contribuirono in maniera decisiva a sviluppare nuove leggi, e furono la base per lo studio e l’affermazione di quello che oggi chiamiamo diritto internazionale pubblico e privato.
Egli nel trattare la materia faceva attenzione a evidenziare lo spirito di una legge piuttosto che la formula, usando l’analogia ed il principio di aequitatis iuris (o giustezza della legge) per poi commentare o postillare ed aveva seguaci in tutta l’Europa chiamati bartolisti, dialettici o commentatori.
Egli, soprattutto nel suo caposaldo giuridico, il "De Tyranno", mise l'evidenza sui ruoli legalitari che si stavano costituendo nel medioevo e che introducevano la modernità nelle istituzioni (Imperatore, Comuni e Signorie); fece insomma, nell'ambito giuridico la prima seria riflessione su quella che fu definita "reazione legalitaria" ad un esercizio arbitrario del potere costituito prendendo spunto da tutto ciò che il Diritto Romano, anche riveduto nei secoli, poteva portare in dote.
Per questo egli parlava apertamente tanto di legittimità del potere quanto del suo esercizio, tema che da quel momento diventò l'asse portante di tutta la giurisprudenza europea moderna.
Proprio di questo periodo fu il passaggio, soprattutto nella nostra penisola, da un potere tutto sommato "legittimo e scevro da assolutismo" (il Comune) ad un potere decisamente più arbitrario e spesso nemmeno legittimato se non dalla forza delle armi (la Signoria), per questo l'opera di Bartolo apparve in tutta la sua grandezza. Il suo esercizio fu portato non a capovolgere il sistema vigente, impresa francamente impossibile visto l'orientamento socio-politico che si profilava, ma a canalizzarlo all'interno di aspetti giuridici certi ed accettabili istituzionalmente.
Bartolo, di cui possiamo vederne l'opera globale nei Commentari al Corpus Iuris arrivata a noi pressoché completa, ebbe il titolo di "Monarcha iuris, in legibus ut terrestre numen", titolo riconosciuto ovunque in Europa.
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RispondiEliminaDifficilmente abbiamo assistito, nel corso della storia, ad una diffusione di studi giuridici simile a quella che avveniva con le sue opere ed i suoi testi erano fondamentali per ogni studente di legge accanto a quelli di Giustiniano.
Se vogliamo, egli rappresentò una figura simile a quella di Papiniano, per questo, dato il momento storico importante, i suoi trattati furono utilizzati per ottimizzare le sentenze giuridiche in caso d'impasse, anzi i giudici sostanzialmente s'attennero più alle sue "risoluzioni" che alla legge vigente.
Questo "arbitrato" fu accettato in eguale misura in tutto il nostro continente e per questo possiamo considerare la sua opera giuridica come la pietra miliare della giurisprudenza moderna.
Per Bartolo, tutti gli imperatori che si sono succeduti sul trono erano eredi di Giustiniano, questo fu un punto estremamente importante quando egli trattò le sue dottrine politiche e le sue teorie giuridiche.
Infatti, egli nella controversia esistente tra papato e impero cercò d stabilire il limite possibile della podestà a cui entrambe dovevano cercare d'attenersi, il suo presupposto di partenza fu Giustiniano, per lui esempio illuminante della doppia pratica di potere (religioso e civile), in un momento in cui il diritto canonico e quello romano stavano prendendo strade diverse sull'onda degli avvenimenti politici.
Le tesi del diritto romano dovevano essere quindi utilizzate per contrastare una scelta che sarebbe andata contro "l'elezione popolare " nella questione della successione al trono in favore di quella di derivazione divina che in pratica decretava l'ereditarietà.
In realtà Bartolo fu la punta di diamante d’uno sviluppo senza precedenti a livello umano per gli studi ed i commenti sul diritto in Italia durante il XIV secolo, compagni di viaggio ideali furono il capostipite Cino da Pistoia, padre spirituale del gruppo, Baldo degli Ubaldi, Paolo di Castro, Raffaele Fulgosio, Giason del Maino, Giovanni D’Andrea e Niccolò dei Tedeschi, nomi di personaggi conosciuti in tutta Europa e citati nelle varie sentenze emanate dai tribunali del tempo, le assolute ed indiscusse autorità di riferimento.
La scuola dei commentatori italiana grazie all’indiscutibile genio interpretativo con cui analizzò il vecchio testo romano, le sue consuetudini e quindi le rinnovò traendo sempre spunti incredibilmente originali ed innovativi formò nello studio e nel dibattito un carattere decisamente “europeo”, nuovo quindi per il tempo, grazie alla sistematicità della metodologia con cui si prepararono le tesi, non a caso si parlò di “mos italicus” fuori dei confini italici.
Elena Lauretti
Salve a tutti!
RispondiEliminaLeggendo il III capitolo del libro,abbiamo notato che si torna a parlare (nel paragrafo terzo),della GEWERE,richiamando lo scritto del Prof.,inviatoci poco tempo fa via mail,"Gewere,vestitura,spolium: un'ipotesi di interpretazione". In esso l'intento è quello di rivelare il segreto della VESTITURA,che era considerata traduzione latina della germanica GEWERE. A giudizio del Prof., invece, è molto più probabile il contrario;e sembra che il VESTIMENTUM sia il riconoscimento formale di un diritto ad essere tutelati dall'autorità pubblica in caso di turbative del pacifico godimento. La VESTITURA è la premessa dell'esercizio di un'azione di spoglio.
In "Gewere,vestitura,spolium",la trattazione inizia con il riferimneto ad una questione ancora molto discussa: la natura del diritto conferito al portatore di un titolo di credito, che la dottrina chiama legittimazione. Ma i commercialisti si chiedono se essa non sia altro che una manifestazione della titolarità, o se invece dia luogo ad un potere indipendente da essa. Il titolo di credito permette anche a chi non è titolare di disporne attraverso la carta in virtù della sua posizione di legittimato. Tutto ciò ha un "sostrato storico" ricollegabile al termine INVESTITURA: "i germanisti della seconda metà dell'Ottocento considerarono la VESTITURA, che incontravano nei documenti latini medievali come la traduzione dell'originaria parola tedesca GEWERE e l'INVESTITURA come l'atto giuridico che conferisce la GEWERE-VESTITURA ad un soggetto".In seguito si fa riferimento all'opera di Enrico Finzi,Il possesso dei diritti. Durante la prime lezioni, in cui si era cominciato a parlare di possesso, abbiamo avuto modo di reperire questo libro, inserendo a tal proposito un altro intervento. Secondo l'Autore, i rapporti denominati GEWERE possono ricondursi a tre: 1)la GEWERE come puro potere fisico sopra una cosa; 2)la GEWEWRE come potere di fatto, collegato con il diritto corrispondente (ad esempio, GEWERE, del proprietario; 3)la GEWERE priva di potere fisico. Finzi richiama l'opera di Albrecht,DIE GEWERE, in cui si dedica ad un esame etimologico del concetto di GEWERE che corrisponderebbe a "tutela, difesa di una cosa" e distingue la GEWERE in GEWERE con signoria di fatto su una cosa e GEWERE con signoria astratta, chiamando la prima anche POSSESSO.
La "Gewere germanica" viene considerata essenzialmente dal punto di vista del suo rapporto col corrispondente diritto, come esteriorità, "apparenza del diritto".
Nella parte finale della sua trattazione, Finzi si occupa dell'INVESTITURA. L'incipit è: "all'investitura in un diritto segue la possibilità legale di esercitarne il contenuto". L'effetto dell'INVESTITURA è il possesso formale di un diritto e colui che è soltanto "investito" di un rapporto è in una situazione "precaria", incerta, la cui durata dipende dall'arbitrio altrui.
(Silvia Codispoti e Giovannina Damiani)
....Continua....
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RispondiEliminaIn "Gewere,vestitura,spolium", il Prof. spiega che nelle fonti in lingua tedesca l'uso del termine GEWERE non risale oltre il IX secolo. La parola non si trova in fonti più antiche della fine dell'VIII secolo; le leggi romano-barbariche non ne fanno menzione, nè GEWERE,nè VESTITURA compaiono nel linguaggio giuridico, tanto che risulta difficile porre l'istituo al centro del diritto privato germanico. Il suggerimento è quello di abbandonare il sostantivo VESTITURA e ricercare invece il verbo: VESTIRE si trova verso il Settecento, ma molto prima si trova REVESTIRE. Quest'ultimo è usato dal giurista Tertulliano per indicare la restituzione della vita promessa al cristiano, il termine è usato per indicare il rimedio alla spogliazione, alla rapina operata dalla morte. Kobler ipotizza che questo uso teologico abbia dato vita ad una terminologia giuridica, quindi conclude che la GEWERE sia un istituto in gran parte costituito nell'esperienza ecclesiastica, e passato poi nella pratica medievale. Nel contesto giuridico REVESTIRE significa dunque "intervenire d'autorità per reintegrare nel godimento dei propri beni e delle prerogative derivanti dalle cariche ricoperte colui che in seguito ad un atto di natura politica o giudiziaria ne era stato privato.E' un REVESTIRE che presenta molte analogie con l'uso teologico del termine che Kobler ha reperito in Tertulliano: il godimento dei propri beni e della propria posizione nella società è infatti concesso e garantito dall'autorità del re, il quale può restituirlo a chi ne è stato privato proprio come Dio, da cui dipende la vita stessa dei fedeli,ha promesso di restituirla a tutti i cristiani dopo la morte".
Risulta che il REVESTIRE fosse un rimedio processuale che poteva essere invocato dall'ecclesiatico vittima di un precedente SPOLIUM: privazione irrituale di una posizione nella gerarchia, con tutti i godimenti materiali e spirituali ad essa collegati. Il procedimento di SPOLIUM è formalizzato per la prima volta nelle Decretali PSEUDO ISIDORIANE: gli spogliati potevano chidere di essere reintegrati nel funzioni e nel godimento dei beni ad esse collegati, di essere REVESTITI. Dunque le fonti canoniche sullo SPOLIUM ci mostrano questa VESTITURA nella sua dinamicità: INVESTITURA, SPOLIUM, REVESTIRE.
Il possesso romano era altra cosa dalla VESTITURA tutelata dal procedimento di spoglio e gli interdetti ponevano alcuni limiti. I civilisti avevano limitato la figura del possesso ai beni materiali, quindi per uffici pubblici, status personali, diritti di credito, i procedimenti possessori romani erano inutilizzabili. Contro questo rigore il Prof. evidenzia che fu soprattutto Uguccio a trarre dalla norme raccolte da Graziano principi generali da applicare in ogni circostanza. Si ritiene che Uguccio quindi abbia voluto fondere la dottrina canonistica con la civilistica.
(Silvia Codispoti e Giovannina Damiani)
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RispondiElimina"Il possesso romano finisce per convergere con la VESTITURA canonistica per costituire la premessa di procedimenti abbreviati, fondati sul fatto del godimento che, legittimo o no, è stato interrotto senza l'intervento dell'autorità giurisdizionale".
Agli inizi del Duecento anche i laci,infatti, potevano tutelare con le azioni di spoglio la propria posizione: posizione che nella società era intesa come un vestito,una VESTITURA, che l'autorità pubblica aveva il dovere di difendere.
La procedura di spoglio si applicava a tutte le VESTITURE che caratterizzavano le condizioni personali ed economiche. Il godimento di queste condizioni corrispondeva a ciò che in tedesco era chiamato GEWERE. Alla dottrina germanistica però le origini canonistiche dell'istituto non andavano a genio e così la GEWERE venne forzata dai germanisti in origini che non erano le sue.
Civilisti e commercialisti sono tuttora pronti a ricorrere al termine INVESTITURA in materia di legittimazione e titoli di credito, convinti dell'origine germanica dell'istituto, ma poco attenti alla questione delle origini, perchè, come sottolinea il Prof. all'inizio della trattazione, i giuristi spesso non possono fare a meno di ricorrere alla storia, tuttavia a volta tale ricorso alla storia è poco consapevole.
Silvia Codispoti e Giovannina Damiani.
Per rispondere a Silvia e Giovannina, il "vestito" e il "rivestire" sono di fondamentale importanza nella terminologia e nella simbologia cristiana. Non è forse San Paolo che esorta a "rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (Ef, 4,21-24)? Anche nell'antico testamento, Isaia, anticipando la rivelazione dell'Apocalisse giovannea, si rivolge in questi termini: "Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te". Il vestito del cristiano è ovviamente la veste candida che viene concessa ai neobattezzati, ma anche nella cultura romana, il tipo di toga simboleggiava il grado raggiunto dal cittadino nel suo cursus honorum. Nel medioevo l'investitura del vassallo era preceduta da una notte di preghiera e di riflessione in cui avveniva la vestizione. Il senso del "rivestire" è quindi quello di conferire un carattere, che può essere un carisma sacro, oppure una funzione politica. Il vestito è il simbolo ancestrale della propria posizione, nelle più primitive tra le tribù si ritrovano i segni del potere che si evidenziano in determinati "accessori" di cui si dota il capo del villaggio o lo stregone. Per quanto riguarda l'actio spolii riporto questo breve frammento:
RispondiEliminaActio spolii eo spectat, ut spoliato res ablata ante omnia restituatur. Itaque nulla contra eum opponi potest exceptio, quae ad petitorium pertineat, veluti domini, renunciationis quod canonici non sit institutus, quod crimen commiserit [...] Quinimo non tantum res ablata spoliato restituitur, aut ejus loco aestimatio datur, sed etiam sarcienda sunt damna, ac restituendi fructus a spoliati percepti, quin etiam percipiendi, si spolium vi, aut dolo malo patratum sit. Quorum probationem, atque aestimationem spoliatus jurejurando peragere potest.
Nel terzo capitolo del libro, la ripresa dell’istituto del possesso, inteso in senso tecnico, viene svelata come spia di una trasformazione che si porta dietro l’apparizione di una nuova cultura giuridica.
RispondiEliminaTrovo utile, alla luce di quanto detto nell’ultima lezione sull’importanza dello studio della storia ai fini di una maggiore comprensione del percorso che ha portato all’attuale sistematica delle due principale figure di appartenenza (possesso e proprietà), fornire qualche elemento rispetto al periodo che stiamo esaminando.
A tale scopo mi è sembrato interessante osservare il Medioevo attraverso le pagine di Cinzio Violante, nelle quali l’impero medievale appare in preda ad un mutamento incessante in cui sono coinvolti diversi strati sociali.
Ne “La società milanese nell’età precomunale” l’autore fa un tracciato in cui è contenuto tutto il significato del Medioevo come processo di liberazione di forze vive.
Il progressivo affiorare di nuove forze politiche, il moltiplicarsi delle richieste di libertà costringono gli imperatori ad allargare la base della società feudale, estendendo i privilegi dai feudatari laici agli ecclesiastici, ai vassalli minori, ai cittadini. L’estensione al massimo del feudalesimo vuole essere, nelle intenzioni degli imperatori, che concedono benefici, privilegi e immunità, il consolidamento del feudalesimo, l’istituzione di una gerarchia rigida e complessa, l’imbrigliamento delle forze nuove nel sistema feudale. Ma a chi consideri la storia non dal solo punto di vista giuridico e pensi che in quest’epoca come non mai il diritto nasce vecchio, tale politica imperiale non appare come elemento d’ordine, bensì tradisce una situazione di disordine, se così si può definire quel momento essenzialmente rivoluzionario della storia in cui il fatto per la medesima forza e concretezza del suo esistere, si pone come diritto.
Le classi feudali formatesi a seguito del crollo dell’impero carolingio si sono rinvigorite di potenza e ricchezza nella crisi del potere vescovile; si sono trasferite in città, vi hanno acquistato seguito ed autorità nel nuovo fermento di vita economica e politica. Il vincolo feudale ora è strumento per inserirsi nella gerarchia feudale e partecipare attivamente al governo della cosa pubblica. Il vincolo feudale viene così reclamato come strumento di libertà.
Questa evoluzione, che conduce all’inserimento di sempre nuovi e più larghi strati sociali nel sistema feudale, contribuisce anche negativamente, per la reazione che suscita, all’incremento della libertà: quella classe cittadina di proprietari, giudici, negoziatori, che ora necessariamente viene oppressa e vede limitate le proprie libertà dal rigoglioso affermarsi della libertà degli altri come potenza economica, giurisdizionale, feudale insomma, chiede anch’essa per sé libertà, che in questa epoca non può essere se non privilegio, non può significare se non inserimento nella gerarchia feudale. La pacificazione e il reciproco riconoscimento tra i cittadini non feudali e i capitanei sono le basi sulle quali si pongono in comune i propri rivali diritti e poteri che essi detengono a titolo personale in quanto proprietari terrieri. E allora il concetto di comunità inizia a confluire in quello più grande di Comune. E’ così considerato che lo sviluppo della società feudale appare sin dal suo inizio non come un processo di involuzione, particolarizzazione, di immiserimento della vita morale, ma come un ampliarsi e un arricchirsi della vita etico – politica con l’immissione contrastata, ma sempre vittoriosa, di nuove energie.
Ora il sovrano non può che limitarsi a ricostruire l’unità della gerarchia feudale su nuove basi sempre più ampie, nel tentativo di domare le energie ribelli, costingendole nell’organismo feudale, ma ottiene l’effetto opposto, perché dà così libertà di vita, inserendole nel sistema feudale, a quelle forze che poi finiranno col distruggere il sistema stesso.
...continuo...
RispondiEliminaQuesti due aspetti centrifugo e accentratore, rivoluzionario e conservatore, del medesimo processo appaiono più chiaramente distinguibili nel secolo XI. È la contrapposizione dialettica, non cronologica di due elementi che solo astrattamente possiamo distinguere in feudale e comunale ma che costituiscono una sola realtà storica e completa: lo svilupparsi, dal seno dell’unità indifferenziata dell’Alto Medioevo, di un processo di differenziazione, ricco di fecondi contrasti che si risolvono in nuove e più complesse sintesi. Nella società feudale il potere non viene frazionato e distribuito progressivamente dall’alto, come il propagarsi di una luce fredda, ma viene conquistato d’assalto, con un moto che parte contemporaneamente dall’alto e dal basso delle classi sociali attraverso violenti scontri e contrasti; e non si ha mai l’affermazione delle classi elevate senza che quelle inferiori non riescano a farsi valere a loro volta provocando il frazionarsi del potere a loro favore. Non più classi sociali una accanto all’altra, né staticamente l’una sull’altra, ma l’una contro l’altra: violenti contrasti sono quindi la legge della società feudale, perché il fermarsi di una classe su posizioni acquisite determina sempre lo scavalcamento, o almeno il tentativo di farlo, da parte delle classi inferiori: contrasti, che non infrangono, ma rendono più viva l’unità medievale.
Con tutto ciò che ne consegue in ambito culturale, giuridico e legislativo.
Il diritto è fortemente influenzato dal gioco altalenante di cui è costellata l’epoca medievale, e non fa altro che seguire il suo ritmo.
Credo che assumendo una visuale evoluzionistica, il decorso storico del Medioevo può essere svelato nella sua reale valenza di ruota motrice di uno sviluppo che tocca e determina anche la cultura giuridica, la quale si snoda in modo mai lineare, avanzando eppure tornando indietro quando è più opportuno, riaffermando a gran voce il proprio carattere universale, eppure rendendosi così vicina alla realtà, rinnovandosi vestendosi di antichità.
Nicoletta Barra
Pennington nell'articolo “Innocenzo III e lo ius commune” riprende un vecchio articolo su Innocenzo III, che era stato anni addietro bocciato dal suo editore Stephen Kuttner, in cui si poneva il problema se egli fosse dottore in legge e avesse studiato con Uguccione: le sue decretali si presentano infatti molto professionali ed erudite. il fatto che Pietro di Benevento avesse cambiato parole e frasi delle sue lettere può far supporre che Innocenzo non fosse un vero professore di diritto. Ma possiamo anche pensare che egli non immaginasse Innocenzo seduto nella cancelleria papale. Gli studiosi concordano sul fatto che Innocenzo sia effettivamente l’autore di alcune di quelle lettere, ma la loro individuazione non è facile. In realtà l'approccio allo “ius commune” nella formazione di Innocenzo sembra essere troppo riduttivo: infatti nel suo breve soggiorno a Bologna avrebbe conosciuto anche il diritto romano e i suoi concetti che non avrebbe mai potuto trovare sui testi canonici, soprattutto in tema di procedimento (come il diritto del convenuto di ricusare un giudice, situazione discussa utilizzando la terminologia romana). Pur criticato nei secoli seguenti da studiosi come Rabelais che ha ravvisato certe decretali come ostili al regno di Francia, si possono discutere alcuni esempi in cui la curia ha creato norme per lo ius commune in cui si riscontra la conoscenza legale del Papa. Un aspetto importante del diritto comune era la definizione di istituzioni giuridiche mediante l'utilizzo di massime, che troviamo nel rapporto tra diritto comune e le decretali di Innocenzo: un esempio è “quod omnes omnibus tangit ab approbari debet” che in origine era un passaggio insignificante del codice di Giustiniano, trasformato in una delle massime più suggestive di Bonifacio VIII, diventando una pietra angolare del diritto pubblico medievale. Anche la massima “necessitas legem non habet” aveva radici canonistiche: il concetto di necessità era infatti sconosciuto ai giuristi romani, presente in maniera sporadica ma mai stabilmente definito. Solo Uguccione ha dato una elegante forma al punto, riconoscendo lo stato di necessità come una deroga alla legge, decidendo di volta in volta cosa sia “urgens” o “ius”. altra massima è “publicae utilitatis intersit ne crimina remaneant impunita” nata proprio sotto Innocenzo e ha avuto un grande successo nel tardo medioevo: ha avuto la sua origine nel diritto romano, in particolare nel Digesto e risale al fatto per cui un maestro ungherese aveva ardito rubare due Folia da un registro di papa Alessandro III sotto il naso del cancelliere papale. Innocenzo III chiese al re d'Ungheria (nella decretale “Inauditum”) di indagare e condannare i criminali, affinché la malefatta non fosse impunita, a tutela dell'interesse pubblico. Un canonista inglese, Alano, notò che il passo era stato preso in prestito da una sezione del Digesto dedicata alla Lex Aquilia, in cui era affrontata una questione di diritto privato: risarcimento per danni alla proprietà in cui è stabilito che torti e malefici non rimangano impuniti. Il giurista curiale ha applicato questi principi al diritto penale. Quattro anni dopo, in un'altra decretale indirizzata all'arcivescovo di Lund, viene delegata ai laici la facoltà di individuare questi crimini per il bene pubblico, divenendo un caposaldo del diritto penale medievale.
RispondiElimina...“Utilitas” era un concetto chiave nella giurisprudenza del diritto comune: fin dall'inizio del suo pontificato, Innocenzo III aveva ribadito i principi teocratici: la plenitudo potestatis si configurava come un potere per l'utilità pubblica. L’uilitas si è spesso collegata alla necessitas nelle sue lettere (quia vero summa necessitas exigit et communis utilitas requirit). Forse a ragione, Pennington, senza mascherare un certo sarcasmo, ricorda come per “ necessità" Innocenzo avesse indetto la quarta crociata. Mentre il più acuto passaggio linguistico dal termine maleficium a crimen è un’eloquente dimostrazione di come dal diritto privato Romano si realizzasse il nuovo diritto pubblico comune. Tornando alla domanda iniziale, ci chiediamo se effettivamente Innocenzo III fosse a conoscenza della Lex Aquilia nell'oscuro commento di Giuliano? Era veramente così dedito allo studio, oppure tra le mura di Bologna si dedicava all'ozio e a distrazioni varie? Di certo le decretali di Innocenzo III hanno contribuito enormemente alla formazione di una raffinata giurisprudenza del diritto comune. Un altro elemento di valutazione della conoscenza giuridica di Innocenzo III è il “consilium quod dominus papa Innocentius misit crucesignatis sine bulla” mentre i cavalieri si avvicinavano a Costantinopoli durante la quarta crociata. essa è l'unica lettera di Innocenzo denominata “consilium”, e sta ad indicare un responso per un problema giuridico; non era né un giudizio né una dichiarazione vincolante e, soprattutto, non era un rescritto che invece era una risposta autorevole del Papa a quesiti legali posti dai giudici o dai contendenti. Mentre un rescritto doveva avere l'autorità della sede papale, e doveva quindi essere munito della Bolla, un consilium era inviato “sine bulla”. per quanto riguarda la forza giuridica di un consilium, non ci è dato sapere, ma questo consilium non era di certo un giudizio definitivo, né una dichiarazione vincolante: gli storici l'hanno definita come una lettera papale inviata per i crociati. il messaggio ivi contenuto non ha carattere cogente, bensì esortativo. Il consilium divide i canonisti in due: le richieste erano diverse ma legate, presumibilmente formulate nella primavera del 1203 durante il tragitto da Zara a Costantinopoli: la prima questione era se i crociati potessero navigare con i veneziani scomunicati senza cadere essi stessi nella scomunica. il Papa li autorizzò a navigare con i veneziani fino alle terre del Sarracens o alla provincia di Gerusalemme. Questa decisione fu giustificata in due modi: in primo luogo se fosse stato ordinato ai crociati di abbandonare le navi veneziane dopo aver già pagato per il passaggio, i veneziani sarebbero stati ricompensati per la loro intransigenza; in secondo luogo i veneziani scomunicati erano paragonati a un capofamiglia scomunicato e i suoi diretti familiari (i crociati) non erano tenuti a evitare contatti con lui (i veneziani). Questa parte del “consilium” è divenuta parte dei diritto canonico e ha provocato un vivace dibattito tra i canonisti sulla validità di contratti conclusi con gli scomunicati. Innocenzo avvertiva poi i crociati di non muovere guerra ai Veneziani, sempre che essi fossero stati assolti. La seconda parte riguarda la questione di come i crociati potessero ottenere approvvigionamenti senza fondi sufficienti o il supporto dell'imperatore di Costantinopoli. Innocenzo III assicura i crociati di scrivere all'imperatore chiedendogli di provvedere a tutti i loro bisogni. Anche se l'imperatore aveva già promesso aiuti, nel caso in cui egli non l'avesse fatto, i crociati avrebbero potuto prendere tutto ciò di cui necessitavano dalla popolazione locale. Questa previsione imita quella concessa dagli imperatori terreni per cui il suo esercito, se aveva bisogno di cibo, poteva raccogliere le provvigioni da qualsiasi luogo.
RispondiElimina...Anche in questo caso Innocenzo correda la disposizione di numerose citazioni bibliche per rafforzare gli argomenti di diritto. il giurista Alano ha inserito il consilium nella sua collezione, fornendolo di una glossa, ma epurandolo di ogni riferimento biblico. Citando la decretale di papa Gregorio VII anch'egli concorda con il fatto che i crociati potessero fare affari con gli eretici e gli scomunicati. per quanto riguarda la seconda parte, quella sull’approvvigionamento, il fatto che le truppe potessero procacciarsi cibo ovunque, deve aver scioccato Alano. il fatto è che Innocenzo, data l'importanza della crociata, allargò i limiti delle norme canoniche per favorire il movimento. Un'altra deroga approntata da Innocenzo fu quella per cui un uomo potesse assumere la croce senza il permesso della moglie (con una grave violazione dei diritti delle donne previsti dalle norme del XII sec.). Alcuni ritengono che Innocenzo si sia ispirato all’Authenticum, in cui viene affrontato questo genere di problema, anche se non permette ai soldati di attingere indiscriminatamente, ma riserva ai magistrati provinciali la dotazione dell'esercito. Ma secondo alcune ricerche Innocenzo non poteva essere a conoscenza di questa novella in quanto è stata aggiunta tempo dopo, per cui ancora non sappiamo quale testo di diritto romano Innocenzo avesse in mente. Sorprendentemente Alano ha citato un'altra lettera di Innocenzo che giustifica “urgens necessitas” una deroga di legge: in questo caso il furto non sarebbe stato un reato, cioè il furto è approvato quando si verifica nel momento del bisogno. Ma l'estrema necessità non avrebbe dovuto essere concepita come un privilegio generale secondo cui era permesso ai soldati di prendere la proprietà altrui. Tuttavia questa legge rimase in vigore. Le argomentazioni bibliche addotte da Innocenzo si troverebbero nel libro dei Giudici, secondo Alano, in cui Gideon uccise gli anziani Succoth e distrusse Penuel perché quelle città non avevano fornito di cibarie il suo esercito. Secondo questo abile montaggio, Alano cercò di incorporare il secondo consilium nel diritto canonico mentre i giuristi che seguiranno non saranno della stessa opinione, i quali elimineranno ogni argomentazione teologica. In base a questo Consilium, se si dovesse valutare la conoscenza giuridica di Innocenzo, il voto sarebbe alquanto basso. In conclusione Pennington si rivolge all’editore che anni addietro aveva smontato le sue teorie, ribadendo i suoi dubbi sulla formazione giuridica di Innocenzo III, in quanto se teniamo conto solo della massima “ne crimina remaneant impunita” allora Innocenzo sembrerebbe un grande giurista; ma se ci aggiungiamo il Consilium per i crociati, allora le sue capacità scadono notevolmente.
RispondiEliminaRiallacciandomi all'intervento di Irene sull'Umanesimo va ribadito che, con l'umanesimo giuridico, siamo giunti ad un momento intenso di frattura verso le certezze medievali, siamo giunti in altre parole, al primo atto di una vicenda nuova; l'umanesimo giuridico, lungi dal restare conchiuso nei termini storici dei secoli XV e XVI in cui si manifesta, avrà uno sviluppo dei secoli successivi e contribuirà a plasmarli.
RispondiEliminaIl nessaggio dell'umanesimo giuridico può essere ridotto ad una ferma polemica verso le carenze metodologiche di glossatori e commentatori, verso il modo disinvolto con cui essi avevano maneggiato il diritto romano.
Il loro sguardo si era accontentato di analizzare puntigliosamente il Corpus iuris giustinianeo senza la preoccupazione di comparare i vari stadii di elaborazione che la Cancelleria bizantina del secolo VI d.C. aveva confuso ed anche soffocato.
Agli occhi dei nuovi giureconsulti umanisti il diritto romano doveva essere recuperato alla sua effettiva dimensione storica, cioè per quello che era stato e come era stato e come si era sviluppato in mille anni di vita.
E' una battaglia culturale che impegna gli ingegni più vivaci in tutta Europa: il lombardo Andrea Alciato, il francese Guillame Budé e il germanico Ulrich Zasius sono i modelli più prestigiosi di un orientamento metodologico che sta avendo consensi sempre più larghi.
L'apporto di altre scienze, invocato a fornire solidti supporti culturali al diritto , è la strada maestra che può portare a uno strutturale riordinamento dell'ammasso caotico del diritto romano.
Quello voluto e attuato da Giustiniamo e dai suoi solidali non lo fu; fu piuttosto il soffocamento delle precedenti voci del diritto classico e post classico nella loro tipicità storica.
L'esigenza è,ormai, una sola: restituire il diritto romano ai Romani, seguirne fedelmente le mutazioni prodotte nella civiltà giuridica romana durante il distendersi di un millennio.
Paolo Grossi, L'Europa del diritto.
Serena Pecci
GRANATO LORENA
RispondiEliminaMi scuso sia per l’orario insolito sia per il ritardo col quale posto questo mio breve commento ma per problemi tecnici mi è stato possibile elaborare e postare detto commento solo ora. Noto che è stato già fatto un grande lavoro incentrato sul terzo capitolo, come suggeritoci dal professor Conte, e soprattutto focalizzato sulla proprietà, possesso e Gewere. A completamento di quanto già da voi detto vorrei inserire alcune parti di uno scritto di Puchta che mette in evidenza, relativamente al diritto romano, quelli che erano i rimedi esperibili a difesa del possesso: gli INTERDETTI.
Ma il Possesso ha realmente nel diritto romano una esistenza giuridica? Fra gli Interdetti Possessori, coi quali il Pretore difendeva gli interessi privati, occorrono oltre quelli che suppongono la prova d’un diritto sopra una cosa, o sopra una persona, e nei quali il giudice doveva decidere sulla esistenza di questi diritti, anche alcuni altri, nei quali trattasi solamente di investigare, se realmente si esercitava non in un modo provvisorio un diritto pubblico, di famiglia e di proprietà: sicchè l’Interdetto si fondava sulla semplice esistenza di questo Fatto, e da essa dipendeva parimenti la decisione; interdica quae possessionis causam habent. In questa classe sono noverati anche quelli, che hanno a loro fondamento il Possesso dell’attore,e che sono i veri Interdetti Possessori: i quali alcune volte hanno lo scopo di assicurare da una violazione il presente possesso, altre volte di restituire il possesso perduto, essendo detti secondo questa differenza d’un tale scopo retinendae o recuperandae possessionis.
Le Interdicta retineandae possessionis hanno lo scopo di conservare il possesso, che non viene riconosciuto e opposto alla parte contraria. L’opposizione può essere una violazione materiale, un fatto, col quale s’impedisca a colui a cui il possesso dà un potere di fatto sulla cosa, d’imprendere alcun che su questa, oppure che l’opponente esegua egli stesso qualche cosa, senza negare però il possesso al possessore. Ma anche il semplice fatto di negare il possesso senza essere accompagnato da un’attività esterna è sufficiente ragione per concedere l’interdetto(era questa anzi la situazione ordinaria). Nelle questioni sulla proprietà la parte che doveva sostenere ciascuno dei litiganti nel processo dipendeva dal possesso: il presente possessore aveva il vantaggio di essere il convenuto, essendo imposto alla parte contraria l’onus petitoris. Ma quando ciascuna delle parti pretendeva il possesso, era questa la prima questione da risolvere. Secondo il più antico diritto non si faceva di ciò un processo speciale, decidendo il pretore secondo il so criterio: ma successivamente fu dato l’interdictum retinendae possessionis, conseguentemente al quale era decisa in un giudizio speciale la questione sul possesso: secondo Ulpiano sarebbe stata questa la prima occasione di questi interdetti. Lo scopo, che si perseguiva con gli interdetti, era sempre il riconoscimento del possesso: nei casi di una violazione di fatto vi si aggiungeva il risarcimento dei danni che ne provenivano.
Il Pretore propose un doppio interdetto, per le cose immobili e per le mobili: al possesso delle prime si applicava l’interdictum uti possidetis. Per vincere in questo processo era necessario essere possessore presente: né ciò bastava, il possessore on doveva aver acquistato il possesso dalla parte contraria vi, nec clam, nec precario, ossia che il suo possesso non doveva essergli stato trasmesso con uno di quei tre vitia possessionis: violenza usata contro la parte contraria, occultamento del fatto dell’acquisto del possesso, o di una cessione del possesso con l’obbligazione della restituzione ad arbitrio del cedente. Quando dunque alcuno era affermato possessore, ma il suo possesso aveva rispetto alla parte contraria uno di quei tre vizi, il possesso era riconosciuto a quest’ultima parte: potendo in tal modo avvenire che per effetto dell’interdetto fosse riconosciuto possessore colui che non lo era in quel momento.
CONTINUA..
continua(vedi sopra)..GRANATO LORENA
RispondiEliminaAl possesso delle cose mobili si applicava l’interdictum utrubi. In questo interdetto e secondo l’editto pretorio non si decideva del possesso secondo il momento presente: la lite era vinta da colui che provava di aver posseduto più a lungo nell’ultimo anno a cominciare dal principio del processo retroattivamente, non valendo però anche per le cose mobili un possesso che si era acquistato vim, clam o precario dalla parte contraria: per contro ciascuno poteva aggiungere alla durata del suo possesso anche quella del suo antecessore, dal quale lo aveva acquistato ex iusta causa, ammettendosi in tal modo una accessio possessionis.
….
Abbiamo osservato, che quando il possesso era tolto al possessore per violenza o furtivamente, o quando egli l’avesse ceduto per precarium, gli era lecito reclamarlo in un anno con gli interdetti retinendae possessionis. Ma occorre un’altra classe speciale d’interdetti, ch’erano principalmente diretti ad un tale scopo e detti interdica recuperandae possessionis: l’interdetto de vi, de clandestina possessione, de precario.
…
Il possesso, come potere di fatto sopra una cosa, importa due condizioni: 1). uno stato corporale, un rapporto corporale con la cosa, il quale crei quel potere, ossia la possibilità di disporre illimitatamente di essa; 2). una volontà diretta alla cosa: noi non possiamo attribuire alcun dominio sopra questa a colui che manca di coscienza, anche quando esista l’attinenza corporale sulla cosa: che si attacchi, per esempio, qualche cosa a chi dorme, questi non possiederà finchè non ne abbia la conoscenza e la volontà di avere la cosa. Questi due elementi del possesso sono espressi dai giureconsulti romani con leparole: corpus ed animus, ed invece di animus è usata anche l’espressione affectio tenendi o possidenti. Il corpus può essere differente secondo la varietà delle posizioni corporali, che ci pongono in quella condizione: può consistere in ciò, che io abbia la cosa nella mia mano, o la conservi chiusa, o che passeggiando calpesti il territorio ecc. sono queste altrettante forme d’un medesimo stato; ma nella sua essenza il corpus ossia l’attinenza fisica è sempre la medesima. Rispetto a questo primo momento non vi ha differenti specie di possesso.
Per contro il potere di fatto può variare a seconda della diversità dell’animus, col quale io posseggo una cosa, e della volontà che si riferisce ad ogni possesso particolare. Ci si presente il caso che la volontà del possessore risponda perfettamente allo stato corporale. Se questo comprende la totalità della cosa, e ne ha l’assoluto dominio e la possibilità di disporne a proprio talento e con esclusione degli altri, la volontà risponde a questo stato corporale, quando intende a questa totale potere sulla cosa ed è diretta ad averla interamente per se. È questa la volontà diretta ad avere un assoluto dominio sulla cosa; e può essere paragonata a quella d’un proprietario…
Questi spezzoni di testo sono tratti dal libro: “Storia del Diritto presso il Popolo Romano, Corso delle Istituzioni” di Georg Friedrich Puchta.
Buonasera a tutti!
RispondiEliminaOggi a lezione parlando delle modifiche al possesso e alla sua tutela processuale nell’XI secolo, abbiamo accennato al sistema dei danni punitivi.
L’anno scorso, al corso di atti e pareri di diritto civile, avevo scritto un tema in cui si spiegava in cosa consistono e si discuteva sulla loro idoneità o meno a entrare nel nostro ordinamento.
Ho pensati potesse essere interessante pubblicarlo sul blog anche se ovviamente con il possesso medievale non c’entra praticamente nulla.
Le fonti usate sono la sentenza in esame della Cassazione, n. 1183 del 2007 e due articoli: Castronovo, “Del non risarcibile aquiliano:danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale” e Sirena, “Il risarcimento dei c.d. danni punitivi e la restituzione dell’arricchimento senza causa”.
La sentenza della III sezione civile della Corte di Cassazione del 19 Gennaio 2007 n. 1183 ha riaperto il dibattito in dottrina sulla risarcibilità o meno dei cosiddetti danni punitivi nel nostro Paese.
Prima di soffermarsi sulla sentenza e sulle conclusioni alle quali è pervenuta la Corte, è necessaria una breve premessa che chiarisca cosa si intenda per danni punitivi e quale sia l’origine di questo istituto.
I danni punitivi nascono nel sistema nordamericano dei torts e consistono nel riconoscimento da parte dei giudici (spesso non professionali, le cosiddette giurie) di una somma di denaro notevolmente maggiore rispetto all’entità del danno subito dal soggetto richiedente quando la condotta del soggetto danneggiante è considerata particolarmente deplorevole e pericolosa. Appare quindi chiaro come la figura in esame abbia una funzione più deterrente che compensativa e le relative sentenze abbiano perciò carattere esemplare nei confronti del danneggiante e dei consociati.
C’è da ricordare però che negli ultimi anni a causa del proliferare delle sentenze che riconoscevano il risarcimento dei danni punitivi e soprattutto dell’esagerato ammontare che spesso tali somme raggiungevano, la Corte Suprema americana ha posto dei paletti per la quantificazione di esse:
-la non contrarietà ai principi costituzionali e in particolare al concetto di “giusto processo” (XIV emendamento);
-il riferimento all’ammontare del danno effettivamente subito dalla vittima, all’antigiuridicità della condotta del danneggiante e a eventuali altre sanzioni civilistiche comminate per comportamenti analoghi;
-il rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.
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RispondiEliminaEssendosi ora chiarite la funzione e l’origine dell’istituto si può tornare all’esame della sentenza alla quale si è fatto cenno in principio.
La Corte di Cassazione italiana con detta pronuncia ha avallato la decisione della Corte d’Appello di Venezia che aveva rifiutato la delibazione di una sentenza della Corte distrettuale di Jefferson (Alabama) in quanto contraria all’ordine pubblico italiano: l’ammontare eccessivo e il carattere punitivo della somma in questione stridono infatti con il nostro concetto di responsabilità civile caratterizzato dalla natura risarcitoria e compensativa del danno subito.
Nello specifico la sentenza condannava un’impresa italiana di caschi a corrispondere una notevole somma di denaro a titolo di danno punitivo alla famiglia di un uomo morto in moto in quanto il casco che portava difettava nella fibbia di chiusura e non lo ha quindi protetto a dovere nello schianto contro un’automobile.
I sostenitori dell’estraneità della figura dei damages al nostro sistema (si veda per esempio Carlo Castronovo) fanno leva soprattutto sulla funzione e sul concetto di responsabilità civile come delineata dal nostro codice civile agli articoli 2043 e ss.
Tale articolo è preso come perno dell’intera disciplina.
In esso è previsto al soggetto danneggiato la corresponsione di un risarcimento a seguito di un danno ingiusto subito a causa della condotta dolosa o colposa del soggetto danneggiante. Dalla formulazione si ricava la natura compensativa, restitutoria di tale risarcimento; la funzione deterrente-punitiva sarebbe quindi inesistente in tale contesto. A ulteriore prova si è aggiunto che la previsione del risarcimento “in natura” o “per equivalente” non può che essere riferito al danno subito e non certo alla condotta tenuta dal danneggiante la cui punizione è eventualmente riservata al diritto penale.
Altra parte delle dottrina (si ricorda Guido Calabresi per esempio) invece si presenta più favorevole all’estensione di questa particolare forma di risarcimento anche in Italia partendo dal presupposto che ormai il fenomeno della globalizzazione interessa tutti i campi della cultura e della società compreso quello del diritto.
Punto di partenza per una tale conclusione è un’analisi più attenta di tutta la disciplina del risarcimento che coinvolge oltre ai casi del codice civile anche quelli previsti dal diritto dell’ambiente, dalle norme sulla responsabilità civile dei Magistrati e della difesa della proprietà industriale. In questi campi infatti emerge una tutela risarcitoria maggiore, maggiormente calibrata alla deplorevolezza della condotta (i valori in gioco sono particolarmente elevati ) che lascia trasparire anche una funzione sanzionatoria delle norme in questione.
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RispondiEliminaMa lo stesso articolo 2059 del codice civile potrebbe essere preso per la dottrina in esame, quale punto di partenza per l’ingresso dei danni punitivi nel nostro sistema di responsabilità civile. Esso accorda un ristoro a seguito di una perdita non patrimoniale subita dal soggetto; il risarcimento viene accordato ora, in modo sempre più estensivo, a vittime di reati che hanno subito perdite non solo patrimoniali ma anche morali e sentimentali. Essendo logicamente difficile quantificare in denaro tali danni si lascia la decisione al giudice che quindi come parametri sicuramente non prescinderà dalla condotta alla base del reato causa del danno. Soprattutto in questa sede entrano in gioco grandi valori dell’individuo e quindi appare in tutta chiarezza come non si possa negare che il risarcimento che il giudice attribuirà secondo equità possa fungere anche da sanzione nei confronti del danneggiante oltre che da ristoro per il danneggiato. Si nota inoltre come il processo logico seguito per la quantificazione della somma sia simile a quello svolta dai giudici americani per la liquidazione dei danni punitivi: esame della condotta, del danno e quantificazione della somma che spesso per le delicate questioni a cui si riferisce raggiunge anche cifre decisamente notevoli. Da ultimo si veda anche come pure nel nostro sistema giudiziario negli ultimi anni si stia assistendo a un proliferare di danni riconducibili all’ambito dell’articolo 2059 che hanno indotto i Tribunali a porsi dei freni nell’accordare i risarcimenti e il loro ammontare così come analogamente è successo negli Stati Uniti con l’intervento della Corte Suprema per arginare l’eccessività delle somme erogate a titolo di damages.
C’è poi un’altra parte della dottrina (tra cui Pietro Sirena) che si è mantenuta in una posizione per così dire intermedia.
Essa ritiene che allo stato attuale nel nostro sistema di responsabilità civile il risarcimento a titolo di damages non sia possibile data l’inequivocabile natura compensativa e non deterrente-punitiva (come del resto ribadito dalla terza sezione della Corte di Cassazione) che da noi riveste e ha sempre rivestito fin dalla tradizione romanistica.
Tale dottrina, tuttavia, non è contraria in assoluto all’ingresso nel sistema di questa figura, anzi lo auspica nel futuro. Ritiene però che al fine di rendere ciò possibile bisogni prima pervenire a una modifica legislativa che parta dall’articolo 2059 del codice civile e che includa in quest’ultimo tutti i casi di danni derivanti da atti compiuti in male fede e non solo da reato; dovrebbero essere altresì restituiti tutti i profitti e gli arricchimenti ottenuti in mala fede anche se non hanno prodotto danni e da ultimo, il parametro per la quantificazione delle somme liquidate dovrebbe essere quello del valore di mercato.
Concludendo appare chiaro come allo stato attuale la dottrina sia ancora spaccata sulla questione dei danni punitivi, ma allo stesso tempo aperta ad essi e al loro riconoscimento in Italia; è chiaro inoltre che i “punti di aggancio” per il loro ingresso esistono e così come sostenuto dall’ultima dottrina riportata a seguito di una modifica legislativa nulla osterebbe alla loro introduzione. Allo stato attuale però, così come affermato dalla Corte nella sentenza ricordata, essi appaiono ancora contrari o meglio stridenti con il nostro ordinamento e in particolare con le finalità del nostro sistema risarcitorio.
Elena Lauretti
PER UNA RILETTURA DEL DANNO PUNITIVO.
RispondiEliminaNell’innovativa esperienza di common law possiamo mirabilmente osservare come la condanna pecuniaria inflitta all’autore di un illecito civile presenta varie componenti costitutive che spaziano a seconda degli scopi perseguiti da risarcimenti aventi finalità riparatorie e restitutorie,si parla allora di “compensatory damages” e risarcimenti con fine sanzionatorio,deterrente o anche meramente simbolico, si parla invece di “non compensatory damages” e finanche di “exemplary damages”.
Le funzioni collegate con la prima categoria di danni vengono soddisfatte con il ricorso agli special damages che l’attore deve chiedere specificatamente e ovviamente dimostrarne l’ammontare, e ai general o presumptive damages,che includono i risarcimenti per danno morale e soggettivo(damages for pain and suffering),per cui invece l’attore non deve provarne l’entità. Gli exemplary o vindicative damages….azionano una vera e propria risposta punitiva verso il responsabile della condotta contra ius e svolgono una duplice funzione ripristinatoria e satisfattoria dell’attore ingiustamente danneggiato e special-preventiva,cioè di deterrenza avverso comportamenti indisciplinati del medesimo genere. Tali azioni repressiva e di special-prevenzione soggiacciono alla verifica dell’elemento soggettivo del dolo o colpa grave in capo all’offensore insieme all’elemento oggettivo della realizzazione di forme lesive tipiche ritenute socialmente dannose,come alcune categorie di illeciti civili.
L’ambito naturale di applicazione di tali condanne cosiddette esemplari ha spaziato da casi di diffamazione,violazione volontaria dell’integrità fisica,della proprietà e si è espanso ai casi celebri di responsabilità del produttore,lesione di diritti civili,trasgressioni di norme di legge. Si registra,quindi una certa tendenza dilatatoria da forme di tutela rafforzata di diritti assoluti come diritti della persona o di proprietà a forme di responsabilità più recenti e sofisticate.
Ammettere una risarcibilità del danno punitivo ha significato e significa tuttora aprire la strada a sanzioni private di stampo penalistico,cosa che a suo tempo fu criticata con preoccupazione già nell’ordinamento degli Stati Uniti a partire da una sentenza del 1844,laddove alcuni giudici americani ritennero tale modus agendi una indebita ingerenza di logiche penalistiche in campo civile. Altri giudici riconobbero una certa ragionevolezza nella potente forza deterrente della sanzione unita alla funzione retributiva della medesima verso una condotta antisociale. Certamente a rigor di logica quello che questi giudici fanno è assolutamente una contaminatio di logiche e categorie del diritto penale agli strumenti di diritto civile,perché sia l’idea di retribuzione che quella di deterrenza e quindi la special-prevenzione nascono connaturate ad una certa visione della funzione della pena e del delitto. E però vanno sottolineti due aspetti:il fatto che non è tipica degli ordinamenti di common law la netta definizione continentale tra torts e crimes;che tale visione del punitive damage si armonizza con una certa marcata indipendenza dei processi penale e civile nell’esperienza americana,che normalmente non smette di creare incongruenze.
*SEGUE*
Detto ciò la dizione “pena privata” assai cara a qualche autore si deve proprio alle corti di common law che definiscono la figura giuridica proprio come un “private remedy” piuttosto che una “public criminal sanction” e che ammettono la sussistenza non per quei casi di condotta illecita sorretta da mera colpa,perché questa sarebbe funzione pleonastica rispetto a quella svolta dai torts,ma soprattutto quando la condotta lesiva sia caratterizzata da evil motive,fraudolent purposes,o addirittura recklessness,cioè malevolenza,scopi fraudolenti,disprezzo dell’altrui diritto. Ora questi stati soggettivi che una certa dottrina penalistica definirebbe”qualificati” sono tributari della criminal law e si pongono in una situazione di giustapposizione con la classica figura dell’intent. In realtà la “malice” con cui viene mirabilmente definito questo elemento soggettivo del danno punitivo,in sede giurisdizionale è qualcosa di molto più fluido ed attenuato,nel senso che l’accertamento della giuria è volto a sventare anche solo una malice implicita,indiretta ovvero desumibile dalla natura dei fatti. È quindi importante sottolineare come il giudizio sui punitive damages si colloca a metà strada tra le esigenze del processo penale(colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio) e del processo civile(evidenza preponderante della responsabilità dell’offensore).
RispondiEliminaDelineate queste brevi note,ciò che mi preme ribadire è che il punitive damage di common law risulta ben incardinato, nonostante una certa forza espansiva, in elementi soggettivi e oggettivi di una certa stringenza come dimostra la ricorrenza del particolare e qualificato stato soggettivo dell’agente che è la malice,su cui è chiamata al vaglio anche la giuria, e che va a connotare in maniera quasi costitutiva questa particolare forma di responsabilità. L’elemento soggettivo della malizia,ovviamente tecnicamente intraducibile nelle nostre rigidità, è uno stato soggettivo che parrebbe sfumato come molti altri nel common law dei torts o dei crimes,ma che in realtà conferisce una particolare coloritura psicologica alla condotta dell’agente e al danno da esso prodotto. Ora al contario in un classico sistema di civil law come quello tracciato dal 2043 cc, l’illecito civile a ben pensare non è cosi fortemente connotato all’elemento soggettivo o oggettivo quando piuttosto non risulta assolutamente sbilanciato nella centralità del terzo elemento della responsabilità civile,ovvero il nesso causale,il che dà un radicamento materiale piuttosto forte all’intera vicenda. È ciò è assolutamente testimoniato da un passo della celebre sentenza 1183/2007 della cassazione laddove la corte rammenta l’indiffernza per la condotta del danneggiante nella definizione del risarcimento ex art 2043[ Nel vigente ordinamento l'idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante].
*SEGUE*
La forza dirompente del danno punitivo si cela nell’inversione del classico rapporto tra risarcimento e sfera del danneggiato a favore di un rivalutato rapporto tra risarcimento e condotta lesiva del danneggiante. Qui il quantum della restituzione si calcola anche e soprattutto tenendo ben in conto la figura dell’autore della condotta illecita. Riposa qui anche il meccanismo della deterrenza,perché se ad un certo punto il risarcimento dipenderà dalle valutazioni fatte sull’offensore,questi potrà in futuro “auto-orientarsi”,specie nei casi di illeciti seriali,assolvendo così alla funzione principale della sanzione. La inflazionata incompatibilità strutturale tra gli elementi costitutivi del danno punitivo e un sistema di responsabilità aquiliana forse è da ricostruirsi in termini storici evidenziando quella così caldeggiata estraneità ai nostri sistemi continentali di diretta derivazione romanistica di una necessaria prevenzione dell’illecito, una ipertrofia del diritto criminale unico detentore di finalità retributive e deterrenti,di una tradizionale funzione del risarcimento come ristorazione, reintegrazione nello status quo ante dell’offeso. Ma se fosse veramente così, e cioè se il risarcimento fosse sempre stato orfano di una idea punitiva-sanzionatoria,come si collocherebbe un primo embrione di danno punitivo che troviamo addirittura nel tardo impero,nella costituzione Si quis in tantam in cui si assiste ad un caso di inasprimento delle conseguenze derivanti dall’insinuazione violenta nel possesso altrui? Qui,leggendo tra le righe ben potremmo vedere nella sanzione comminata dall’imperatore,gli elementi costitutivi del danno punitivo:una condotta contra ius(occupazione violenta di beni posseduti da altri);la malice:animo di ledere l’altrui diritto;l’evento dannoso:il mancato godimento del bene posseduto;la risposta sanzionatoria direttamente inferta dall’alto:perdita del dominium,versamento di una somma pari al valore della res spossessata,restituzione della res in questione.
RispondiEliminaMARTA CUBISINO
Oggi a lezione abbiamo parlato della vicenda del divorzio tra Lotario ii e Teutberga. In particolare il riferimento era mirato ad evidenziare come l'azione di restituzio, la revestire, fosse applicata anche a casi, come quello in oggetto, in cui l'episodio attiene ad uno status piuttosto che alla proprietà di un bene materiale. Abbiamo ritenuto interessante approfondire i dettagli di questo divorzio che al tempo provocò tanto scalpore e altrettante trattazioni giuridiche e canoniche. Riportiamo quindi , sperando anche voi possiate trovarlo interessante , quanto rinvenuto a seguito di una piccola ricerca.
RispondiEliminaNell'855 Teoberga divenne regina di Lotaringia, avendo sposato Lotario II, figlio secondogenito dell'Imperatore d'Occidente (840-855) Lotario I [(795-† 855) e di Ermengarda di Tours (?-† 851).
Non essendo in grado di concepire un erede a Lotario II, da questi, nell'857, fu ripudiata[1] e rinchiusa in un monastero. Lo scopo di Lotario era quello di poter sposare Waldrada, la sua concubina, e di legittimare i figli avuti con costei. Il fratello di Teoberga, Uberto, abate di Saint Maurice de Valais, non gradì e, prese le armi, impose a Lotario di riprendersi la sorella (858).
Nel febbraio 860, Lotario convocò un concilio ad Aquisgrana (o Aix-la-Chapelle), dove di fronte ai vescovi di Lotaringia, la regina Teoberga confessò le sue colpe e fu condannata, per cui fu imprigionata, ma il sinodo non si pronunciò sulla possibilità del secondo matrimonio.
Qualche mese dopo il vescovo di Reims, Incmaro compose un voluminoso trattato, il De divorcio Lotharii et Teulbergae, in cui attaccò, da un punto di vista morale e legale, la condanna della regina pronunciata nel sinodo di Aix-la-Chapelle, che riuscì a coinvolgere nella contesa il re dei Franchi occidentali, Carlo il Calvo, che diede rifugio a Teoberga, che era riuscita a sottrarsi alla prigionia ed a suo fratello, Uberto che aveva dovuto abbandonare il Vallese e la Lotaringia.
Nell'862, con l'appoggio del fratello, l'imperatore, Ludovico II, e dello zio Ludovico II il Germanico, re dei Franchi orientali, Lotario II convocò un secondo concilio ad Aquisgrana, dove il sinodo dei vescovi annullò il matrimonio con Teoberga, per cui Lotario fu finalmente libero di sposare Waldrada. Il matrimonio fu celebrato nello stesso anno (862).
Teoberga, con l'appoggio di Carlo il Calvo e del vescovo di Reims, Incmaro, si appellò al papa Nicola I, perché annullasse il matrimonio di Waldrada con Lotario che si appellava anche lui al papa perché lo riconoscesse valido
Nello stesso anno (863), per volere del papa, fu convocato, a Metz, un sinodo di vescovi Franchi nel quale si confermò la validità del matrimonio tra Lotario e Waldrada, basandosi su un preteso matrimonio tra Lotario e Waldrada, precedente all'unione di lotario con Teoberga.
RispondiEliminaMa l'abate Uberto intervenne presso il Papa Nicola I che, venuto a conoscenza di ciò che era accaduto al sinodo, sconfessò i suoi legati e annullò le decisioni prese a Metz.
Gli zii di Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico II il Germanico, re dei franchi orientali, nell'865, si incontrarono a Tusey, nei pressi di Vaucouleurs, dove progettarono la spartizione del regno di Lotario, che spaventato si appellò al papa dichiarandosi disposto ad accettare ogni sua decisione.
Lotario, in cambio della garanzia che gli zii avrebbero rispettato l'integrità dei suoi domini, dovette richiamare nuovamente a corte Teoberga, che rientrò in Lotaringia accompagnata dal legato papale, Arsenio, che il 15 agosto 865 officiò una messa solenne di fronte alla coppia reale, che fu investita delle insegne della sovranità, mentre Waldrada, essendo state dichiarate nulle le sue nozze, fu costretta ad abbandonare la Lotaringia. Dopo poco però Waldrada rientrò in Lotaringia e venne scomunicata.
Il papa Nicola I morì il 13 novembre 867 ed il nuovo papa Adriano II, si mostrò più conciliante con Lotario e liberò immediatamente dalla scomunica Waldrada, allora Teoberga, stanca della situazione si disse disposta ad autoaccusarsi di fronte al papa, ma Adriano II rifiutò di riceverla, convinto della sua innocenza. Comunque il papa, nel 869, ricevette Lotario a Roma, dove gli diede una risposta positiva alle sue richieste. Lotario però, sulla strada del ritorno, l’8 agosto 869, morì nei pressi di Piacenza.
I figli di Lotario e Waldrada furono dichiarati bastardi e mentre gli zii Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, che avevano parecchi sostenitori tra la nobiltà della Lotaringia, poterono reclamare la successione, impossessandosi dei domini del nipote. L’anno seguente sancirono la spartizione col Trattato di Mersen.
FRANCESCA GUARICCI
VIRGINIA LOMBARDI
WANDA FRAU
Alcuni cenni biografici su Incmaro di Reims (806 – Épernay, 21 dicembre 882).
RispondiEliminaE' stato un teologo e filosofo francese, arcivescovo di Reims (Notre-Dame di Reims è la cattedrale di Reims, dove fino al 1825 vennero incoronati i re di Francia, a partire dal 987, quando il conte di Parigi Ugo Capeto iniziò la dinastia dei Capetingi fino all'incoronazione, nel 1825, di Carlo X). Destinato alla vita monastica, fu allevato a Saint-Denis sotto la direzione dell’abate Ilduino (divenuto abate nell'815 e poi nominato vescovo di Parigi intorno all’819 dall'imperatore Ludovico il Pio) che lo introdusse nell'822 alla corte dell'imperatore. Quando Ilduino cadde in disgrazia nell'830 per aver parteggiato per Lotario I, Incmaro lo accompagnò nell’esilio di Corvey in Sassonia, da dove tornarono insieme a Saint-Denis quando l’abate si riconciliò con l'imperatore rimanendogli fedele anche durante le lotte con i figli. Dopo la morte di Lodovico il Pio nell'840, Incmaro appoggiò Carlo il Calvo, ricevendone in cambio le abbazie di Nôtre-Dame a Compiègne e di Saint-Germer-de-Fly. Nel 845 ottenne dal re l'arcivescovado di Reims, a spese del suo predecessore Ebbone, deposto nell'835 nel sinodo di Thionville per aver infranto il patto di fedeltà con l'imperatore Lodovico, essendosi unito a Lotario. Dopo la morte di Lodovico, Ebbone rientrò nelle sue prerogative dall'840 all'844, finché papa Sergio II ne confermò la deposizione. Una delle sue prime iniziative fu quella di ottenere il ritorno alla sede arcivescovile dei beni che erano stati concessi ai laici da Ebbone. Incmaro fu sempre in conflitto con i chierici ordinati da Ebbone, l'ordinazione dei quali egli considerava illegittima. Questo conflitto pesò sul comportamento di Incmaro: nei successive trent'anni della sua vita egli giocò un ruolo preminente negli affari della chiesa e s'ingerì in quelli dello stato. Il suo primo scontro avvenne con il monaco Gotescalco, la cui teoria della predestinazione si richiamava alla dottrina del tardo Agostino. Incmaro la considerò eretica, ottenendo l'imprigionamento a vita di Gotescalco nell'849, per quanto quest’ultimo avesse ottenuto l'appoggio di Lupo Servato, di Floro di Lione, e del vescovo di Lione, Amolone. Gotescalco fu condannato nei concili di Quierzy, tenuto nell'853, di Valence nel 855, di Langres e di Savonnières, presso Toul, nell'859. Per contestare le tesi di Gotescalco, Incmaro compose una De praedestinatione Dei et libero arbitrio, e contro altre proposizioni avanzate da Gotescalco sulla Trinità la De una et non trina deitate. Altro problema di cui volle occuparsi fu il divorzio di Lotario II, re di Lotaringia, che aveva ripudiato la moglie Teutberga per sposare Waldrada. A questo riguardo compose nel 860 il De divorcio Lotharii et Teulbergae, in cui attaccò, da un punto di vista morale e legale, la condanna della regina pronunciata nel sinodo di Aix-la-Chapelle nel febbraio 860. Incmaro appoggiò anche la politica di Carlo il Calvo nei confronti della Lotaringia, della quale Carlo fu consacrato re a Metz nel 870. Nella metà del IX secolo una collezione di false decretali, le cosiddette Decretali dello Pseudo-Isidoro, elaborate molto probabilmente a Reims al tempo di papa papa Leone IV (847-855) e falsamente attribuite a Isidoro di Siviglia per dar loro la massima autorevolezza, assegnavano al papato una decisiva preminenza sui sinodi provinciali e sui singoli vescovi, il cui ufficio veniva altresì sottratto all'influsso dell'imperatore. In questo modo, il papa diveniva il capo assoluto della Chiesa e se i vescovi perdevano dignità di fronte a lui, venivano in compenso sottratti alla tutela del potere laico. Incmaro, particolarmente geloso della propria autorità, entrò presto in rotta di collisione con il vescovo di Soissons, Rotadio, nettamente a favore delle Decretali.
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RispondiEliminaUn ancor più serio conflitto insorse nell'876 tra Incmaro da una parte e Carlo il Calvo e il papa Giovanni VIII dall'altra, quando quest'ultimo, su richiesta dell'imperatore, concesse ad Ansegiso, arcivescovo di Sens, la primazia sulla Gallia e sulla Germania, creandolo vicario apostolico. Il fatto rappresentava, secondo Incmaro, una grave intromissione nei poteri giurisdizionali degli arcivescovi, come espresse nel suo scritto De jure metropolitanorum; nello stesso tempo scrisse una Vita di san Remigio, tentando di provare il primato della Chiesa di Reims su ogni altra chiesa francese e tedesca. Carlo il Calvo, tuttavia, fece riaffermare I diritti di Ansegiso nel sinodo di Ponthion. Nell'852 restaurò e ristrutturò ampiamente la cattedrale di Reims e la consacrò nuovamente. Nell'autunno dell'882 un’irruzione di Normanni lo costrinse a rifugiarsi a Épernay, dove morì alla fine dell'anno. L’Enciclopedia Cattolica attribuisce a Incmaro la leggenda della Santa Ampolla contenuta nella sua Vita di san Remigio. La figura di Incmaro è assai discutibile, basta studiare A. Fliche-V. Martin, Storia della Chiesa, per apprendere la sua lunga attività di falsario di documenti e decretali di diritto canonico o perlomeno di sfruttatore di falsi documenti di prepotente depositore del vescovo Ebbone dalla sua carica, in maniera anticanonica. Incmaro (pur se non è il compilatore di esse) si è riferito certamente alle false decretali sin dall’852 e se ne è servito per il suo potere personale. Papa Niccolo I entrò in conflitto con Incmaro attorno all’862, in quanto egli assai rigido con i suoi soggetti «non ammetteva resistenze dei suoi subalterni; ma l’idea di un potere superiore che intervenisse tra lui e i suoi vescovi, non mancava di ispirargli una certa ripugnanza». Lui poteva disubbidire al Papa, ma guai a chi disubbidiva a lui, “nihil sub sole novi”. Il fatto che l’arcivescovo di Reims fosse il depositario e custode dell’Ampolla portata dallo Spirito Santo a Remigio nel 498 o 499 a Reims, lo rendeva – come il re di Francia – “in un certo senso” indipendente dal Papa. Tutto il suo modo di agire nella controversia che ebbe con Roma fu un lungo temporeggiare, fatto di attestati teorici di obbedienza e dipendenza alla Sede Apostolica, mentre nei fatti continuava ad agire come se fosse il sovrano assoluto della sua arcidiocesi e della chiesa di Francia (data l’importanza di Reims, a causa della Santa Ampolla ivi ancora custodita, su tutta la Gallia).
Alessandro Serrani
Buona sera a tutti...
RispondiEliminaSono riuscita a trovare l'articolo del Professor Leo Peppe, citato oggi a lezione ed intitolato "RIFLESSIONI SULLA NOZIONE DI ‘IUSTITIA’NELLA TRADIZIONE GIURIDICA EUROPEA", 2006; utilizzando come mezzo di ricerca questo sito internet: www.dirittoestoria.it.
Ho cercato di fare un sunto.
Com’è stato possibile, nella cultura europea, arrivare dal romano cuique suum al motto nazista jedem das Seine apposto all’ingresso del lager di Buchenwald. Da ultimo si è posto, nel 2005, questa domanda lo storico olandese del diritto intermedio, Govaert van den Bergh, trovando la risposta nelle moderne concezioni razionalistiche e positivistiche del diritto.
Altri studiosi, come il filosofo tedesco del diritto Hermann Klenner, hanno ribadito la convinzione già kelseniana (e poi di Ernst Topitsch) circa il sintagma cuique suum che esso, così come jedem das Seine, di per se stesso non esprima in realtà un contenuto, ma sarebbe una formula vuota che di volta in volta lo riceve dai concreti ordinamenti. Analoga considerazione è stata espressa nel 2001 da Jutta Limbach, allora Presidente della Corte Costituzionale della RFT.
È di questo avviso anche Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista italiano, ex presidente della Corte Costituzionale, il quale nel novembre 2004, introducendo una sua riflessione sulla giustizia nel contesto delle “Lezioni Norberto Bobbio”, così scriveva: “Prendiamo la più famosa e comprensiva tra le formule della giustizia, l'unicuique suum tribuere, il” a ciascuno il suo” dei giureconsulti romani, o la sua riformulazione “tratta gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso”. Formule come queste possono essere accolte da chiunque. I campi di sterminio, per esempio, sono in regola con questa massima della giustizia. Il motto di benvenuto al campo di Buchenwald era, per l'appunto, jedem das Seine, a ciascuno il suo, … ”. Così Zagrebelsky.
L’accostamento tra il principio di diritto romano e il “motto” nazista appare a prima vista pienamente pertinente; essi sembrano due enunciati convergenti o addirittura sovrapponibili sia nella loro formulazione lessicale sia nel loro significato ultimo: in taluni autori è infatti esplicita l’ipotesi di un rapporto di discendenza l’uno dall’altro (sia pure con la consapevolezza della molteplicità di contesti nel tempo); in altri invece il motto di Buchenwald è utilizzato come momento di verifica (“per l’appunto”, dice Zagrebelsky) dell’interpretazione data alla formulazione costruita dai giureconsulti romani.
Questa utilizzazione di principi giuridici romani può apparire “continuista” oppure decontestualizzata: ma in realtà anche la decontestualizzazione è una forma di continuismo (sia pure realizzata attraverso l’atemporalità). Una siffatta utilizzazione può provocare nel giusromanista una reazione di cautela circa la legittimità della sovrapposizione e quindi della rappresentazione data; anche se forse in diritto romano si può trovare qualche testo che in effetti nella tradizione romanistica è stato utilizzato in quella direzione, il brocardo non è romano, è di origine sconosciuta (e piuttosto recente) e probabilmente deriva dall’adattamento ottocentesco di una regola di diritto canonico, in una complessa mediazione pandettistico/penalistica.
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RispondiEliminaNon è questo certo il caso di cuique suum, che ha una storia molto più documentata e sicura nelle sue origini romane. Vi è però un punto di stretto contatto con la problematica e il tempo che qui ci interessa; infatti il brocardo societas delinquere non potest è stato utilizzato nel processo di Norimberga dal difensore della Gestapo, Rudolf Merkel, che lo ha ricordato – attribuendolo appunto al diritto romano – al fine di sostenere l’impossibilità della responsabilità dell’organizzazione in quanto tale, perché la responsabilità penale può essere esclusivamente personale: non si tratta qui di un uso “nazista” di un principio di diritto romano, al contrario si tratta dell’uso – si potrebbe dire illuminista – di un principio asserito come dell’intera umanità e del diritto romano in particolare, a difesa del più indifendibile degli imputati, in un processo fortemente ispirato al diritto naturale.
In altri e più generali termini, in un contesto drammatico della storia europea i principi del diritto romano sembrano emergere, in vario modo, come un punto di riferimento ideale, nel bene e nel male; questo ruolo, che evidentemente è parte integrante della cultura europea (e non solo), deve però essere da una parte esaminato nel suo contesto di utilizzazione e dall’altra studiato nella sua portata originaria, con la miglior consapevolezza possibile di quanto è intercorso nel frattempo. Del resto, proprio nell’esperienza dell’area tedesca il diritto romano ha conosciuto ripetutamente i due estremi dell’adozione piena (dalla Rezeption alla Pandettistica) e del rifiuto più netto (da Lutero al nazismo).
La rappresentazione dei perseguitati dal nazismo, in primo luogo degli ebrei, nei termini della figura romana arcaica dell’homo sacer, cioè di esseri umani che sarebbero stati esclusi dalla sfera del diritto; questa rappresentazione è elaborata nell’opera di un filosofo italiano, Giorgio Agamben, sviluppatasi a partire dal suo volume del 1995 Homo sacer: una costruzione molto fortunata, anche al di fuori dell’Italia, ma che invece non ha incontrato fortuna presso i giusromanisti. Luigi Garofalo ha scritto nel 2005 un lungo saggio originato dalla ricostruzione di Agamben, dimostrando l’infondatezza di questo richiamo dell’esperienza giuridica romana da parte di Agamben.
Nell’ultimo decennio è stata rivolta ad alcuni giusromanisti l’accusa di neopandettismo: vi sarebbe stata cioè da parte loro la volontà di riproporre il diritto romano e soprattutto le sue categorie dogmatiche di origine ottocentesca come sostrato unificante di un nascente diritto europeo giurisprudenziale, con un’operazione che da una parte avrebbe dovuto coinvolgere gli studiosi di altre discipline giuridiche, in primo luogo i civilisti, dall’altra avrebbe dovuto far sorgere un nuovo polo egemone all’interno della romanistica italiana
Ciò premesso, il discorso può proseguire soffermandosi in primis su Jedem das Seine, il motto posto all’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald; il pensiero ovviamente va subito all’analogo e ben più noto motto Arbeit macht frei posto all’ingresso di Auschwitz. Qual è l’origine di questi motti? In estrema sintesi può dirsi che Arbeit macht frei nasce a Dachau: le ragioni non sono certe, ma il motto sembra trarre origine comunque da matrici ideologiche recenti.
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RispondiEliminaLa storia del campo inizia nel luglio del 1937; assai probabilmente nel febbraio/marzo del 1938 viene realizzato il motto Jedem das Seine.
Mancano dati certi idonei a spiegare la scelta di questo motto per questo (e solo questo) campo, in quel momento. Sono state fatte molte congetture, ma un dato è sicuro: a differenza del motto Arbeit macht frei, il motto Jedem das Seine ha nella storia del linguaggio e della cultura tedeschi una vicenda plurisecolare, complessa e articolata; certamente – negli strati più colti della società – corrisponde al cuique suum romano. Si può altresì ricordare che “suum cuique” era il motto del massimo ordine prussiano, “Der Hohe Orden von Schwarzen Adler”, fondato nel 1701 da Federico I di Prussia; oppure si ricordi che nella liturgia protestante uno dei canti è la Cantata BWV 163, Nur jedem das Seine, composta da J. S. Bach nel 1715, su testo di Salomo Franck, che aveva studiato diritto a Jena.
Alla fine del 1800 e primi anni del ‘900 Jedem das Seine è utilizzato nei contesti culturali più diversi: ad es., ricorre (1872 e 1892) in Nietzsche, nel 1901 nelle parole di un cabaret-lieder di Arnold Schönberg, nel 1904 è il titolo di un romanzo di intrattenimento di una nota scrittrice, Nataly von Eschstruth. Fortemente anticristiana è la poesia Jedem das Seine di Ludwig Fahrenkrog, pittore e poeta che nel 1900 abbandona il Cristianesimo; la prima traccia pubblica di un uso esplicitamente razzista del motto è in un articolo di Arthur Rosenberg nel nazista Völkischer Beobachter, del 14 sett. 1921, nel quale Rosenberg fa proprie le parole del pastore Ebert di Amburgo, in un contesto di discriminazione contrario agli Ebrei e di poco successivo al Programma del partito nazista (NSDAP) del 24 febbraio 1920; nel 1936, a Lipsia, viene pubblicato da un autore sconosciuto, Herbert Buhl, il libro ovviamente nazista Jedem das Seine (Suum cuique).
Si tratta pur sempre diritto, al di là dell’infame contenuto concreto del precetto: in questo senso Zagrebelsky ha alla fin fine ragione ricordando il motto di Buchenwald.
Ciò sul versante dell’età moderna, del motto Jedem das Seine, che evidentemente ormai ha perso qualsiasi riferibilità ad un’origine precisa e nei Paesi di lingua tedesca trova il suo significato fondamentale nella sua utilizzazione a Buchenwald. Ma cosa dire per quanto riguarda la formula romana unicuique suum tribuere ricordata da Zagrebelsky e da lui accostata al motto tedesco? A questo punto è già evidente come questa formula romana ricorra in due differenti versioni, in una appunto unicuique, nell’altra cuique.
Questa diversità lessicale potrebbe essere irrilevante, ma come è ben noto, è nelle piccole differenze che talvolta si può trovare la traccia di qualcosa di più importante. Non ci si sofferma qui sull’origine del cuique suum nella filosofia greca, con la sua concezione della giustizia distributiva, ciò che qui rilevano sono i testi romani, testi notissimi e studiatissimi. Alcuni di essi si trovano nella compilazione giustinianea, in posizione iniziale e perciò privilegiata.
Nei suddetti testi è centrale la dignitas dell’individuo, il valore dell’individuo nella società. Ma già nel De inventione la dignitas non è più il criterio dell’attribuzione, diventa una parola che riassume l’intera posizione individuale, anche se ovviamente rimane sempre una parola ancora profondamente romana e perciò adeguatamente evocativa della complessità dell’attribuzione.
Il passo successivo sarà l’eliminazione della menzione della dignitas: infatti, circa trent’anni dopo, in un tempo del tutto diverso della società romana e della vita di Cicerone, vi è una serie di testi ciceroniani: qui rimane solo il suum, ciò che è suo, aprendo una via che molti seguiranno, come Seneca o scrittori cristiani quali Agostino o Ambrogio.
Poi, più di due secoli dopo, vi sarà la ridefinizione dell’oggetto dell’attribuzione della iustitia da parte del giurista Ulpiano: non più la sua dignitas, non più il suum, ma il ius suum.
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RispondiEliminaUnicuique suum o cuique suum? quest’ultima – finora – apparsa assai ricorrente. In realtà ancora oggi la versione unicuique suum è utilizzata, in modo ben visibile: essa appare infatti nella testata de L’Osservatore romano, il giornale ufficiale della Santa Sede: a queste parole seguono le chiavi incrociate, il triregno (il copricapo extraliturgico solenne del Papa , abolito da Paolo VI) e, con gli stessi caratteri maiuscoli, non praevalebunt. Perché qui ricorre unicuique e non cuique?
Certamente anche unusquisque è lemma pienamente romano, pur se non appare utilizzato in frasi celebri (e risalenti); esso non ricorre – in particolare come unicuique – altresì in nessuno dei testi ed autori qui presi sinora in considerazione: in essi si trova sempre e solo cuique, con l’unica eccezione di Rhet. ad Her, che è anche l’unico testo nel quale in luogo di suum ricorre ius (ma non ius suum, il sintagma che ricorre invece nel Corpus iuris).
L’Osservatore romano. Questo giornale inizia ad uscire il 1° luglio 1861, i due motti vengono aggiunti successivamente nel n. 1 dell’anno seguente, dove si spiega che non praevalebunt è una citazione: Portae inferi non praevalebunt. Quanto all’unicuique suum, esso non viene ancorato ad una citazione ma viene spiegato calando la dimensione umana in quella dell’ordine naturale divino. I due motti sono uniti (“il nesso logico e morale che li congiunge in un solo concetto”) nella funzione di baluardo della Chiesa romana contro la rivoluzione, in primo luogo la “rivoluzione italiana”. C’è appena stata l’unificazione dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia.
In realtà unicuique suum è espressione che appartiene alla più profonda tradizione cristiana e cattolica, nella sua costruzione aristotelico-tomistica in particolare, ma non solo; più volte è stata utilizzata da papa Giovanni Paolo II.
Il punto fermo non può che essere Tommaso d’Aquino; in particolare, nella Summa Theologiae, è possibile rinvenire molti loci nei quali ricorre la terminologia che qui interessa.
In realtà è possibile procedere ulteriormente all’indietro nel tempo, nella tradizione cristiana; infatti unicuique ricorre costantemente in questo contesto di “attribuzione di ciò che è suum/ius suum” già in un anonimo monaco cistercense degli inizi del XIII sec. dell’abbazia di S. Maria della Ferrara a Vairano (in provincia di Caserta), in Abelardo, in Gregorio VII, ma in Isidoro di Siviglia, agli albori del Medio Evo, si ritrova cuique .
E’ evidente come ancora oggi i testi antichi siano letti nella forma unicuique dagli ecclesiastici. Particolarmente interessante è come ciò avvenga anche a proposito di un testo di Sant’Ambrogio, la cui edizione corretta è invece AMBROS. In sintesi conclusiva può dirsi che, poiché l’unico unicuique, del nostro contesto, di età romana sembra essere Rhet. ad Her (dove comunque però ricorre ius e non suum), appare plausibile che ci si trovi davanti ad una tradizione cristiana relativamente tarda, già formatasi nei secoli precedenti Tommaso e che nella sua opera risulta definitivamente acquisita.
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RispondiEliminaUnicuique suum o cuique suum? quest’ultima – finora – apparsa assai ricorrente. In realtà ancora oggi la versione unicuique suum è utilizzata, in modo ben visibile: essa appare infatti nella testata de L’Osservatore romano, il giornale ufficiale della Santa Sede: a queste parole seguono le chiavi incrociate, il triregno (il copricapo extraliturgico solenne del Papa , abolito da Paolo VI) e, con gli stessi caratteri maiuscoli, non praevalebunt. Perché qui ricorre unicuique e non cuique?
Certamente anche unusquisque è lemma pienamente romano, pur se non appare utilizzato in frasi celebri (e risalenti); esso non ricorre – in particolare come unicuique – altresì in nessuno dei testi ed autori qui presi sinora in considerazione: in essi si trova sempre e solo cuique, con l’unica eccezione di Rhet. ad Her, che è anche l’unico testo nel quale in luogo di suum ricorre ius (ma non ius suum, il sintagma che ricorre invece nel Corpus iuris).
L’Osservatore romano. Questo giornale inizia ad uscire il 1° luglio 1861, i due motti vengono aggiunti successivamente nel n. 1 dell’anno seguente, dove si spiega che non praevalebunt è una citazione: Portae inferi non praevalebunt. Quanto all’unicuique suum, esso non viene ancorato ad una citazione ma viene spiegato calando la dimensione umana in quella dell’ordine naturale divino. I due motti sono uniti (“il nesso logico e morale che li congiunge in un solo concetto”) nella funzione di baluardo della Chiesa romana contro la rivoluzione, in primo luogo la “rivoluzione italiana”. C’è appena stata l’unificazione dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia.
In realtà unicuique suum è espressione che appartiene alla più profonda tradizione cristiana e cattolica, nella sua costruzione aristotelico-tomistica in particolare, ma non solo; più volte è stata utilizzata da papa Giovanni Paolo II.
Il punto fermo non può che essere Tommaso d’Aquino; in particolare, nella Summa Theologiae, è possibile rinvenire molti loci nei quali ricorre la terminologia che qui interessa.
In realtà è possibile procedere ulteriormente all’indietro nel tempo, nella tradizione cristiana; infatti unicuique ricorre costantemente in questo contesto di “attribuzione di ciò che è suum/ius suum” già in un anonimo monaco cistercense degli inizi del XIII sec. dell’abbazia di S. Maria della Ferrara a Vairano (in provincia di Caserta), in Abelardo, in Gregorio VII, ma in Isidoro di Siviglia, agli albori del Medio Evo, si ritrova cuique .
E’ evidente come ancora oggi i testi antichi siano letti nella forma unicuique dagli ecclesiastici. Particolarmente interessante è come ciò avvenga anche a proposito di un testo di Sant’Ambrogio, la cui edizione corretta è invece AMBROS. In sintesi conclusiva può dirsi che, poiché l’unico unicuique, del nostro contesto, di età romana sembra essere Rhet. ad Her (dove comunque però ricorre ius e non suum), appare plausibile che ci si trovi davanti ad una tradizione cristiana relativamente tarda, già formatasi nei secoli precedenti Tommaso e che nella sua opera risulta definitivamente acquisita.
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RispondiEliminaProbabilmente non è però una forzatura trovare in questa formulazione unicuique suum qualcosa di più e diverso rispetto alla tradizione (sia pure con qualche incertezza) cuique suum delle scuole civilistiche, una diversa valenza semantica (nel contesto della tradizione cristiana e poi cattolica, ormai, come si potrebbe evincere dall’uso invece tradizionale in Melantone, nel 1543): se in cuique suum il suum è ciò che spetta, in unicuique quod suum est il suum è ciò che è già suum, il diritto ne prende atto, ne prende le difese, la iustitia è, come dice più volte Tommaso D’Aquino, actus iustitiae oppure, prima ancora, qua recte iudicando sua cuique distribuunt; non a caso si legge appunto non praevalebunt – insieme con UNICUIQUE SUUM – nella testata de L’Osservatore romano.
Inoltre,in primo luogo la dizione unicuique è comunque assai diffusa; a partire da qualche edizione della Glossa ordinaria. In secondo luogo, in relazione a questa plausibile tradizione ‘ecclesiastico/romana’, un testo che sembra assai interessante per la sua originalità è un provvedimento giurisdizionale (un investimentum) del Senato Romano del 1162 d. C. che si può inserire nel quadro della prima fase della storia del senato romano medievale e inizia con la seguente formula: Nos senatores pro iustitia cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio costituti. Il Senato romano in questo caso è chiamato a decidere della controversia circa la proprietà della chiesetta di S. Nicola ai piedi della Colonna Traiana tra il presbitero della chiesa Angelo e la badessa di San Ciriaco in Via Lata. Il Senato attribuisce la chiesa e la colonna alla badessa, ma salvo honore publico urbis: infatti al contempo la colonna deve essere preservata così com’è in eterno ad honorem ipsius ecclesie et totius populi Romani finchè mundus durat, sic eius stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ultimum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur. Vengono così tutelati l’interesse privato e l’utilità pubblica e con anticipatrice consapevolezza dell’importanza oggi attribuita ai “beni culturali” privati ed alla loro conservazione.
L’affermazione della inadeguatezza della ‘formula’ è un dato ricorrente nella teoria generale del diritto, non da oggi: è sufficiente ricordare la critica kelseniana al suum cuique come tautologica riduzione (“inhaltsleer“) del diritto di ciascuno all’ordinamento giuridico positivo che ne costituisce il presupposto. Ma già Spinoza, in modo esemplare, diceva che, proprio perché in natura il diritto di ciascuno alla fin fine è funzione ed espressione del suo potere, può dirsi che il ius suum di ciascuno non può esistere nello stato di natura, bensì solo nello stato civile: è la feroce similitudine dei pesci nel Trattato teologico-politico: pisces summo naturali iure aqua potiuntur, et magni minores comedunt.
Insomma, la ‘formula’, in sé considerata, avulsa da un qualsiasi punto di riferimento, si esaurisce nel diritto positivo, in qualsiasi diritto positivo. Si potrebbe anche affermare che mai sarebbe stato possibile porre cuique suum/jedem das Seine all’ingresso di Buchenwald se, come canta Bach, c’è Dio a cui guardare e l’uomo non è solo con Cesare: ma le concrete vicende della storia non confortano quest’affermazione. Al tempo stesso, è possibile un’alternativa laica, un punto di riferimento laico che impedisca la riduzione del cuique suum e del diritto al diritto positivo? È ciò che cercano tutti coloro che aspirano a collegare norme e valori, anche oggi.
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RispondiEliminaProbabilmente non è però una forzatura trovare in questa formulazione unicuique suum qualcosa di più e diverso rispetto alla tradizione (sia pure con qualche incertezza) cuique suum delle scuole civilistiche, una diversa valenza semantica (nel contesto della tradizione cristiana e poi cattolica, ormai, come si potrebbe evincere dall’uso invece tradizionale in Melantone, nel 1543): se in cuique suum il suum è ciò che spetta, in unicuique quod suum est il suum è ciò che è già suum, il diritto ne prende atto, ne prende le difese, la iustitia è, come dice più volte Tommaso D’Aquino, actus iustitiae oppure, prima ancora, qua recte iudicando sua cuique distribuunt; non a caso si legge appunto non praevalebunt – insieme con UNICUIQUE SUUM – nella testata de L’Osservatore romano.
Inoltre,in primo luogo la dizione unicuique è comunque assai diffusa; a partire da qualche edizione della Glossa ordinaria. In secondo luogo, in relazione a questa plausibile tradizione ‘ecclesiastico/romana’, un testo che sembra assai interessante per la sua originalità è un provvedimento giurisdizionale (un investimentum) del Senato Romano del 1162 d. C. che si può inserire nel quadro della prima fase della storia del senato romano medievale e inizia con la seguente formula: Nos senatores pro iustitia cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio costituti. Il Senato romano in questo caso è chiamato a decidere della controversia circa la proprietà della chiesetta di S. Nicola ai piedi della Colonna Traiana tra il presbitero della chiesa Angelo e la badessa di San Ciriaco in Via Lata. Il Senato attribuisce la chiesa e la colonna alla badessa, ma salvo honore publico urbis: infatti al contempo la colonna deve essere preservata così com’è in eterno ad honorem ipsius ecclesie et totius populi Romani finchè mundus durat, sic eius stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ultimum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur. Vengono così tutelati l’interesse privato e l’utilità pubblica e con anticipatrice consapevolezza dell’importanza oggi attribuita ai “beni culturali” privati ed alla loro conservazione.
L’affermazione della inadeguatezza della ‘formula’ è un dato ricorrente nella teoria generale del diritto, non da oggi: è sufficiente ricordare la critica kelseniana al suum cuique come tautologica riduzione (“inhaltsleer“) del diritto di ciascuno all’ordinamento giuridico positivo che ne costituisce il presupposto. Ma già Spinoza, in modo esemplare, diceva che, proprio perché in natura il diritto di ciascuno alla fin fine è funzione ed espressione del suo potere, può dirsi che il ius suum di ciascuno non può esistere nello stato di natura, bensì solo nello stato civile: è la feroce similitudine dei pesci nel Trattato teologico-politico: pisces summo naturali iure aqua potiuntur, et magni minores comedunt.
Insomma, la ‘formula’, in sé considerata, avulsa da un qualsiasi punto di riferimento, si esaurisce nel diritto positivo, in qualsiasi diritto positivo. Si potrebbe anche affermare che mai sarebbe stato possibile porre cuique suum/jedem das Seine all’ingresso di Buchenwald se, come canta Bach, c’è Dio a cui guardare e l’uomo non è solo con Cesare: ma le concrete vicende della storia non confortano quest’affermazione. Al tempo stesso, è possibile un’alternativa laica, un punto di riferimento laico che impedisca la riduzione del cuique suum e del diritto al diritto positivo? È ciò che cercano tutti coloro che aspirano a collegare norme e valori, anche oggi.
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RispondiEliminaA questo punto il discorso qui si ferma, con un’ultima osservazione: come si è visto, la ‘formula’ cuique suum nelle fonti romane ricorre sia isolatamente sia all’interno di una triade di regole, affiancandosi all’alterum non laedere ed all’honeste vivere. Le tre regole possono essere considerate separatamente, ma anche unitariamente, almeno con la forza enorme di un modello tralatizio imprescindibile, fino a potersi porre come i tre indispensabili praecepta di un ius che non sarebbe più tale se solo uno dei tre fosse mancante. Si potrebbero fare molti esempi, il Leibniz della Nova Methodus e il Kant de Die Metaphysik der Sitten. In particolare, nella Rechtslehre Kant individua nei tre praecepta ulpianei (da lui espressamente ricordati ma riformulati) i Rechtspflichte; si deve entrare nello stato civile perché solo in esso è legalmente determinato ciò che per ognuno è suo; è “il potere giudiziario (che assegna a ciascuno secondo la legge) nella persona del giudice”.
Ritornando alle fonti romane, com’è ovvio, sui testi giuridici, i giusromanisti hanno sempre discusso, con esiti molto diversificati, per differenti ragioni, ma soprattutto per il ruolo, comunque venga inteso, assolutamente centrale attribuito ai giuristi in quei testi: una tradizione di legittimazione che arriverà fino all’età moderna, nell’Europa continentale coniugando nelle fortune e nelle disgrazie la figura del giurista professionale con l’uso del diritto romano; vi è anche da chiedersi quanto abbia inciso nello studio di questi testi la proiezione su di essi di una concezione formale, “isolata” (alla Schulz) ed autoreferenziale della scienza del diritto, e persistente ancora oggi (senza soluzione di continuità rispetto a ieri) da una parte nella ricostruzione dell’esperienza giuridica romana dall’altra nella riflessione giuspositivistica.
Quanto agli iuris praecepta vi è stato chi ha ritenuto che Ulpiano riassume “positivamente i fondamenti della convivenza civile, gli iuris praecepta”; all’opposto alcuni li riducono al rango di “Leerformeln”, mere enunciazioni; infine, una posizione mediana colloca sul piano delle enunciazioni di principio sia l’alterum non laedere sia l’honeste vivere, affermando invece la validità (in senso giuridico) della regola suum cuique proprio per il ruolo del giurista nel sistema romano di produzione del diritto.
Sembra che con queste espressioni il diritto romano non descrive “des droits, mais des statuts”. E, se si accetta questa conclusione, questo può essere probabilmente uno dei punti di maggiore diversità tra la valenza romana della ‘formula’ (il rapporto tra il quisque e il tutto) rispetto a quella moderna (il rapporto tra i singoli soggetti rispetto al tutto), anche se la forza dell’uso attuale può portare ad appiattire la differenza a favore della concezione più recente.
In questa prospettiva, il suum cuique romano non ha alcun contenuto di giustizia in termini di valori o, tanto meno, di diritti umani; ma, soprattutto, non ha come punto di riferimento il suum (un contenuto meritevole di tutela) che spetta ad un individuo, in quanto tale astratto portatore di diritti (nella versione più compiuta: tra eguali): né, del resto, la società romana (la sua filosofia, il suo diritto) poteva dis/tribuere il suum in questa prospettiva strettamente individualistica, una rivoluzione dell’età moderna e prima ancora, si deve ricordarlo a fronte di recentissime polemiche italiane, del soggettivismo cristiano.
Ed infatti ius e iustitia agli inizi del Digesto giustinianeo non sono distinti (con la significativa inversione nell’etimologia di ius, che viene fatto derivare da iustitia), bensì unificati nell’unitario ambito del bonum et aequum: il diritto deriva dalla giustizia, la giustizia non è un mondo di valori ma un parametro, un criterio, “coltivato” dai giuristi. Si è all’opposto del pensiero del glossatore Piacentino, che recide il rapporto tra ius e iustitia: author iuris homo, iustitiae Deus; quel Piacentino che aveva ben presente il rapporto tra giuristi e potere politico.
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RispondiEliminaA questo punto il discorso qui si ferma, con un’ultima osservazione: come si è visto, la ‘formula’ cuique suum nelle fonti romane ricorre sia isolatamente sia all’interno di una triade di regole, affiancandosi all’alterum non laedere ed all’honeste vivere. Le tre regole possono essere considerate separatamente, ma anche unitariamente, almeno con la forza enorme di un modello tralatizio imprescindibile, fino a potersi porre come i tre indispensabili praecepta di un ius che non sarebbe più tale se solo uno dei tre fosse mancante. Si potrebbero fare molti esempi, il Leibniz della Nova Methodus e il Kant de Die Metaphysik der Sitten. In particolare, nella Rechtslehre Kant individua nei tre praecepta ulpianei (da lui espressamente ricordati ma riformulati) i Rechtspflichte; si deve entrare nello stato civile perché solo in esso è legalmente determinato ciò che per ognuno è suo; è “il potere giudiziario (che assegna a ciascuno secondo la legge) nella persona del giudice”.
Ritornando alle fonti romane, com’è ovvio, sui testi giuridici, i giusromanisti hanno sempre discusso, con esiti molto diversificati, per differenti ragioni, ma soprattutto per il ruolo, comunque venga inteso, assolutamente centrale attribuito ai giuristi in quei testi: una tradizione di legittimazione che arriverà fino all’età moderna, nell’Europa continentale coniugando nelle fortune e nelle disgrazie la figura del giurista professionale con l’uso del diritto romano; vi è anche da chiedersi quanto abbia inciso nello studio di questi testi la proiezione su di essi di una concezione formale, “isolata” (alla Schulz) ed autoreferenziale della scienza del diritto, e persistente ancora oggi (senza soluzione di continuità rispetto a ieri) da una parte nella ricostruzione dell’esperienza giuridica romana dall’altra nella riflessione giuspositivistica.
Quanto agli iuris praecepta vi è stato chi ha ritenuto che Ulpiano riassume “positivamente i fondamenti della convivenza civile, gli iuris praecepta”; all’opposto alcuni li riducono al rango di “Leerformeln”, mere enunciazioni; infine, una posizione mediana colloca sul piano delle enunciazioni di principio sia l’alterum non laedere sia l’honeste vivere, affermando invece la validità (in senso giuridico) della regola suum cuique proprio per il ruolo del giurista nel sistema romano di produzione del diritto.
Sembra che con queste espressioni il diritto romano non descrive “des droits, mais des statuts”. E, se si accetta questa conclusione, questo può essere probabilmente uno dei punti di maggiore diversità tra la valenza romana della ‘formula’ (il rapporto tra il quisque e il tutto) rispetto a quella moderna (il rapporto tra i singoli soggetti rispetto al tutto), anche se la forza dell’uso attuale può portare ad appiattire la differenza a favore della concezione più recente.
In questa prospettiva, il suum cuique romano non ha alcun contenuto di giustizia in termini di valori o, tanto meno, di diritti umani; ma, soprattutto, non ha come punto di riferimento il suum (un contenuto meritevole di tutela) che spetta ad un individuo, in quanto tale astratto portatore di diritti (nella versione più compiuta: tra eguali): né, del resto, la società romana (la sua filosofia, il suo diritto) poteva dis/tribuere il suum in questa prospettiva strettamente individualistica, una rivoluzione dell’età moderna e prima ancora, si deve ricordarlo a fronte di recentissime polemiche italiane, del soggettivismo cristiano.
Ed infatti ius e iustitia agli inizi del Digesto giustinianeo non sono distinti (con la significativa inversione nell’etimologia di ius, che viene fatto derivare da iustitia), bensì unificati nell’unitario ambito del bonum et aequum: il diritto deriva dalla giustizia, la giustizia non è un mondo di valori ma un parametro, un criterio, “coltivato” dai giuristi. Si è all’opposto del pensiero del glossatore Piacentino, che recide il rapporto tra ius e iustitia: author iuris homo, iustitiae Deus; quel Piacentino che aveva ben presente il rapporto tra giuristi e potere politico.
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RispondiEliminaLe riflessioni appena svolte mostrano la complessità e problematicità di qualsiasi tentativo di ricostruzione della storia del pensiero romano su questo tema e costituiscono in una certa misura lo sfondo necessario sul quale leggere la “vera philosophia”; ma con la consapevolezza che nello stesso pensiero romano devono essere rintracciati due diversi e successivi momenti: il primo, quello del suum cuique della società dei signori, diversi per dignitas, dell’età repubblicana; il secondo quello del suum cuique dei cives tutti uguali, ma subiecti, cioè sudditi, dell’età imperiale.
Di conseguenza Ulpiano (e con lui la compilazione giustinianea) potrebbe venire a collocarsi in questa nuova concezione della iustitia, per la quale è oggetto il suum; ma Ulpiano è giurista e la definizione di iustitia per lui non sarebbe tale se non contenesse il riferimento al diritto, tanto più che da una parte ius deriva da iustitia, dall’altra ius può essere collegato alla iustitia rappresentata come aequitas (altro termine fondamentale del ius civile).
Vi sono poi i tre iuris praecepta, per i quali si individuano tre ambiti di azione umana, dei quali solo il terzo è suum cuique tribuere. Non ius suum cuique, ma ciò è ovvio se si guarda alla finalità secondo la quale e per la quale è costruita la frase, indicare le tre regole “auree” del diritto: esse per definizione possono avere per oggetto solo una situazione giuridica. Questa conclusione rende inutile la ripetizione di ius in ius suum ed attrae pienamente nella sfera giuridica gli altri due precetti; anzi, in questa prospettiva, ripetere ius avrebbe impoverito la forza giuridica degli altri praecepta.
Nel pensiero cristiano si può rintracciare una riflessione simile a quella ulpianea, ma differente però per molti aspetti.
I motivi di interesse sono più d’uno, anche se il confronto con il De officiis ciceroniano mostra una semplificazione problematica.
In primo luogo i tre praecepta sono riferiti alla iustitia e non al ius, con un’abbreviazione significativa del percorso argomentativo.
In secondo luogo, dato di notevole interesse, si può riscontrare con evidenza un’articolazione su tre praecepta, ma con alcune rilevanti differenze rispetto ai testi giustinianei: il suum cuique ricorre per primo, l’honeste vivere è sostituito con la centralità della communis aequitas, infine l’alterum non laedere è a sua volta sostituito con alienum non vindicat. Particolarmente interessante appare anche quest’ultimo punto perché il principio dell’alterum non laedere viene invece rappresentato nella sua piena giuridicità.
In Ambrogio vi è già forse una maggiore tensione verso comportamenti concreti, aprendo così la strada verso la iustitia come actus iustitiae in Tommaso (e nell’intero pensiero cristiano): Proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est.
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(Chiedo scusa se stessi post compaiono più volte)
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RispondiEliminaLe riflessioni appena svolte mostrano la complessità e problematicità di qualsiasi tentativo di ricostruzione della storia del pensiero romano su questo tema e costituiscono in una certa misura lo sfondo necessario sul quale leggere la “vera philosophia”; ma con la consapevolezza che nello stesso pensiero romano devono essere rintracciati due diversi e successivi momenti: il primo, quello del suum cuique della società dei signori, diversi per dignitas, dell’età repubblicana; il secondo quello del suum cuique dei cives tutti uguali, ma subiecti, cioè sudditi, dell’età imperiale.
Di conseguenza Ulpiano (e con lui la compilazione giustinianea) potrebbe venire a collocarsi in questa nuova concezione della iustitia, per la quale è oggetto il suum; ma Ulpiano è giurista e la definizione di iustitia per lui non sarebbe tale se non contenesse il riferimento al diritto, tanto più che da una parte ius deriva da iustitia, dall’altra ius può essere collegato alla iustitia rappresentata come aequitas (altro termine fondamentale del ius civile).
Vi sono poi i tre iuris praecepta, per i quali si individuano tre ambiti di azione umana, dei quali solo il terzo è suum cuique tribuere. Non ius suum cuique, ma ciò è ovvio se si guarda alla finalità secondo la quale e per la quale è costruita la frase, indicare le tre regole “auree” del diritto: esse per definizione possono avere per oggetto solo una situazione giuridica. Questa conclusione rende inutile la ripetizione di ius in ius suum ed attrae pienamente nella sfera giuridica gli altri due precetti; anzi, in questa prospettiva, ripetere ius avrebbe impoverito la forza giuridica degli altri praecepta.
Nel pensiero cristiano si può rintracciare una riflessione simile a quella ulpianea, ma differente però per molti aspetti.
I motivi di interesse sono più d’uno, anche se il confronto con il De officiis ciceroniano mostra una semplificazione problematica.
In primo luogo i tre praecepta sono riferiti alla iustitia e non al ius, con un’abbreviazione significativa del percorso argomentativo.
In secondo luogo, dato di notevole interesse, si può riscontrare con evidenza un’articolazione su tre praecepta, ma con alcune rilevanti differenze rispetto ai testi giustinianei: il suum cuique ricorre per primo, l’honeste vivere è sostituito con la centralità della communis aequitas, infine l’alterum non laedere è a sua volta sostituito con alienum non vindicat. Particolarmente interessante appare anche quest’ultimo punto perché il principio dell’alterum non laedere viene invece rappresentato nella sua piena giuridicità.
In Ambrogio vi è già forse una maggiore tensione verso comportamenti concreti, aprendo così la strada verso la iustitia come actus iustitiae in Tommaso (e nell’intero pensiero cristiano): Proprius actus iustitiae nihil est aliud quam reddere unicuique quod suum est.
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RispondiEliminaIn conclusione, la storia degli usi di cuique suum (e unicuique suum) potrebbe essere la migliore prova del fatto che questa formula non ha un suo costante e definito contenuto concreto, tale da predeterminarne e circoscriverne gli effetti. Si tratta di una regola destinata ad operare in modo relativo (insieme con altre regole che ne circoscrivono l’ambito), funzionale rispetto all’ordinamento nel quale essa è inserita. Perciò non si potrebbe arrivare a dire che il diritto nazista è stato orrendo in conseguenza dell’adozione di una concezione della giustizia come Jedem das Seine, è stato orrendo perché per esso alcune categorie di individui dovevano essere sterminate.
Potrebbe, alla fin fine, sorgere il dubbio che ci si trovi davanti ad un ‘falso amico’ lessicale, che cioè siano accostati due sintagmi per i quali la traduzione tedesca (ma anche italiana, francese, etc.) è fedele all’originale latino, ma solo alla lettera. In realtà il cuique suum della giustizia distributiva romana al singolo civis ha conservato in alcuni contesti dell’età moderna tale significato originario, ma prevalentemente è diventato ciò che spetta a ciascuno in ragione della sua individualità di essere umano, per diritto naturale, umano o divino e in un determinato ordinamento giuridico, con le sue norme fondamentali (non uccidere, etc.): è rispetto a questo secondo significato della formula che l’uso del motto a Buchenwald appare incredibile e insopportabile. Le vicende di questa famosa “formula della giustizia” ne hanno mostrato tutta la storicità e in questo modo ne fanno un costante termine di riferimento per valutare costruzioni filosofiche, teorie giuridiche, ideologie politiche intorno alla nozione di giustizia.
Eleonora Cannatà
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RispondiEliminaIn conclusione, la storia degli usi di cuique suum (e unicuique suum) potrebbe essere la migliore prova del fatto che questa formula non ha un suo costante e definito contenuto concreto, tale da predeterminarne e circoscriverne gli effetti. Si tratta di una regola destinata ad operare in modo relativo (insieme con altre regole che ne circoscrivono l’ambito), funzionale rispetto all’ordinamento nel quale essa è inserita. Perciò non si potrebbe arrivare a dire che il diritto nazista è stato orrendo in conseguenza dell’adozione di una concezione della giustizia come Jedem das Seine, è stato orrendo perché per esso alcune categorie di individui dovevano essere sterminate.
Potrebbe, alla fin fine, sorgere il dubbio che ci si trovi davanti ad un ‘falso amico’ lessicale, che cioè siano accostati due sintagmi per i quali la traduzione tedesca (ma anche italiana, francese, etc.) è fedele all’originale latino, ma solo alla lettera. In realtà il cuique suum della giustizia distributiva romana al singolo civis ha conservato in alcuni contesti dell’età moderna tale significato originario, ma prevalentemente è diventato ciò che spetta a ciascuno in ragione della sua individualità di essere umano, per diritto naturale, umano o divino e in un determinato ordinamento giuridico, con le sue norme fondamentali (non uccidere, etc.): è rispetto a questo secondo significato della formula che l’uso del motto a Buchenwald appare incredibile e insopportabile. Le vicende di questa famosa “formula della giustizia” ne hanno mostrato tutta la storicità e in questo modo ne fanno un costante termine di riferimento per valutare costruzioni filosofiche, teorie giuridiche, ideologie politiche intorno alla nozione di giustizia.
Eleonora Cannatà
Ragazzi, devo ammettere che siete tutti davvero dei fenomeni, visto che non faccio in tempo a pensare ad un argomento da approfondire che già lo trovo postato sul blog!!
RispondiEliminaOggi a lezione abbimo ritirato fuori dal corso di diritto romano, il discorso che pochi si ricordavano sul postliminium (questo argomento facilmente si ricollega al fatto che nell’alto medioevo la giustizia non deve dare “a ciascuno il suo”, ma deve solo rivestire e reintegrare, per questo è stato per molto tempo sovrapposto al possesso e di conseguenza contrapposto alla Gewere.) Esso era diffusamente utilizzato nell’epoca romana fino ad arrivare al medioevo.
Uno dei casi di perdita di personalità è la perdita dello status libertatis. Quando qualcuno veniva catturato durante una battaglia, questi, era ridotto in schiavitù: giuridicamente perdeva ogni capacità, la cittadinanza e la condizione sui generis (ammesso che la possedesse). Tutti i diritti o doveri che gli facevano capo prima della cattura subiscono una sospensione della prescrizione in attesa venisse sciolta la situazione di incertezza nella quale si ignorava la condizione del presunto schiavo. In pratica, non si sapeva se tizio era riuscito a liberarsi dalla schiavitù e stava tentando un ritorno in patria. Questa sospensione (che si estingueva al momento del ritorno dello schiavo perché ritornava in possesso della sua condizione giuridica) era legittimata dal diritto romano in base allo ius postliminium ed è data dal fatto che il diritto è solo una semplice astrazione concettuale per cui era possibile ipotizzarne una sospensione suscettibile di attivazione successiva, di riviviscenza. I romani che venivano fatti schiavi perdevano lo status di cittadini, che potevano riacquistare soltanto con il ritorno in patria. Era previsto anche il riscatto (redemptio ad hostibus) ad opera di privati o da parte dello stato.
Le cose o gli uomini passati in mano allo straniero sono irrimediabilmente perduti, e non è possibile il riacquisto dei diritti sopra di essi che per postliminium. La richiesta di restituzione è una vera e propria pretesa giuridica. In tal caso non è ammissibile nessuna pretesa alla restituzione, perché tale pretesa mancherebbe di fondamento giuridico, ed il popolo che si rifiutasse di acconsentirvi non potrebbe esser dichiarato « iniustus ».
Il possedere è un comportamento di fatto. Non è suscettibile di sospensione, quando un soggetto viene ridotto in stato di cattività egli perde ogni diritto di possesso sui suoi beni.
Nel medioevo raramente venivano fatti prigionieri; questi non erano mai in numero rilevante quindi potevano essere uccisi o più generalmente resi inoffensivi attraverso la mutilazione di arti inferiori o superiori o attraverso l’accecamento, nelle guerre di breve durata e quando ciò era possibile potevano anche essere semplicemente incarcerati al fine di essere scambiati benché tale ultima pratica era molto rara. Le repubbliche marinare impiegavano i prigionieri di guerra slavi come schiavi nelle galere (il termine schiavo deriva appunto da “slav” = slavo ed il nome dell’imbarcazione è tuttora usato come sinonimo di carcere) mentre in seguito, nelle guerre marittime, gli sconfitti a parte talvolta gli ufficiali venivano semplicemente buttati a mare e perciò destinati a morte sicura.
continua..
Francesca Finocchi
Riguado sempre al periodo medioevale, Voet , nel suo “de iure militari”, presta molta attenzione alla categoria di bellum civile, il quale condanna l’insensata crudeltà della stessa. Si trattava di una tematica che aveva costituito un aspetto importante della dottrina medievale della guerra giusta che proprio questo aveva teso a precisare: l'uso illegittimo della forza non costituiva titolo. Ma non è ad essa che Voet si richiama, egli piuttosto cita anzitutto la lex ulpianea si quis ingenuam (secondo cui i soldati catturati durante una guerra civile non potevano diventare schiavi dei vincitori, né potevano usufruire dei diritti di postliminium). Quindi in questo caso la “finzione” del diritto, che consentiva allo “schiavizzato” di riottenere il suo genus, in questo caso non viene applicato.
RispondiEliminaSeguendo le dottrine della scuola spagnola di Salamanca, Grozio affermava che non potevano essere ridotti a schiavi i prigionieri di guerra cristiani; “Mansit tamen etiam inter chistianos mos captos custodiendi donec persolutum sit pretium cuius eastimatio in arbitrio est victoris: nisi certi aliquid convenerit”.
Gli unici prigionieri di guerra che venivano incarcerati e quindi trattenuti, a partire dai secoli più recenti erano gli ufficiali o comunque i prigionieri di guerra nobili o ricchi o comunque di spicco e la ragione era chiaramente l’ottenere un riscatto in danaro.
Ciò è esplicitamente detto nel testo del digesto D. 49. 15. 19 § 3.
Postliminium est ius amissae rei recipiendae ab extraneo, et in statum pristinum restituendae, inter nos ac liberos populos regesque, moribus, le gibus constitutum. Nam quod bello amisimus, aut etiam, citra bellum : hoc si rursus recipiamus, dicimur postliminio recipere. Idque naturali aequitate introductum est, ut, qui per iniuriam ab extraneis detinebatur, i subi in fines suos rediisset, pristinum ius suum reciperet.
3. Post liminio redissevidetur cum in fines nostros excessit. Sed et in civitatem sociam amicamve, aut ad regem socium vel amicum venerit, statim postliminio rediisse videtur quia ibi primum nominee pubblico tutus esse incipiat.
Traduzione:
Il postliminio è un diritto di riprendere dalle mani di un estraneo una cosa perduta e di rimetterla nel pristino stato, così pattuito tra noi e popoli liberi e per consuetudini e leggi; perché quanto perdemmo per guerra, o ben’anche senza di questa, se lo riprendiamo di nuovo si dice di riprenderlo per postliminio. E ciò fu introdotto per equità naturale, talché colui che per sopruso era detenuto da estranei, tosto che fosse nei suoi confini ritornato, riprenderebbe i suoi primieri diritti.
3. Sembra di essere ritornato per postliminio quando sia entrato nei nostri confini siccome si perde laddove dai nostri confini cessi. Ma se venne in una città alleata ovvero amica, ovvero presso di un re alleato o amico, sembra, che sull’ istante sia ritornato per postliminio: perché ivi per la prima volta comincia ad essere in sicurezza a nome pubblico.
continua..
Francesca Finocchi
Postliminii ius competit aut in bello aut in pace.(Pomponius lib. 37 ad Quintum Mucium)
RispondiElimina§.1. In bello, cumhi qui nobis hostes sunt, aliquem ex nostris ceperunt, et intra presidia sua perduxerunt: nam si eodem bello is reversus fuerit, posliminium habet, id est prende omnia restituuntur ei iura, ac si caplus ab hostibus non esset: antequam in presidia preducatur hostium, manet civis: tunc autem reversus intelligitur, si aut ad amicos nostros perveniat, aut intra presidia nostra esse coepit.
§.2. In pace quoque postliminium datum est: nam si cum gente aliqua neque amicitiam neque hospitium neque foedus amicitiae causa factum habemus: hi hostes quidam non sunt: quod autem ex nostro ad eos pervenit, illorum fit, et liber Homo noster ab eis captus servus fit et eorum. Idemque est, si ab illis ad nos aliquid perveniat. Hoc quoque igitur casu postliminium datum est.
Postliminii ius competit aut in bello aut in pace.(Pomponius lib. 37 ad Quintum Mucium)
1. In bello, cumhi qui nobis hostes sunt, aliquem ex nostris ceperunt, et intra presidia sua perduxerunt: nam si eodem bello is reversus fuerit, posliminium habet, id est prende omnia restituuntur ei iura, ac si caplus ab hostibus non esset: antequam in presidia preducatur hostium, manet civis: tunc autem reversus intelligitur, si aut ad amicos nostros perveniat, aut intra presidia nostra esse coepit.
2. In pace quoque postliminium datum est: nam si cum gente aliqua neque amicitiam neque hospitium neque foedus amicitiae causa factum habemus: hi hostes quidam non sunt: quod autem ex nostro ad eos pervenit, illorum fit, et liber Homo noster ab eis captus servus fit et eorum. Idemque est, si ab illis ad nos aliquid perveniat. Hoc quoque igitur casu postliminium datum est.
Traduzione :
Il diritto di postliminio compete in guerra o in pace. (Pomponio nel libro 37 a Quinto Mucio)
1. In guerra quando coloro, i quali sono nostri nemici, presero alcuno dei nostri e lo condussero nelle loro guarnigioni; perché se nella guerra medesima costui ritornò gode del postiliminio, cioè gli si restituiscono tutti i diritti come se non fosse stato preso dai nemici, prima di essere condotto nelle guarnigioni dei nemici, resta cittadino; allora poi si intende ritornato, se o perviene presso di amici nostri, o cominciò ad essere tra le nostre guarnigioni
2. In pace ancora fu dato il postliminio, perché se con qualche nazione non abbiamo amicizia né ospizio né alleanza fatta per causa di amicizia, costoro in verità non sono nemici; ma ciò, che del nostro ad essi pervenne, di essi diviene; ed un uomo nostro libero preso da essi diviene anche loro servo. E vale lo stesso, se qualche cosa pervenga da loro a noi. Dunque anche in questo caso fu dato il postliminio.
Tutt’ora è ancora utilizzato il Brocardo: “ Postliminium fingit eum, qui captus est, in civitate semper fuisse”, cioè il ritorno dell'assente fa sì che, chi sia stato prigioniero, venga considerato come se fosse rimasto sempre in patria.
Francesca Finocchi
Mi rendo conto che sull’argomento “unicuique suum/jedem das Seine” sia stato scritto molto da Eleonora. Ciononostante vorrei riportare alcune mie considerazioni e notizie a riguardo che ho trovato non sul web, ma nell’articolo del Prof. Leo Peppe “ Jedem das Seine, unicuique suum, a ciascuno il suo” nella collana diretta da Labruna e curata da Baccari e Cascione “Tradizione romanistica e costituzione”. Mi sono a lungo interrogata sul motivo che ha portato i nazisti a porre all’ingresso dei campi di concentramento questi motti di “benvenuto”, una sorta di “lasciate ogni speranza, o voi che entrate”. Ad Auschwitz e a Dachau, appunto, troviamo “Arbeit macht frei”, a Buchenwald “Jedem das Seine“ (anche se qui in un primo momento pare che sia stato utilizzato il motto “Recht order Unrecht – Mein Vaterland” “Nell'ordine legale sbagliato, il mio Paese”). Credo che tutti siamo d'accordo a definire cinica e paradossale l'apposizione di queste frasi all'ingresso dei campi. E' ben comprensibile questa aggettivazione da parte di chi rigetta quel mondo, ma è allo stesso tempo fuorviante, perchè queste scritte rispondevano a funzioni di propaganda e di comunicazione ideologica, funzioni alle quali il regime nazista è stato molto attento. Ma i nazisti non furono gli unici ad adottare queste strategie, basti pensare al ventennio fascista italiano e alle famose frasi di Mussolini, tratte anch'esse dal repertorio romano (“Habere non haberi.” o “Ubi ordo, ibi pax et decor. Ubi pax et decor, ibi laetitia.”). Oppure alla sintesi distopica di un libro da poco letto “1984” di George Orwell, ove gli slogans del Partito (“La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza”), più volte ricorrenti , vengono citati la prima volta, dopo poche pagine, in quanto stampati sulla facciata del Ministero della Verità, per poi essere ribaditi sul teleschermo pubblico e nella coscienza di ciascuno. Leo Peppe, nel suo articolo, ci dice che le ragioni dell'utilizzazione del motto a Dachau-Auschwitz non sono certe, perchè vi possono essere confluite diverse circostanze e motivazioni: da una parte il generalizzato uso tedesco di utilizzare frasi siffatte all'ingresso delle grandi proprietà pubbliche e private; dall'altra differenti ragioni, delle quali nessuna elide del tutto l'altra: l'esistenza di tali slogans nei circoli nazionalsocialisti “volkisch”, le campagne naziste di grandi lavori pubblici contro la disoccupazione, qualcuno ha fatto anche riferimento all'etica protestante del lavoro. Quanto sia difficile e anche storiograficamente complessa questa tematica degli slogans nazisti, potrebbe essere evidenziato, per Peppe, da un accostamento con tutta un'altra esperienza, quella dei Gulag sovietici (con i loro regolamenti), anch'essi campi di lavoro, quel famoso lavoro di cui parla la celebre iscrizione che è appesa all'entrata di ogni stabilimento concentrazionario: “Il lavoro è una questione d'onore, una questione di gloria, una questione di valore ed eroismo.” Invece, per Buchenwald, sostiene il Peppe, mancano dati certi a spiegare la scelta del motto “Jedem das Seine”. A proposito sono state fatte molte congetture: da quelle più attendibili, peraltro già riportate da Eleonora, per cui si potrebbe trattare del titolo della poesia “Jedem das Seine” del pittore e scrittore Fahrenkrog, o del motto “suum cuique” del massimo ordine prussiano “Der Hohe Orden Von Schwarzen Adler”; a quelle più fantasiose legate alla vicinanza di Buchenwald a Weimar. Si sa infatti che Weimar nel 700-800 fu uno dei maggiori centri della cultura tedesca: vi dimorarono personaggi dal calibro di Bach e Goethe che poi stranamente nell'epoca del nazismo si ritrovarano ad avere collegamenti con il campo di Buchenwald. Bach nel 1715 compone la cantata BWV 163, un salmo della liturgia protestante, “Nur Jedem das seine”.
RispondiElimina(...continua...)
Inoltre Buchenwald (tradotto alla lettera vuol dire “bosco di faggi”) era poi il bosco prediletto di Goethe e la quercia, dove si dice che il poeta amava riposare con la compagna Charlotte, venne addirittura conservata nel campo di sterminio. C'è poi da dire che Goethe in una sua lettera datata 4 novembre 1783, mostrandosi favorevole alla condanna a favore dell'infanticida Anna Catharina Hohn, utilizzò proprio l'espressione “Jedem das Seine”. Il Prof. Leo Peppe ha trovato anche in un elenco del 1946 di libri da epurare, un testo del 1936 dal titolo “ Jedem das Seine (Suurn euique)” e sicuramente nazista nello spirito e nel contenuto (vista la data di pubblicazione) avrebbe potuto suggerire l'adozione del motto. In definitiva, “Jedem das Seine”, nella cultura nazista appare divenire uno slogan per una politica sociale e giuridica che sottende non un'attribuzione di diritti o almeno aspettative, ma l'esclusione di alcuni dai diritti che spettano solo ai puri ariani tedeschi, soggetti solo al volere del Fuhrer. Infatti se si vedono le foto del campo di Buchenwald, la scritta posta all'ingresso “Jedem das Seine” è messa in modo tale che si legga sia dall'interno che dall'esterno e in questo modo il suo messaggio sembra risuonare così: agli internati non spetta alcun diritto, dentro e fuori il campo; al popolo nazista tutto è consentito e dovuto. Per concludere voglio riportare parte dell'intervento, che menziona il Prof. Peppe, di Gustavo Zagrebelsky sul tema della giustizia, tenuto a Torino il 15 novembre 2004 : “ Prendiamo la più famosa e comprensiva tra le formule della giustizia, l'unicuique suum tribuere, il “a ciascuno il suo” dei giureconsulti romani, o la sua riformulazione “tratta gli uguali in modo uguale e i diversi in modo diverso”. Entrambe lasciano indeterminato il punto decisivo, cioè la nozione di suum, ciò che spetta in rapporto a ciò che ci rende, sotto i più diversi aspetti, uguali e diversi (dato che l'uguaglianza e la diversità assolute non esistono). Formule come queste possono essere accolte da chiunque: dal superuomo nietzschiano come dal difensore dei diritti umani, dal combattente per il comunismo universale, come dal fautore della libertà dello stato di natura, dall'apostolo della fratellanza universale come dal fanatico dello stato razzista. I campi di sterminio ad esempio sono in regola con questa massima della giustizia. Il motto di Buchenwald era appunto “a ciascuno il suo”, ma questo avrebbe potuto essere anche il motto del buon samaritano o di un Martino che divide il suo mantello con l'ignudo. Onde queste regole di giustizia possono essere indifferentemente il programma del regno dell'amore come del regno dell'odio.”
RispondiEliminaLaura Infante
concordo pienamente con cio che ha detto francesca,tutti fenomeni,e raramente si riesce a pensare ad un approfondimento e trovarlo ancora disponibile nel pubblicarlo.io vorrei, a questo punto cercare di fare un sunto di quanto detto all ultima lezione,riguardo al possesso e processo nel XII secolo sulla sentenza affrontata a lezione di papa Onorio II.
RispondiEliminaTale sentenza è una controversia tra 2 vescovi,Guido vescovo arentino e Goffredo,vescovo di Siena.Rappresenta una sentenza provvisoria del 1125,emanata da Onorio II in seguito ad un procedimento tenuto dal primo cancelliere ,Aimerico,il quale chiese a Bulgaro di scrivere un trattato dove spiegasse come funzionasse il processo nel diritto giustinianeo.Per Bulgaro il processo nel diritto romano è presieduto da un giudice nominato dal potere pubblico(ossia dall imperatore per il diritto romano),formato poi dalle parti.La giustizia nel processo deve seguire a "suum unicuique tribuere"(testimonianza svolta anche da leo peppe con un suo articolo) si afferma il diritto sostanziale che ognuno ha,ossia il principio di riattribuzione "a ciascuno il suo".In precedenza nel periodo altomedievale il processo veniva definito come un accordo,in quanto non si voleva far riconoscere a "ciascuno il suo".Si cercò di mettere fine al contratto che si crea,con la ripresa di un certo individualismo.Bulgaro inoltre afferma che la richiesta di giustizia doveva essere rituale,ossia formulata secondo il sistema romano delle azioni."Comque protraheretur inter vos per dies aliqot altercatio,et nos una cum fratibus....." in questa parte del testo esaminata mercoledi a lezione si dice che" tra voi si era protratta una discussione e noi (cancelliere più altri fratelli)abbiamo lavorato per fare un placito(comporre la lite),il papa morto,il giudice rimanda il processo".
(continua...)
Luca Landolina
Vediamo che cambia la mentalità:da un placito al processo,compaiono gli avvocati poichè sono gli unici specializzati in questo lavoro.
RispondiEliminanella seconda parte del testo "terminio itaque prestito,cum utraque pars,adductis ligisperitis et..."viene nominato il fratello guido il quale afferma di essere stato il titolare della parrocchia fino a quando i senesi se ne erano impossessati sostenendo che fosse un territorio senese."senenses se per violentiam ab aretinis..."i senesi sostengono di aver subito loro la violenza,adottando una legge di tutela,svolta da Valentiniano e Arcadio che prevedeva che chi fosse in possesso di beni di un altro, e lo si fa con violenza, il dominio preso deve essere restituito al proprietario,versare a colui che è stato spossessato il valore della cosa.Da osservare è:il testo, che è messo tutto nell atto,questo perche non esistono molte copie del codex,quindi si cerca di riportare tutto il testo con il nome dell autore per conferire autorità."pretor...experiaris"citazione tacita del digestum nuvum,libro 48.nell ultima parte della sentenza, "ceterum advocatis alternatim..." si sostiene che ci si deve soffermare sul possesso,c è un recupero del possesso romano come strumento di attribuzione di un potere di fatto.
Luca Landolina
Andrea David Mieli
RispondiEliminaVisto che tutti gli argomenti trattati a lezione in quest'ultima settimana sono stati ampiamente discussi sul blog ho provato a sfogliare le pagine degli appunti presi durante il corso. Ho trovato interessante un riferimento fatto dal Professore a proposito di Carlo Ginzburg (Torino 1939) storico, scrittore e saggista italiano.
In particolare credo sia interessante il saggio "spie, radici di un paradigma indiziario" che, se pur marginalmente, può toccare i temi da noi trattati a lezione.
Con questo saggio l’autore vuole dimostrare come si sia imposto a fine 800 un modello epistemologico in molte scienze umane. Questo paradigma che egli definisce indiziario ha radici antichissime nell’animo umano: deriva infatti dal sapere di tipo venatorio che hanno sviluppato i nostri antenati cacciatori. Essi infatti hanno elaborato la capacità di risalire da dati sperimentali a prima vista trascurabili a una realtà complessa non verificabile direttamente. A questo sapere si sono andati collegando nel corso del tempo altri campi del sapere umano, come la semeiotica medica, la divinazione e il diritto. Infatti, se il paradigma indiziario o divinatorio è rivolto verso il futuro avremo la divinazione in senso proprio; se è rivolto verso il passato, il presente e il futuro avremo la semeiotica medica negli aspetti di diagnosi e prognosi; se è rivolto verso il passato, la giurisprudenza. Col passare del tempo è quindi emersa tutta una costellazione di discipline che si basavano sulla decifrazione di segni. In Grecia, esempio fondamentale è la medicina ippocratica, che sosteneva che solo osservando tutti i sintomi era possibile elaborare una diagnosi, essendo la malattia di per sè inattingibile. Questo paradigma è stato però schiacciato dal modello di conoscenza proposto da Platone. Le discipline che vengono indicate come indiziarie non rientrano nel paradigma delle scienze galileiane, in quanto esse sono eminentemente qualitative e basate su situazioni individuali, in quanto individuali. La scienza galileiana invece impiega la matematica e il metodo sperimentale ed è quindi basata sulla quantificazione e la reiterabilità dei fenomeni. Galileo ha impresso alle scienze della natura una svolta antiantropocentrica e antiantropomorfica. Questo spiega perchè la storia non sia mai riuscita a diventare una scienza galileiana: essa ha una strategia conoscitiva individualizzante (anche se l’individuo è un gruppo o una società intera). La conoscenza storica è congetturale e indiziaria.
(segue...)
Andrea David Mieli
RispondiEliminaIl primo tentativo di fondazione della connoisseurship è da far risalire a Giulio Mancini, medico di papa Urbano VIII. Egli scrisse un libro destinato ai dilettanti; una delle parti più originali è quella dedicata ai metodi per riconoscere i falsi. Questo presuppone che fra l’originale e la sua copia esista una differenza ineliminabile. A ciò è legato l’emergere della figura del conoscitore. Tutto il metodo proposto da Mancini era basato sull’affermazione dell’inimitabilità dei tratti individuali: in questo modo sarebbe stato infatti sufficiente isolare nel quadro gli elementi inimitabili per risalire al vero autore dell’opera. L’identificazione della mano del maestro sarebbe stata possibile particolarmente in quelle parti del quadro eseguite più rapidamente e più sganciate dalla rappresentazione del reale (capelli, panneggi). Questo metodo ci porta a pensare che il vero ostacolo all’applicazione del paradigma galileiano è la centralità o meno dell’elemento individuale. Più i tratti individuali sono preminenti più svanisce la possibilità di poterlo applicare. A questo punto sono quindi possibili 2 vie: o sacrificare l’elemento individuale alla generalizzazione o elaborare un paradigma diverso. La prima via fu percorsa dalle scienze naturali poichè la tendenza a fare a meno dei tratti individuali è direttamente proporzionale alla distanza emotiva dell’osservatore. Infatti, la conoscenza individualizzante è sempre antropocentrica, etnocentrica e così via. Per le discipline a cui era negato l’occhio soprasensoriale della matematica la vista divenne l’organo privilegiato. Tra queste c’erano le scienze umane. Ci furono dei tentativi di introdurre la matematica in queste scienze (statistica), ma esse rimasero comunque ancorate ad un modello qualitativo, che ad esempio nel caso della medicina provocò e provoca polemiche. Le cause dell’incertezza della medicina sono fondamentalmente 2: il catalogare tutte le malattie non è sufficiente perchè in ogni individuo esse si manifestano con caratteristiche differenti; la conoscenza delle malattie è sempre indiretta perchè il corpo vivente è inattingibile. Il fatto quindi che la medicina non possa raggiungere il rigore delle scienze naturali è dovuto al fatto che la quantificazione è impossibile; e questo perchè l’elemento individuale è ineliminabile perchè l’occhio umano coglie più facilmente le differenze fra gli esseri umani. La medicina rimane comunque una scienza socialmente riconosciuta. Non così per la connoisseurship che è relegata ai margini delle discipline. Essa, come altre forme di sapere legate alla pratica quotidiana, è basata sull’esperienza, sul concreto. E questo è il suo limite, il non saper servirsi dell’astrazione. A questo tipo di sapere si era sempre cercato di dare una formulazione scritta, senza mai ottenere risultati rilevanti. Le cose cambiarono nel corso del 700, quando la borghesia iniziò un processo di appropriazione di tutto il sapere, indiziario e non, e nel contempo diede il via ad una acculturazione di massa. Il simbolo di questo processo è l’Encyclopedie. In questo periodo un numero sempre maggiore di lettori venne a contatto con determinate esperienze attraverso le pagine dei libri. Grazie alla letteratura il paradigma indiziario conobbe nuova fortuna.
(continua...)
(...segue)
RispondiEliminaDue termini sono stati coniati fra il 700 e l’800 per indicare processi conoscitivi e discipline che si basano sul paradigma indiaziario: serendipity, creato da Horace Walpole nel 1754, per designare le scoperte fatte grazie al caso e all’intelligenza. Nel 1880 Thomas Huxley in un ciclo di conferenze dedicate alla diffusione delle scoperte di Darwin utilizzò la definizione “metodo di Zadig”, in riferimento ad una novella di Voltaire. Questa perifrasi indicava il procedimento che accomunava materie come la storia, l’archeologia, l’astronomia fisica, la geologia e la paleontologia: esse si rivolgono infatti al paradigma indiziario, scartando quello galileiano, basandosi sul fatto che quando le cause non sono riproducibili possono essere inferite dagli effetti. Sempre tra 700 e 800 si affermò fra tutte le scienze per prestigio epistemologico la medicina; ad essa fecero riferimento tutte le altre scienze umane. Queste discipline, col passare del tempo, hanno assunto sempre più il paradigma indiziario della semeiotica. A questo punto è chiarito il legame presentato a inizio saggio fra Morelli – Freud – Conan Doyle, tre medici che si sono serviti ampiamente di questo modello. Morelli si era proposto di rintracciare all’interno di un sistema fatto di segni culturalmente influenzati come quello pittorico l’involontarietà dei sintomi, affermando che in questi segni involontari si poteva ritrovare la personalità dell’artista. In questo modo si ricollegava al suo predecessore, Giulio Mancini.
Al termine del saggio, l’autore sostiene che se le pretese di sistematicità sono velleitarie, non va però abbandonata l’idea di totalità: l’esistenza di una connessione profonda che lega gli elementi superficiali viene ribadita nel momento in cui si sostiene che una conoscenza diretta di questa è impossibile. Esistono tuttavia spie e indizi che ci permettono di decifrarla. La decadenza del pensiero sistemico è accompagnata dal crescere del pensiero aforistico; il termine stesso significa indizio, sintomo, spia. Aforismi era una raccolta di pensieri di Ippocrate; nel 600 si diffusero raccolte di Aforismi Politici. La letteratura aforistica è per definizione un tentativo di formulare giudizi in base a sintomi.
L’autore inoltre si chiede se un paradigma indiziario possa essere ritenuto rigoroso o meno. Ma in fondo questa caratteristica forse non è nemmeno desiderabile nei casi delle discipline che rigurdano l’individualità. In questo tipo di conoscenze devono entrare in gioco colpo d’occhio, fiuto e intuizione, intendendo con quest’ultimo termine la capacità di passare in maniera repentina dal noto all’ignoto sulla base di indizi.
Andrea David Mieli
Salve a tutti…
RispondiEliminaMi sono soffermata su quanto detto oggi a lezione in merito al diritto naturale e al diritto civile, prendendo spunto da Cortese in “Le grandi linee della storia giuridica medievale”.
Ius naturale e ius civile erano due ordini diversi che, per quanto legati, agivano ciascuno per conto proprio sulla vita del diritto. Nel campo delle obbligazioni, per esempio, dal diritto naturale nascevano obbligazioni naturali e dal civile obbligazioni civili, sicchè se il soggetto compiva un atto o un negozio conformemente all’equità doveva rispettare la causa tipica di diritto naturale per far nascere l’obbligazione naturale, se tale causa era prevista dal diritto civile, la causa naturale era al contempo causa civile e generava anche un’obbligazione civile. Se invece il diritto positivo ancora non la prevedeva, per far nascere un’obbligazione civile accanto a quella naturale, il soggetto poteva rivolgersi a quelle forme cui la legge annetteva efficacia obbligatoria, per esempio alla stipulatio.
Ecco allora la prima scienza giuridica imperniare tutto il sistema delle obbligazioni private sul gioco delle due cause, naturale e civile, ciascuna all’origine di uno dei due tipi di obbligazione in forza dei rispettivi ordinamenti. Quando entrambe le cause sono poste in essere, ed entrambi i diritti agiscono, i soggetti sono pienamente tutelati: si consegna una somma (causa naturale) e si compie una stipulatio per farla restituire (causa civile). Ma se le due cause vengono realizzate in momenti diversi si creano temporanee incertezze, se, ancor peggio, una delle due manca, si creano rapporti scempi e le cose si complicano: qualora in presenza della causa civile faccia difetto la causa naturale, si scatenerà la patologia dell’indebito (la stipulatio effettuata obbliga il debitore a restituire una somma che non è dovuta) e si dovrà correre ai ripari o con un’ exceptio doli per paralizzare l’azione petitoria della controparte, oppure con una condictio in vista della ripetizione. Qualora manchi invece la causa civile nascerà quell’obbligazione solo naturale che consente di trattenere quanto spontaneamente prestato (come nel debito di gioco), ma non di esercitare un’azione petitoria per ottenere quanto dovuto. La descrizione più nota di questi meccanismi, si trova nella prima Summa Codicis, la cosiddetta Trecensis, risalente alla metà circa del XII secolo.
E’ vero che si ripropone il connubio preirneriano tra i diritti naturale e civile, ma esso appare lontano dall’utraque lex predicata da Pepo nell’XI secolo. Nel frattempo, le scuole dei legisti essendosi staccate da quelle canonistiche in cui si era verificato il primo ritorno a Giustiniano, il diritto naturale ha dovuto cambiare faccia e assumere quella che gli disegnava il Digesto. La sua vecchia identificazione con il diritto divino continuerà talvolta a riecheggiare fievolmente nelle aule civilistiche, ma solo perché l’eco ne veniva da quelle dei decretisti seguaci di Graziano.
...Continua...
...Vedi sopra...
RispondiEliminaSebbene talvolta anche il diritto civile generasse aequitates, era il diritto naturale a fornirne in massa in ossequio alla propria specifica funzione, ed erano quindi le causae naturales a rappresentare il momento equitativo di tutti i fenomeni giuridici. Ogni rapporto, pubblico e privato, presupponeva tacitamente lo schema della conversione dell’equità grezza, sostrato immobile ed eterno delle varie specie “naturali” di rapporti umani, nell’equità constituta che altro non era se non ius civile, rifornito dell’energia soggettiva proveniente dalla volontà del legislatore. Agganciati come dovevano essere sia allo statico ordinamento naturale sia al dinamico ordinamento civile, atti, negozi, leggi e consuetudini dovevano ruotare per forza intorno a due principi, l’uno obiettivo l’altro soggettivo, che sono poi da sempre i poli necessari del circuito vitale del diritto.
I glossatori furono ben consapevoli di questo quadro: misero come polo obiettivo l’equità, e sulla scorta di fonti sia giuridiche sia teologiche identificarono il polo soggettivo nella giustizia. Già Irnerio descrive la cosa in una delle sue glosse: la dinamica della vita giuridica sta tutta nell’assunzione di aequitates entro formali dichiarazioni di volontà, e queste ultime costituiscono la giustizia.
D’altronde la Chiesa insegnava che la giustizia era una delle virtù cardinali, e le arti liberali, ispirandosi a Cicerone, dicevano della virtù che era una predisposizione soggettiva. Le fonti giuridiche, poi, precisavano che la giustizia è quella volontà che ha per oggetto specifico di dare a ciascuno il suo. (Ulpiano) Se ne deduceva che l’identica carica soggettiva doveva muovere tutto il ius, dato che esso discende dalla iustitia (ne deriva persino il nome), ne è quindi figlio ed eredità necessariamente la natura della madre.
Completamente impostata sulla trama dei rapporti tra diritto naturale e civile, racchiusa nel circuito che corre tra equità e giustizia, tra principi empirici obiettivi e interventi soggettivi, la teoria generale del diritto dei tempi postirneriani appare strutturata in un’architettura logica e coerente.
La maggior produzione del sapere giuridico viene da laboratori minori rispetto a Bologna, spesso transalpini. Si tratta di scuole che, avendo obiettivi di formazione pratica, sono tutto sommato meglio disposte alle costruzioni dogmatiche di quanto sia Bologna, che per tutto il XII secolo resta piuttosto chiusa entro le mura severe dell’esegesi testuale.
Eleonora Cannatà
Oggi a lezione è emerso il tema del "contempt of court", ecco una breve descrizione per chi non si ricordasse il significato.
RispondiEliminaIl contempt of court è un'azione od omissione che tendenti ad ostacolare o interferire con l'amministrazione della giustizia ordinaria, ovvero a mettere in pericolo la dignità del giudice o il rispetto per la sua autorità. E' possibile rinvenire due generi: diretto e costruttivo". Il "disprezzo" diretto avviene apertamente e in presenza del giudice, attraverso colui che resiste al potere del giudice. Il "disprezzo" costruttivo risulta, invece, da questioni al di fuori della corte, come ad esempio il mancato rispetto degli ordini.
E' poi possibile effettuare un'ulteriore classificazione tra disprezzo civile e penale. Il "contempt" civile si verifica quando il contemnor, colui che oltraggia la corte, disobbedisce volontariamente ad un ordine del tribunale. Questo è anche chiamato disprezzo indiretto poiché si verifica al di fuori del controllo immediato del giudice e dovrà essere presentata una prova al giudice per dimostrare il disprezzo.
Il "contempt" penale si verifica, invece, quando il contemnor effettivamente interferisce con la capacità del giudice di esercitare correttamente il proprio ufficio, (ad esempio urlare al giudice). Questo è anche chiamato disprezzo diretto perché si verifica direttamente davanti al giudice.
La pena per l'oltraggio civile è di solito il pagamento di una multa, o la detenzione per un periodo indefinito di tempo fino a quando il soggetto reo del disprezzo accetta di svolgere il suo obbligo legale. La pena per l'oltraggio penale è una multa o la reclusione per un determinato periodo di tempo, inteso come una punizione, che deve essere giudicato da una giuria se il "contempt" imporrebbe pene superiori ad un massimo di sei mesi.
Andrea David Mieli
Nella lezione odierna si è accennato all’interdetto unde vi, facendo una breve ricerca abbiamo trovato a riguardo un testo su Google Books “Lo studio del diritto romano ovvero Le Instituta e le Pandette Volume III” di Nicola Comerici ; ci siamo soffermati sul titolo XXXV intitolato “Dell’interdetto in caso di violenza fatta colle armi, o senza armi. Riportiamo di seguito alcuni passi che abbiamo trovato interessanti.
RispondiElimina“Anticamente vi erano due diversi interdetti, uno che riguardava la violenza privata e quotidiana cioè fatta senza armi, l’altra violenza pubblica, cioè fatta colle armi. […]
In seguito per ciò che sia diritto competente a chi violentemente fu scacciato dal possesso per esservi reintegrato, questi due interdetti furono quasi in tutto assimilati, e tanto nel Codice quanto negli Instituta vanno ambedue confusi sotto un terzo nome, tratto dalle iniziali parole dell’editto pretorio Unde Vi. […]
L’interdetto De vi, et vi armata, ossia unde vi, ha luogo nelle sole cose immobili. Compete a chi è stato scacciato contro chi l’ha scacciato in occasione del delitto da costui commesso. Promosso fra l’anno utile, produce la restituzione dell’intero, essendolo tal tempo, la restituzione di ciò che l’espulsore abbia guadagnato. L’interdetto in esame ha luogo nei fondi, nelle case, e nelle cose attaccate al suolo, non meno che in quelle incorporali, le quali si sogliono annoverare tralle immobili, come è l’usufrutto e l’uso delle cose immobili, la giurisdizione, il diritto di patronato, il diritto di decime, di censo e di annua rendita se non diretto, almeno utile. Lo stesso bisogna dire delle servitù prediali, poiché potendo sopra esse cadere il quasi possesso come sull’uso e sull’usufrutto egualmente riguardo d si può adoperare l’interdetto unde vi. Non così avviene delle cose mobili, alle quali l’interdetto nominato non si estende. […]
Se però nel fondo o nella casa, da cui sia stati scacciati, vi sono cose mobili, non vi è dubbio che l’interdetto abbracci anche queste.
(Nella lezione odierna il Professore ha citato l’episodio riguardante la disputa tra il vescovo di Bologna e i monaci di Santo Stefano i quali si erano rifiutati di prestare un omaggio annuale, ovvero un carro ricco di alimenti. I monaci incaricano Azzone per la difesa. Quest’ultimo ripropone il caso in una quaestio per i suoi studenti, modificandola a scopi didattici. Il giurista intendeva concedere agli studenti che avrebbero difeso il vescovo di Bologna l’interdetto unde vi. Da quanto appreso nel testo sopra riportato sembra però che tale interdetto poteva essere utilizzato solo per le cose immobili, mentre nel caso in questione il bene era mobile (il carro). Possibile che il carro sia stato considerato come una rendita annua?)
Ruben Benigno e Alessandro Sonnino