In questo sito potete vedere l'edizione antica del Corpus Iuris canonici. Grazie delle vostre osservazioni sulla sua formazione, che si trovano a commento di altri post.
riguardo l'istituzione universitaria Bolognese, G. CASSANDRO si sofferma sulla genesi e l'inquadramento dell'insegnamento del diritto. La rinascita degli studi giuridici a Bologna prende le mosse da un rinnovamento culturale che riguarda varie zone d'Europa. Come dice GOETZ, tra l'XI e il XII secolo la cultura medievale si riveste dei panni classici. Ne è un esempio la scuola di arti liberali francese impostata sulla riscoperta logica aritotelica che diventerà un caposaldo di autorevolezza di tutta la cultura occidentale. Le arti liberali, quelle del trivio erano impostate su tre grandi insegnamenti: Grammatica, Retorica e Dialettica; il trivio si contrapponeva al quadrivio (Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica) ed erano entrambi propedeutici all'insegnamento teologico e filosofico. Manca chiaramente in questo periodo la specializzazione tecnica in determinate professioni umanistiche (tra cui il diritto) il matematico diventa giurista a tempo perso così come l'astronomo è anche musicista. Questa concentrazione di sapere direi che non è mai venuta meno: Galilei, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Sant'Alfonso, coniugano le arti alla scienza, alla filosofia, alla teologia, in maniera quasi naturale e automatica; lo stesso Irnerio era in primo luogo un grammatico. Questo legame resterà fino ai giorni nostri nel legame indissolubile tra filosofia e fisica. Forse il fatto si può spiegare dal fatto che il sapere ha una potenza attrattiva nei confronti di altro sapere. O meglio il troppo sapere spesso sconfina in altri ambiti nella curiosità ormai esaurita di chi, competente nel suo ambito cerca nuovi stimoli in altre discipline. Insomma nell'ambito del trivium particolare importanza acquisisce il diritto nelle figure del Magister artium e del Causidicus, che designano il legis doctor delle scuole di perfezionamento legale. Pur con alcuni barlumi come Pepone che fu addirittura definito aurora surgens del diritto civile, fu Irnerio il primo a scrivere le glosse e dare sistematizzazione al diritto.
Gli studenti sono affascinati dalle lezioni bolognesi, si uniscono nella università. L'amore per l'antichità contagia tutti. Per Irnerio "studere" significa affaticarsi, travagliarsi, logorarsi. Ed è un travaglio non solo psicologico in quanto questi studenti dovevano lasciare la patria ed esporsi a gravi pericoli: non c'erano strade, i trasporti erano insicuri, essi per recarsi a Bologna erano disposti anche a rischiare la vita: amore scientiae facti exules, de divitibus pauperes semetipsos exinaniunt, vitam suam periculis exponunt. Questa societas di studenti e di maestri, a differenza della scuola parigina non divenne mai una istituzione dell'Impero che, non essendo più una fonte viva di diritto a differenza della Chiesa e si avvaleva dell'università. Ecco che nella pretesa di universalismo ormai al Regnum e al Sacerdotium si affianca anche lo Studium che si eleva e si fonda sopra l'autorità della parola scritta e tramandata dai padri della Chiesa, dai Concili, da Aristotele... Studiare il diritto romano significò studiare il diritto senz'altro. Il diritto diventa una scienza autonoma ovviamente collegata alle altre arti, ma non necessariamente, e accende la sua fiaccola a Bologna iniziando la sua marcia vittoriosa in tutta Europa (KONRAD). La nascita dela scuola giuridica bolognese non va ricercata nello sviluppo delle città italiane a liberi comuni, in quanto il Corpus iuris non è l'immagine dell'uomo nuovo secondo WIEACKER, ma si pone come libro sacro della forza creatrice della cultura pura. Lo stesso ragionamento lo si ritrova nel sistema politico in cui l'auctoritas imperiale è affiancata dalla potestas regia. Anche nello Studio l'auctoritas Giustinianea è affiancata dalla potestas accademica, dall'interpretazione delle glosse che traggono la loro legittimazione dal fatto di essere strumentali alla comprensione di un'opera di tale autorevolezza come il corpus iuris. Riguardo al rapporto tra "praxis" giuridica e "scientia" medica, l'autore sottolinea il fatto che in questo periodo lo studio del diritto si connotra soprattutto sulla ricerca storica delle fonti, mentre la scienza medica che pure a Bologna sappiamo essere molto sviluppata, poteva ben poco mutuare dalle conoscenze mediche della Grecia antica, in quanto doveva fronteggiare numerose nuove epidemie.
Nella lezione di oggi è emerso il tema del delicato rapporto tra Università e Papato. Giovanni De Vergottini in “Lo studio di Bologna, l’impero, il papato.” ci dice che l’interessamento del Papato per lo studio di Bologna nasceva da motivi fondamentali. In primo luogo nel Medioevo aleggiava l’idea che tutto il sapere era un dono di Dio e che tutta la cultura veniva considerata una preparazione allo studio della “sacra pagina” (cioè della teologia). Perciò ogni scuola superiore era considerata soggetta in linea di principio ad un controllo delle autorità ecclesiastiche e del Papato (che ebbero inevitabilmente anche lo scopo di vigilare su ogni eventuale infiltrazione ereticale). In secondo luogo la maggior parte degli studenti e dei professori di diritto erano degli ecclesiastici; era perciò logico che, oltre alle autorità ecclesiastiche locali, con a capo il vescovo e l’arcidiacono della cattedrale, anche il Papato s’interessasse costantemente all’istituzione che li raccoglieva, alle scuole che essi frequentavano. Una prima valorizzazione indiretta dello studio potrebbe essere considerata la concessione di Papa Eugenio III a Bulgaro nel 1151 della cognizione di una causa che egli riteneva di competenza dell’autorità ecclesiastica. Ma un intervento papale diretto e sicuro si ebbe con Alessandro III il quale concesse ad un “magister” inglese, scolaro a Bologna, due prebende inglesi ed il loro godimento durante gli anni di studio all’Alma Mater, in deroga alle norme canoniche che per ciò imponevano l’obbligo della residenza. Il grande interesse del pontefice per lo studio è testimoniato dal fatto che Alessandro III inviò ben sei lettere al re Enrico II d’Inghilterra perché questi con il suo appoggio garantisse l’esecuzione del privilegio papale. Da allora in poi non si contano più gli interventi continui dei diversi papi a favore diretto e indiretto dello studio. Clemente III intervenne nel 1189 per regolare i prezzi delle locazioni degli hospicia agli studenti. Innocenzo III, allievo di Uguccione da Pisa, inviò all’Università di Bologna la sua raccolta di Decretali nota come “Compilatio Tertia” nel 1210 perché venisse adoperata, come abbiamo visto a lezione, “tam in iudiciis quam in scholis”. Seguendo indubbiamente l’esempio inaugurato dagli imperatori svevi per la promulgazione delle proprie costituzioni, papa Innocenzo III diede il via ad un sistema che sarà impiegato da tutti i successivi papi legislatori: da Onorio III nel 1226 per la sua “Compilatio Quinta” a Gregorio IX per il suo “Liber Extra” nel 1234, da Innocenzo IV per le sue Novelle nel 1253, a Bonifacio VIII per il suo “Liber Sextus” e a Giovanni XXII per le Clementine nel 1317. Ma il grande difensore degli studenti bolognesi fu Onorio III che intervenne più volte in loro favore contro le intromissioni del comune. Non a caso fu proprio il pontefice Onorio III che, eletto arbitro delle controversie tra Federico II e la Lega Lombarda, obbligò l’imperatore a revocare la costituzione che ordinava, tra l’altro, la soppressione dell’Università di Bologna.
..Un altro po’ di storia.. La Respublica christiana si realizza compiutamente soltanto con l’affermazione della tendenza teocratica che, rovesciando lo schema cesaropapista (idea di unire potere temporale e spirituale), pone al vertice dei poteri quello pontificio, pur in una dialettica costante tra papato ed impero. Come il cesaropapismo non si è mai realizzato nella sua forma perfetta nella storia cristiana (Cesare non assume mai direttamente su di sé tutti i poteri ecclesiastici), così la forma perfetta di teocrazia, potremmo dire, che non è mai stata negli obiettivi della Chiesa di Roma. Il papa non ha mai voluto farsi imperatore, ma ha preteso di assoggettare l’imperatore al proprio controllo, rendendo lui e le altre autorità civili esecutori delle leggi, delle decisioni, della Chiesa. Di qui il conflitto che caratterizza l’epoca teocratica tra papato ed impero, dal momento che l’impero pur accettando la logica confessionista del sistema non accetta mai la subalternità piena al papato. Gregorio VII è il primo a spezzare il tabù del primo millennio affermando per la prima volta che il papa può deporre l’imperatore ratione peccati, quando cioè l’imperatore, in quanto civis – fidelis sottoposto alla sua giurisdizione spirituale incorre in qualche colpa grave che legittima l’adozione di sanzioni spirituali. Dopo una serie di deposizioni di imperatori, che testimoniano delle sempre maggiori pretese pontificie, vengono eletti due imperatori, Filippo e Ottone. Innocenzo III si schiera a favore di Ottone e con la bolla Venerabilem del 1202 sostiene che la Chiesa ha operato la translatio imperii da Oriente in Occidente, che questa scelta originaria le dà il potere di vigilare perché l’elezione dell’imperatore avvenga in forme legittime anche valutando la personalità, i meriti, le colpe dei contendenti : “siamo noi che diamo l’unzione, la consacrazione e l’incoronazione (…). Lo stesso Innocenzo III scomunica Ottone quando questo entra nel regno di Sicilia e lo fa imputandogli di aver violato giuramenti e impegni scritti, contro il diritto e gli ammonimenti della sede apostolica. Sorte non dissimile, anzi peggiore, tocca a Federico II che viene scomunicato nel 1227 e nel 1239.Dopo la seconda scomunica Federico II affermerà che il potere reclamato dai pontefici è ormai senza confini e che se oggi era rivolto contro l’Impero, domani si rivolgerà contro gli Stati e i singoli sovrani. In realtà però il sogno teocratico si infrangerà contro Filippo il Bello che riesce sul finire del trecento ad umiliare il papa Bonifacio VIII, ed a cambiare il corso della Chiesa e d’Europa.
L’interessamento del Papato nei confronti dello studio crebbe ancora di più quando nel 1278 Bologna divenne terra della Chiesa ed i papi cumularono di fronte allo studio la figura di capi supremi della Cristianità e quella di sovrani temporali della città in cui l’Università sorgeva. Da allora in poi, ribadisce il De Vergottini, assistiamo al moltiplicarsi di provvedimenti a favore dello studio: nel 1291 papa Nicolò IV conferiva ufficialmente valore universale alle lauree conseguite nell’Alma Mater in diritto civile e canonico; nel 1360 papa Innocenzo VI istituì a Bologna la facoltà di teologia. L’Autore ci ricorda che però non tutta l’attività dei papi fu sempre a vantaggio dello studio. Ad esempio il primo contatto tra Papato e lo studio bolognese non fu tanto felice dal momento che la scomunica del Concilio di Reims del 1119, presieduto da papa Gelasio II, contro Irnerio, che venne sospeso dall’insegnamento, procurò conseguenze negative all’Università sorta da pochi anni. O ancora in seguito a conflitti con il comune, i papi da Innocenzo III a Alessandro IV nel 1211 e nel 1259 dopo aver scagliato la scomunica sui suoi capi e l’interdetto sulle città ordinarono, (o meglio minacciarono), agli scolari di abbandonare Bologna, volendo sospendere completamente la vita dello studio. Ma i danni di questi provvedimenti se furono certamente gravi provocando talvolta anche diaspore rovinose, sono da valutarsi, sotto un profilo generale, modesti di fronte ai vantaggi che lo studio ebbe dall’interessamento papale costante per il corso di ben tre secoli del Medioevo.
Visto che vi è evoluzione in ogni cosa, ho ritenuto opportuno affrontare il discorso sull’evoluzione della figura del “glossatore”, che oramai compare anche nei testi di materia canonistica. Il diritto civile, vede come protagonisti i glossatori, i quali attraverso la loro metodica e scrupolosa attività di esegesi grammaticale e teorica, non solo raggiunsero la piena padronanza del Corpus iuris, ma resero quest’ultimo effettivamente applicabile alla vita giuridica contemporanea. La scena giuridica civilistica, dopo il periodo postaccursiano, accoglie le innovazioni dei commentatori, i quali, attraverso un lavoro analitico e attraverso la tecnica del sillogismo (tesi-antitesi-solutio) intendevano raggiungere l'interpretazione della norma. Con la ribalta del potere ecclesiastico e con questa ripresa della sovranità da parte del Papa, si ha una maggiore immissione della Chiesa nel diritto e nella dottrina. Si incominciò a sentire l’esigenza di creare, anche nel diritto canonico, un testo che racchiudesse tutte le norme ecclesiastiche. Prendendo a modello il Corpus Iuris, si volle redigere un testo completo , per rendere stabile quel diritto che era così labile. Fino ad ora, la Chiesa aveva una forte certezza nel potere, ma non nel diritto, e ciò è dimostrato da come il diritto canonico venisse applicato caso per caso, creando molte “deroge/dispense” al diritto stesso e da come vi fossero molte fonti da Pontefici diversi, così da creare un enorme confusione. Con il Decretum di Graziano, inizialmente conosciuto come Concordia Discordantium Canonum poichè cercava di risolvere le contraddizioni createsi nel diritto canonico, si incomincia a vedere una certa unificazione normativa ( precedentemente ad esso, vi era un’emanazione di decretali e lettere decretali, cosidette “ volanti” ). Grazie a questa crescita prorompente della normazione papale e a queste composizioni normative così elaborate che si inizia a sentire la pressione per un aggiornamento del diritto canonico. In questo modo nasce la “scuola” dei canonisti che è formata da due sottogruppi, una chiamata di decretisti, studiosi specialisti nel Decretum, mentre si chiamano decretalisti, i giuristi che posero ad oggetto della loro attività scientifica lo studio e l’esegesi delle fonti del diritto canonico successive al Decretum Gratiani. L’intento da cui essi erano mossi era quello di individuare e scindere in ogni norma il fatto umano, valutabile in termini giuridici, dal fattore spirituale, afferente alla sfera religiosa, usando gli stessi strumenti interpretativi adoperati dai giuristi civilisti: casus, quaestiones, distinctiones e summae. I decretisti ed i decretalisti hanno scritto "summe", grandi sintesi, e "lecturae" (commenti da una linea alla linea seguente). Hanno fatto dei commentari ai tutti collezioni papali nel forma di una glossa ordinaria ("di riferimento"), un commento considerato fondamentale. Tra i più famosi decretisti troviamo Uguccione da Pisa, ( prima metà secolo XII - Ferrara 1210),glossatore canonista e lessicografo. Legò il suo nome ad un’ampia summa sul Decretum Gratiani che ben presto si impose come il più esaustivo commentario dell’opera di Graziano. Nella sua attività scientifica egli tenne a distinguere tra glossa e commento : mentre nella glossa, egli osservava, si preoccupava di fornire il significato letterale (litera) del testo normativo, il commento si preoccupava di enuclearne il contenuto, ossia lo spirito (sensus). Mentre per quanto riguarda i decretalisti , Goffredo da Trani , Enrico da Susa ( cardinale Ostiense ) , Sinibaldo Fieschi, Giovanni Teutonico e Bartolomeo da Brescia ( allievo di Tancredi, l’arcivesco citato da Onorio III nella Compilatio Quinta), sono i canonisti che dettero al Decreto, la glossa ordinaria, che fu destinata ad accompagnare definitivamente il testo di Graziano, come l’apparato di Accursio accompagnò quello di Giustiniano. La diffusione della scientia iuris canonistica e delle relative scuole investì immediatamente tutto l'Occidente cattolico.
I maggiori esponenti di questo “movimento” meritano un maggior approfondimento ; Goffredo da Trani, celebre glossatore canonista ed allievo di Azzone, fu il primo autore di una summa alle Decretali. Attraverso la rivisitazione del modello dottrinale imposto proprio dalla summa azzoniana, Goffredo mirava al superamento della tradizione della glossa, considerata oramai, a fine Duecento, un ostacolo all’interpretazione della ratio testuale. Quest’opera in definitiva rappresenta un vero e proprio capolavoro della scienza giuridica tardo-medievale e si pone come modello per la tradizione dottrinale tre-quattro e cinquecentesca. Mentre, Sinibaldo Fieschi, anche noto come papa Innocenzo IV, il cui commentario alle Decretali è noto per le idee originali e per la particolarità più unica che rara di essere stato composto durante il pontificato. Egli fu anche legislatore ( e qui rientra in gioco la figura del papa-legislatore ). Innocenzo IV apportò un grande contributo al diritto privato, configurando per la prima volta l’ente collettivo astratto come persona ficta, cioè l’immagine della persona giuridica. Enrico da Susa, ebbe nel 1262 la nomina a cardinale vescovo di Ostia ed è sempre stato chiamato l’Ostiense. Egli compose la summa del Liber Extra, opera che conobbe un grande successo e diventò subito il vade-mecum dei canonisti. Enrico da Susa, fu uno delle figure più caratterizzanti nella comosizione dell’ utrumque ius ( unione del diritto civile e canonico ). L’utrunque ius, diritto comune, era composto da una specificità canonistica e da una equitas canonica ( contratti), normalmente rivolto ad una società sacra : salus animarum, ratio peccati vitandi, ratio scandali vitandi (rigor / moderatio - temperatio / relaxatio / dissimulatio - temperantia). Include anche delle norme appartenenti al processo romano-canonico, che si avvale di procedure da entrambe le giurisdizioni. A questo proposito mi sono posta delle domande; ma nell’utrunque ius, il quale si avvale di norme appartenenti al processo romano canonico, come ci si pone rispetto alla differenza tra il processo chiaro e pubblico e quello inquisitorio? Quale prevale ? e per quanto riguarda la dicotomia natura e miracolo vs ordinamento e papato (segretezza della chiesa, tramite il quale la chiesa esprimeva la sua sovranità, che è in contrasto con la legalità- pubblica) ?
PERCHE’ NEL XXI SECOLO HA ANCORA SENSO PARLARE DI HARD LAW?
La dicotomia soft law/hard law ci trascina in un interessantissimo dibattito sulle sfide del moderno operatore del diritto,diviso tra un ordinamento giuridico in crescente espansione relativamente al moltiplicarsi dei livelli normativi cogenti e le esigenze di certezza del diritto che si frappongono all’odierno fenomeno della segmentazione del diritto,interessandolo sotto un duplice profilo quello del giurista e quello parallelo forse in disuso del teorico del diritto. La vexata quaestio,che abbiamo visto essere di antichissima origine, si snoda a parer di chi scrive su due poli distinti e fondamentali:l’area di ciò che è chiamato mirabilmente principio di legalità ,con tutto ciò che si riversa nella esigenza di tipicità e certezza del diritto e che si traduce nell’anelito che un razionale sistema giuridico possiede inevitabilmente e l’opposta area della frammentazione del diritto,che si fa portavoce di un istanza per così dire naturale del diritto,la sua intrinseca fluidità che reagisce su sistemi sociali in perenne divenire.
L’affanno alla legalità è un sentire lontano che si appalesa soprattutto in momenti di intensa evoluzione e trasformazione del diritto medesimo: il legislatore morto che consegna tutta la sua auctoritas al testo scritto stabile e quindi perfetto e che si contrappone incessantemente al legislatore vivo custode della libertà del diritto, è sicuramente di giustinianea memoria ma infuoca i fondamentali e originari secoli XII e XIII , per divenire maestro di quelle schiere di complilatori che a cavallo tra settecento e ottocento si affannano, anche con esiti anacronistici(BGB), avviandosi nell’accidentata strada della codificazione.
La legalità,o meglio il principio di legalità si traduce di fatto nella tipizzazione e la tipizzazione o tipicità si atteggia a condicio sine qua non della certezza del diritto:questo è un passaggio fondamentale. Ora la tipizzazione è negli ordinamenti di diritto la giuridicizzazione del mondo fattuale,delle istanze nascenti dal sentire sociale,del potere che viene esercitato da gruppi direttamente esponenziali della sovranità dell’ordinamento medesimo. Per quel che più ci può interessare in questa sede, il tipizzare indica un’ operazione delicata di qualificazione,ovvero di attribuzione o riconoscimento di determinate caratteristiche in relazione ad un tipo,un canone(lo chiamo azzardatamente così);la tipizzazione quindi è grande prova di razionalità del sistema, è simbolo del controllo che il sistema ha esercitato su stesso e continua ad eserciatre sulle proprie valvole di sfogo o scappatoie. Poiché la legalità è anche e soprattutto prevedibilità degli strumenti e delle soluzioni giuridiche che l’ ordinamento ha predisposto ,la tipicità viene a coincidere con la conoscenza e la conoscenza con la certezza giuridica,affinchè si formino operatori del diritto coscienti dello scibile normativo e fruitori del diritto consapevoli,laddove però la conoscenza degrada a conoscibilità potenziale.
E’ intuitivo capire a questo punto perché la stratificazione normativa,la tumultuosa concorrenza delle fonti,la frammentazione del diritto mini alla certezza e sicurezza del sistema,che è a mio parere una aspirazione irrinunciabile di ogni ordinamento giuridico. Ecco che nell’XI secolo la ricerca smodata di fonti e auctoritates, in archivi e biblioteche impolverati da secoli di oblio, per sostenere e sconvolgere orientamenti consolidati minaccia proprio quell’esigenza di prevedibilità delle risposte normative, che si traduce in una odiosa vulnerazione del legittimo affidamento che un soggetto ripone nel suo ordinamento. Il fatto che l’Alto Medioevo sia improntato non alla tipicità,ma al caos normativo legittima che ad un certo momento un certo operatore del diritto a vario titolo-giurista o causidico-possa ribaltare soluzioni giuridiche offerte e collaudate da secoli.E’ questo il senso di Marturi e dell’aneddoto che ci riporta Cortese in cui vediamo Pepo,doctor legis, che alla corte di Enrico VII e di fronte ad un caso di omicidio deroga alla legge longobarda a favore di un pastrocchio normativo, in cui si mescolano teologia,Antico Testamento,diritto romano e quant’altro. Il quadro che eredita Irnerio è spaventosamente pericoloso. L’attaccamento irneriano e dei glossatori al testo non è esigenza ottusa: non c’è scienza senza testo e soprattutto senza testo stabile e perfetto, è posizione di rifiuto di un ordinamento incerto. La razionalizzazione ottenuta dalla Scuola di Bologna anche se reagiva su un testo tecnicamente imperfetto rappresentava una conquista troppo importante per poter essere ceduta agli umori dell’imperatore. La chimera –come alcuni vogliono- inseguita di un sistema esauriente in cui “omnia inveniuntur” e la posizione di esclusività rivendicata a favore dei giuristi faceva dei glossatori degli autentici signori del diritto,nel senso che essi erano depositari di fatto del potere si stabilire cosa fosse diritto e cosa non. Che poi ciò fosse smentito dal fatto che vi fossero veri e propri centri di produzione del diritto, vivi ed in evoluzione come la legislazione imperiale e gli statuti comunali,questo poco importava ai glossatori quando il contraltare era costituito dall’aver costruito per la prima volta dopo Giustiniano il “sistema”.
Operando un brusco tuffo nell’attualità ciò che mi preme dire e dimostare è che la creazione di soft law è il frutto di quella frammentazione del diritto tra più livelli strutturali,che preferisco chiamare segmentazione,ormai inevitabile data la perdita di centralità dell’ordinamento statale. La cedevolezza di quest’ultimo di fronte a centri di produzione giuridica non sempre istituzionalizzata comporta la creazione di costellazioni normative che rischiano di frastornare il giurista e di rendere molto più complicato ed incerto il lavoro di conoscenza del sistema e di offerta di soluzioni sicure. Se cioè il moderno operatore del diritto( che oggi è tanto il giudice quanto il difensore) è costretto a dipanarsi tra una miriade di fonti del diritto,che indirettamente e spesso anche inconsapevolmente sono ingurgitate dall’ordinamento in maniera esponenziale, fino a che punto la sua conoscenza si spingerà consentendogli di trovare una soluzione stabile che all’indomani non venga smentita dal“ritrovamento” di un segmento normativo che legittima una soluzione opposta? Sotto il profilo della certezza del diritto poi, come approntare tutela al legittimo affidamento del soggetto sulla prevedibilità delle risposte offerte dall’ordinamento,con tutti i fondamentali risvolti in materia penale? Forse un ripensamento dell’hard law in termini di economia ed efficienza del sistema potrebbe essere la risposta che stiamo cercando.
Abbiamo fatto una breve ricerca sui sistemi di eccezione, utilizzando principalmente come fonti la rivista Quaderni Storici 131/2009, richiamata nella lezione di lunedì e un articolo di Paolo Persichetti tratto da una pagina di Liberazione del 2004. Non sempre si è avuta la stessa concezione di Stato d’eccezione. Nell’epoca del diritto comune, per eccezione si intendeva ” il fatto che esce dalla normalità”, un anomalia, un qualcosa che è fuori dall’ordinario, ma non per questo esterno all’ordine giuridico; l’eccezione non si traduceva quindi in una “mera condizione di pienezza dei poteri correlata a una sospensione dei principi fondamentali dell’ordinamento”. Nella dottrina medievale e moderna l’eccezione era intesa come fenomeno più ampio di quello che oggi viene concepito come stato d’eccezione, includendo tutte quelle forme di tradimento della regola che caratterizzavano la vita del diritto, più che la sua sospensione. Un ruolo chiave nel concetto di eccezione veniva svolto dalla categoria dell’extraordinarium . Posta nel campo della straordinarietà infatti l’eccezione alla regola veniva proposta come un diritto singulare o temporale in quanto espressione di un caso specifico meritevole di apprezzamento giuridico, rimedio necessario che serviva a supplire all’ordinarium dove questo risultasse carente ( ad esempio quando si manifestava un caso nuovo o vi fosse una ragione riconducibile a un’utilità pubblica) . Interessante è proprio il rapporto tra extraordinarium e ordinarium : la straordinarietà infatti per manifestarsi presupponeva necessariamente l’esistenza della dimensione ordinaria, non solo come termine di confronto, ma anche come approdo potenziale del proprio divenire. Lo straordinario in poche parole tendeva a trasformarsi in ordinario. Da tale processo di convergenza dialettica l’ordinamento traeva linfa per il proprio sviluppo e aggiornamento; in questo senso Meccarelli, autore dell’articolo, sostiene che la coppia oppositiva ordinario-straordinario rivestisse una funzione strutturante l’ordine giuridico. continua...
Carl Schimtt si è occupato dello Stato di Eccezione in due opere, “La Dittatura” e “Teologia Politica”. Nella prima Schmitt considerava lo Stato di Eccezione come espressione della dittatura e quindi una condizione di sospensione del diritto. Nella Teologia Politica stabiliva invece una relazione diretta tra il tema dello Stato di Eccezione e quello della sovranità, essendo il sovrano stesso definito come “colui che decide sullo stato di eccezione”. La sovranità, secondo il giurista, si fondava non sulla norma ma su una decisione politica; sovrano era infatti colui che, partendo dallo stato d’eccezione, visto come assenza di qualsiasi norma, decideva istaurando un ordine; ed era proprio da tali decisioni che traeva origine la politica. Giorgio Agamben, nel volume “Lo Stato d’Eccezione”(2003) ci offre una visione diversa del fenomeno. Secondo il filosofo lo Stato d’eccezione è uno spazio vuoto di diritto, una zona in cui tutte le determinazioni giuridiche sono destituite, una sospensione dell’ordine costituzionale vigente, effettutata dalla stessa autorità statale che dovrebbe essere garante della legalità, definizione che sembra contrastare con l’idea di eccezione propria del periodo medievale, dove, come sopra riportato, l’eccezione non era esterna all’ordine giuridico e non era correlata a una sospensione dei principi fondamentali. L’idea di sospensione è invece centrale nel pensiero del giurista. Per enucleare la sua nozione di stato di eccezione, egli parte infatti dallo iustitium (letteralmente arresto sospensione), considerando tale istituto una sorta di archetipo dell’eccezione stessa. Si trattava di un provvedimento Proclamato dal Senato Romano in caso di tumulto, di concreto pericolo per la Repubblica, con cui si chiedeva ai consoli, ma al limite ad ogni cittadino di assumere qualsiasi misura che fosse necessaria per la salvezza dello Stato; in forza di ciò ciascuno doveva essere lasciato libero di agire in tal senso, anche compiendo azioni che in un’altra situazione avrebbero potuto essere considerate contra legem. Il iustitium "aboliva il divieto, stabilito dalla Lex Sempronia, di mettere a morte un cittadino romano senza ricorso ad un giudizio popolare . Nel iustitium, si verificava insomma una sospensione della legge . Dall’analisi dell’istituto romano Agamben arriva a scardinare il concetto di eccezione da quello di dittatura, in aperto contrasto con altri giuristi (primo su tutti lo stesso Schmitt); secondo il filosofo infatti con la sospensione del diritto non si ha la creazione di una nuova “magistratura”. Lo stato di eccezione è presentato da Agamben come una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Dall'inizio del secolo «la creazione volontaria di uno stato di eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici». Agamben rileva un esempio di Stato d’eccezione anche nel nostro ordinamento : il ricorso sistematico della decretazione d'urgenza e al dispositivo delle deleghe legislative concesse all'esecutivo.
Salve a tutti!!! Dal testo “Le basi del diritto canonico” di Giorgio Feliciani che si trova nella biblioteca della nostra facoltà, ho trovato un interessante paragrafo che spiega quali sono oggi le fonti del diritto canonico. Ne riporto un riassunto: Il codice di diritto canonico non contiene una definizione di legge, ma tradizionalmente seguendo la dottrina di San Tommaso D’Aquino la Chiesa ritiene vincolanti soltanto le norme emanate dall’autorità competente se dotate di ragionevolezza. Il codice però riporta le caratteristiche che esse devono avere: - canoni 20 e 21: le leggi si presumono perpetue, cioè in vigore fino a una loro abrogazione - canone 7: le leggi necessitano di una promulgazione in forma solenne da parte dell’autorità per essere portate a conoscenza della comunità e la vacatio legis è di 3 mesi per i provvedimenti di carattere generale e di 1 mese per quelli di carattere particolare. - Canone 9: per quanto riguarda l’efficacia temporale le leggi valgono solo per il futuro (irretroattività) - Can. 13: per quanto riguarda invece l’efficacia spaziale, le leggi si presumono territoriali e cioè valide per una specifica comunità a meno che non sia prevista l’efficacia generale. - Can. 11 : i soggetti destinatari del diritto canonico sono quelli battezzati o accolti comunque nella Comunità di età superiore ai 7 anni. Le leggi pontificie vengono emanate con le bolle che possono essere brevi se meno solenni, motu proprio se emanate di iniziativa personale del Papa e chirografi se scritte o sottoscritte di suo pugno. Gli atti più importanti prendono il nome di Lettere Apostoliche, quelle indirizzate a tutti invece sono le Lettere Encicliche e le Epistole Apostoliche riguardano questioni meno importanti. L’interpretazione autentica (cioè effettuata direttamente dal legislatore) può essere di semplice chiarimento e in questo caso è retroattiva oppure, se riscrive direttamente una disposizione, è considerata alla stregua di una nuova legge e quindi è irretroattiva (can. 16). L’interpretazione vera e propria, cioè ad opera dell’interprete deve essere prima di tutto letterale, poi può effettuarsi con il ricorso a norme che disciplinano la stessa materia e valutando anche il contesto e le circostanze del caso concreto e deve essere infine stretta nel caso delle pene e di altri casi specifici di cui diremo in seguito.
Altra fonte del diritto canonico sono le consuetudini che esso ammette anche se praeter o contra legem purchè non esplicitamente proibite da leggi e rispettate per almeno 30 anni dai fedeli. Esse sono caratterizzate, oltre che per la continuità, dall’elemento psicologico della volontà di creare diritto. Ovviamente non sono ammesse quelle contro il diritto divino. Per colmare le lacune, che ovviamente esistono sempre in qualsiasi ordinamento, anche in quello canonico, entra in gioco il cosiddetto diritto suppletorio costituito dall’equità e dagli atti particolari. Parlando di equità ci si ricollega all’interpretazione e al canone 19 che prescrive in caso di lacune di far ricorso alla cosiddetta analogia (similitudine) cioè di disciplinare allo stesso modo casi con la medesima ratio. Il divieto di analogia esiste in materia di pena, restrizione della libertà e dei diritti dei singoli, nullità degli atti, incapacità delle persone, impedimenti alla ricezione di sacramenti, antichi privilegi della Santa Sede. Il secondo metodo di interpretazione è il ricorso ai principi generali del diritto, inteso in generale e quindi non soltanto a quelli del diritto canonico, ma anche a quelli dell’ordinamento civile purchè ovviamente non in contrasto con i canoni divini. Da questi elementi si desume l’importanza dell’equità ai fini del riempimento delle lacune dell’ordinamento della Chiesa; spetta infatti agli operatori del diritto decidere discrezionalmente quali principi adoperare, mentre i divieti previsti all’analogia svolgono la funzione di evitare lo sconfinamento nell’arbitrio. Per completare il quadro delle fonti e dei mezzi di completamento delle lacune, parliamo ora dei provvedimenti amministrativi-particolari. Abbiamo gli atti singolari che si suddividono in decreti emanati dall’autorità esecutiva anche senza istanza e precetti che invece impongono o vietano dei comportamenti a determinati soggetti. Abbiamo poi i privilegi che possono essere concessi solo dal legislatore e rendono determinate situazioni, già disciplinate dal diritto comune, più favorevoli per determinati soggetti. Importantissime sono infine le dispense che testimoniano l’adattabilità al caso concreto del diritto canonico: esse consistono nel concedere a determinati soggetti deroghe rispetto all’applicazione del diritto generale che provocherebbe loro situazioni svantaggiose. Vengono concesse dai Vescovi e nei casi più importanti dal Pontefice. Tra le fonti minori troviamo gli Statuti che disciplinano il funzionamento, la costituzione e i fini delle universitates personarum e rerum e gli Ordini che stabiliscono invece regole per le Assemblee organizzate tanto da soggetti ecclesiastici quanto dai fedeli.
Le novità processuali del 1200 e la conseguente commistione del diritto dei civilisti e dei canonisti
Una delle più importanti novità del primo Duecento fu lo sviluppo del processo inquisitorio e la sua accettazione da parte dei Comuni. Siamo alle origini della cosiddetta Inquisizione, che fu appunto un metodo moderno di prosecuzione dei reati, poiché il giudice operava d’ufficio contro il reo, prescindendo dall’accusa formale del danneggiato. Prendendo ad esempio il reato di eresia, il Papato lo ritenne un male tale da doversi predisporre un’organizzazione ad hoc per perseguirla come lesa maestà (divina) indipendentemente da qualsiasi accusa privata, e con un esito terribile se provata (rogo, confisca dei beni dell’eretico con conseguente responsabilità oggettiva dei figli per fatto altrui..). Ebbene l’inquisitore doveva procedere ex officio divenendo allo stesso tempo procuratore e giudice, ed il processo divenne dunque uno scontro disuguale in cui la difesa era facilmente limitata o addirittura nulla (come nel caso dell’Inquisizione ecclesiastica). Ma non fu questa l’unica novità processuale importante; agli inizi del 1200 s’impose, dapprima nelle sole corti laiche, dato lo sfavore papale, una novità tecnica notevole per le sue conseguenze sul ruolo del giurista. Si tratta dell’uso per cui il giudice si rivolgeva ai giuristi accreditati delle Università (i doctores) per avere delucidazioni in merito a punti incerti della causa che stava discutendo (i cd “consilia”). Elemento fondamentale sta nella vincolatività del parere ufficialmente richiesto poiché questo non costituiva una mera consulenza di parte, bensì un “oracolo del dotto”esterno al tribunale e dato con l’autorevolezza dell’esperto super partes, estraneo alla contesa. Ci si trova dunque in un processo ove vengono ad essere inclusi pareri di dotti e perizie; difatti il nuovo processo, basato su prove razionali, studiato da Papi e dottori delle Università, prevede il ricorso a periti di ogni genere, che con la propria testimonianza qualificata finiscono per orientare la soluzione del caso (è questo il periodo in cui a Bologna cominciano a diffondersi ad esempio le prime perizie mediche). A Roma il Papa, ormai capo indiscusso della gerarchia ecclesiastica, non si occupa più personalmente dei processi, ma delega ad “uditori” (“auditores cappellani domini papae”) la cura di studiare e decidere sugli appelli che pervenivano in numero crescente; perciò cominciarono a istituzionalizzarsi tribunali specializzati (come ad esempio la Camera Apostolica o la Penitenziaria Apostolica). Il nuovo processo “romano-canonico”, accolto da sempre nei tribunali ecclesiastici ( e non subito in quelli laici), è l’emblema della convergenza che intorno al 1200 si è realizzata tra civilisti e canonisti, un tempo indifferenti e sospettosi gli uni degli altri; le basi testuali romanistiche e canonistiche (le decretali in particolare) hanno consentito ai giuristi di creare un nuovo processo che avrà un successo clamoroso. Ed è proprio questo processo a fornire la prova eclatante che i giuristi dell’uno e dell’altro diritto hanno ormai creato un “diritto comune”, cioè un diritto generale per tutti, pronto ad essere recepito per lette, direttamente, come avvenne nei tribunali ecclesiastici, oppure di fatto, nella prassi giudiziaria.
Romina Di Ruocco; Fiamma De Nardo; Niccolò Falez, Carlotta Trucillo
Salve a tutti... Ho trovato interessante fare una ricerca sul processo dei templari. Metterò alla fine, le fonti dalle quali mi sono documentata. Gli eventi che portarono al processo i Templari posso essere ricondotti principalmente a due figure del XIII secolo: Filippo IV re di Francia e papa Clemente V. I templari erano già stati, sotto il pontificato di Bonifacio VIII, oggetto di critiche, che però rimasero contenute finché essi furono in grado di prestare la loro opera in difesa dei crociati. La corona francese aveva bisogno di oro ed argento, che già aveva provveduto a confiscare al clero, sotto la forma della tassazione degli ordini monastici (uno dei motivi di conflitto con Bonifacio VIII); il papato, pur essendo ancora un elemento essenziale nella struttura politica e nella vita religiosa della cristianità occidentale, era diventato sotto Clemente V un docile strumento nelle mani del Re francese; mentre l’Ordine dei Templari d’occidente strettamente legato al sovrano ed al papato, sembrava un organismo ormai inutile. Infatti, nato per difendere i viaggiatori nel tragitto verso la Terra Santa, si era ben presto trasformato (grazie soprattutto alle crociate) in un ordine militare ricchissimo e impenetrabile ma che, dopo la sconfitta di Acri, perse gran parte del suo prestigio agl’occhi dell’Europa e vide l’inizio del suo declino. Per portare a compimento la spoliazione del Tempio esisteva a portata di mano lo strumento più adeguato: l’inquisizione, potenziata dal papato, ma controllata in Francia dalla monarchia. Infatti la diffusione dell’eresia era stata uno dei maggiori problemi del tredicesimo secolo, e i consiglieri di Filippo IV erano adatti a trasformare l’impopolarità dell’ordine in “depravazione eretica”. Fu da quest’insieme di circostanze che ebbe origine il processo ai templari. Le accuse che vennero mosse contro i templari, per giustificarne i mandati di cattura segreti, emessi da Filippo IV, seguivano principalmente tre filoni: il rinnegamento e gli sputi sulla croce del Cristo, i baci osceni e la sodomia, e l’adorazione degli idoli. Le accuse si basavano molto sul fatto che il rito d’entrata nell’Ordine era segreto, quindi le fantasie degli accusatori si scatenarono e inserirono in quel rito tutte le eresie e i reati possibili di quel tempo. Nell’ agosto del 1308 viene stilato un elenco completo dei capi d’imputazione, composto da 127 articoli che, secondo Malcolm Barber, possono essere riuniti in 7 gruppi relativi alle accuse più gravi: 1. Il rinnegamento: (blasfemia) al momento dell’accoglienza i novizi erano istigati a rinnegare Cristo e a volte la Vergine ed i santi. Veniva detto loro che Cristo non era il vero Dio, ma un falso profeta, crocifisso non per la redenzione degli uomini, ma per i suoi peccati e per tanto era inutile la speranza di ottenere la salvezza attraverso lui. I nuovi fratelli dovevano quindi sputare sulla croce o sull’immagine del Cristo. Infatti dopo la parte iniziale dell’ingresso rispondente al codice etico e disciplinare dei Templari, il novizio - afferma la Frale- veniva condotto in un posto isolato e qui il precettore gli diceva: “Signore , tutte le promesse che ci avete fatto sono vuote parole. Adesso dovrete dare prova di voi con i fatti”, e senza fornire alcuna spiegazione gli ordinava di rinnegare Cristo e di sputare sulla croce. ...Continua...
...Vedi sopra... Naturalmente, il fanciullo riavutosi dallo stupore, si rifiutava di obbedire e la reazione dei precettori era variabile: a volte la fermezza del candidato era rispettata e non gli si chiedeva altro, ma molto spesso i confratelli lo minacciavano di prigione, lo picchiavano violentemente a mani nude o puntandogli la spada alla gola. La Frale spiega successivamente che dal canto loro, i cavalieri, si giustificavano dicendo che questi sacrilegi rappresentavano un rituale (experimentur) per appurare l’indole e le intenzioni del novizio, una prova in preparazione della possibile cattura da parte dei mussulmani e del resto, lo stesso papa Clemente era convinto che fossero colpevoli di violenze, abusi e atti peccaminosi di varia natura, ma non di eresia. 2. L’adorazione degli idoli: (idolatria) si affermava, infatti che i templari venerassero, teschi, gatti e una pittura o una testa d’uomo barbuta (definita Bafometto): diavolo barbuto, con corna, alato, con artigli ed ermafrodito, che i templari credevano redimesse dai peccati; per tale motivo i fratelli lo toccavano o lo cingevano con una cordicella che poi legavano intorno alla vita. Il documento che svela il vero volto del presunto Bafometto si trova tra le carte processuali contro i Templari: si tratta di un foglio conservato negli archivi nazionali di Parigi. La dottoressa Frale ha analizzato le deposizioni (datate 1307) di alcuni cavalieri rinchiusi a Carcassonne in Linguadoca, che raccontavano di cerimonie in cui venivano invitati ad adorare un lenzuolo di lino chiuso in una teca, sulla quale compariva la testa di un uomo barbuto. Un templare chiamato Arnaut Sabbatier «disse in maniera esplicita che gli era stata mostrata la figura intera di un uomo su un telo di lino, e gli fu ordinato di adorarlo baciandogli i piedi tre volte». 3. I baci osceni e la sodomia: superato il momento del rifiuto del Cristo, il precettore dava al novizio il bacio di fratellanza monastica sulla bocca, a cui seguivano altri 2 baci: uno sull’ombelico e uno sulla parte posteriore (in genere sopra la tunica, ma si sono presentati casi in cui l’azione veniva esagerata scoprendo le natiche). 4. Il rifiuto dei sacramenti:si dice che i templari non credessero nei sacramenti e durante la messa, i sacerdoti omettevano di pronunciare le parole della consacrazione. 5. L’assoluzione impartita dai laici: infatti i templari ritenevano che il Gran Maestro e gli altri capi avessero la facoltà di raccogliere le confessioni e di assolvere dai peccati, nonostante molti di loro fossero laici. 6. L’avidità: vennero accusati di acquisire ricchezze per l’Ordine con qualunque mezzo, legale o illegale, e di utilizzare le donazione per scopi illegittimi senza devolverli in beneficienza. ...Continua...
...Vedi sopra... 7. La segretezza: le riunioni del capitolo e le accoglienze avvenivano di notte, in segreto, con imponenti misure di sicurezza e alla sola presenza dei membri del Tempio. Dalle testimonianze emerge che in realtà, anche molti dei confratelli non conoscevano le regole dell’Ordine, ne avevano avuto conoscenza solo per sentito dire, perché molte ormai erano entrate nelle usanze del Tempio. Tanto che lo stesso Jacques de Molay nel momento di diventare Gran Maestro chiese a Clemente V un’indagine per fare certezza su comportamenti che si stavano consolidando all’intero del Tempio. I templari furono processati in un’epoca in cui il giudizio sulla magia e sulla stregoneria si stava cristallizzando, rientrando nelle credenze popolari e nelle categorie mentali degli intellettuali, e per tanto le accuse in tal senso erano destinate a suscitare una reazione in tutti i settori della società. Chi escogitò l’accusa di adorare gli idoli e chi spinse i templari a confessare che i principali oggetti di venerazione erano un gatto ed una testa magica, mirava a sfruttare alcune incontrollabili credenze popolari. In linea di massima, costoro insinuavano che i fratelli dell’Ordine erano contaminati dall’Islam, assecondando l’opinione secondo cui i mussulmani adoravano idoli. Le accuse rivolte ai templari erano false, le loro confessioni estorte con la tortura e prive quindi d'ogni valore. I cavalieri non erano né migliori né peggiori di altri cavalieri di ordini di quel tempo. Soltanto, Filippo IV aveva bisogno del loro denaro, delle loro vaste proprietà terriere, delle loro fortezze; e così i suoi ministri diffusero menzogne sulla colpevolezza dell'ordine per poterlo annientare. Se comunque, nell’attribuire ai templari quelle credenze, i giuristi di Filippo miravano senza dubbio a diffamarli rovinandone la reputazione, è anche possibile che fossero spinti dalle idee e dalle tradizioni del tempo delle quali in un modo o nell’altro erano imbevuti ed ancora da una forte avidità per le ricchezze dell’Ordine. Infatti, all’inizio del processo, l’inquisitore Guillaume de Paris era convinto di dover aprire un processo a carico solo di alcuni individui, precisamente Jacques de Molay ed i suoi più stretti sostenitori, ma in realtà si troverà coinvolto in una manovra per colpire l’ordine intero, rendendosi conto di essere stato lo strumento della monarchia per assestare al Tempio il colpo di grazia. Il processo ai templari ha inizio il 14 settembre del 1307, quando Filippo IV emana degli ordini segreti di arresto per i Templari, la manovra era camuffata dietro la richiesta di accertamenti fiscali, fu in questo modo che vennero arrestati, interrogati e pesantemente lesi nella loro reputazione i confratelli del Tempio. Quando Clemente V ebbe conoscenza dei fatti indisse immediatamente un concistoro in condizioni di emergenza per tamponare l’imminente crisi: infatti, Filippo IV si arrogava il diritto di decidere su questioni relative all’ortodossia, estendendo questo suo presunto potere su un ordine religioso, cioè un pezzo della Chiesa di Roma, che solo l’autorità del papa poteva giudicare. Il 14 ottobre dello stesso anno, Guillaume de Nogaret, aveva fatto radunare una folla nei giardini del Palazzo reale di Parigi e proclamato pubblicamente il dossier d’accusa contro l’ordine. ...Continua...
...Vedi sopra... Il 22 novembre del 1307 Papa Clemente V promulga la bolla Pastoralis praeminentiae, con la quale da un lato ordina che l'arresto dei Templari sia portato a termine anche nei paesi cristiani che si erano rifiutati di seguire l'esempio di Filippo; dall'altro spoglia la corona francese di ogni potestà e competenza sul processo al Tempio, reclamandone - a diritto - l'intera gestione. La ragione dell'ordine di arresto emesso dal papa è facilmente comprensibile: Clemente crede, o almeno è propenso a credere, nell'innocenza dei fratelli templari (pare addirittura che in questa fase abbia inviato delle lettere ai dignitari per confortarli nella prigionia e per esortarli a confidare nella giustizia) ma se ne ordinasse la liberazione sarebbe vittima di continui attacchi da parte di Filippo IV. Il sovrano, servendosi della propaganda, mobiliterebbe contro il pontefice folle intere tratte dalle frange avverse ai Templari, e il trono di Clemente probabilmente vacillerebbe. Il 29 maggio del 1308, si riunì a Poitiers un Concistoro pubblico cui parteciparono le maggiori Autorità laiche ed ecclesiastiche. Alla presenza del Papa, il Ministro Guillaume de Plaisians elencò i capi d’accusa contro i monaci/Cavalieri e nel nome del cristianissimo Filippo IV, che nel marzo precedente aveva riunito a Tours gli Stati Generali per ottenere la ratifica delle iniziative adottate contro l’Ordine, ne chiese la condanna e la espulsione dalla Chiesa. Tiepidamente il Papa, sostenendo che i Templari potevano essere perseguiti solo con il previo giudizio dei tribunali ecclesiastici, invitò il Re a consegnargli gli arrestati ed i loro beni. Il 27 giugno del 1308, Filippo inviò settantadue Templari al cospetto di Clemente V a Poitiers: essi confermarono le confessioni circa i crimini loro contestati. Non è chiaro se il re voglia dimostrare devozione e accondiscendenza al progetto processuale di Clemente oppure abbia selezionato accuratamente un campione di soggetti influenzabili che gli garantiscono la reiterazione delle confessioni dell'anno precedente. Lo studio delle deposizioni, nonostante che ci siano pervenute in maniera incompleta, parrebbe giustificare la seconda ipotesi: i templari confesseranno nuovamente tutti o parte dei crimini loro contestati. Nello stesso mese la Curia romana organizzò Commissioni episcopali in tutta Europa, per inquisire i Cavalieri residenti nelle rispettive Diocesi. Nel luglio del 1308 viene riaperta l’inchiesta sui templari (dopo essere stata sospesa nel febbraio dello stesso anno per via della ritrattazione della confessione del Gran Maestro Jacques de Molay) e nell’agosto viene stilato l’elenco dei capi d’accusa. Allora Clemente V ideò uno stratagemma. Il 12 agosto 1308 tenne un concistoro nel quale fu data lettura della bolla Faciens Misericordiam, redatta l’8 agosto nella quale venne indetto un concilio ecumenico nel quale trattare dell’organizzazione di una nuova crociata ed anche del problema templare. Il giorno seguente, 13 agosto, il Papa decretò l’inizio delle ferie estive della Curia e si ritirò nella residenza di campagna. Ma si trattava di una diversione. I cardinali Bérenger Frédol, Etienne de Suisy e Landolfo Brancacci partirono segretamente alla volta di Chinon, senza neanche rispettare la festa dell’Assunta. ...Continua...
...Vedi sopra... Clemente V li aveva nominati suoi plenipotenziari per condurre l’inchiesta sul Gran Maestro e i dignitari del Tempio che, dopo gli interrogatori, vennero trovati tutti colpevoli, anche se di un reato meno grave dell’eresia: l’apostasia. La studiosa italiana Barbara Frale ha rinvenuto agli inizi degli anni duemila negli Archivi vaticani un documento, noto come pergamena di Chinon, che dimostra come papa Clemente V intendesse perdonare i templari, assolvendo il loro maestro e gli altri capi dell'ordine dall'accusa di eresia, e limitarsi a sospendere l'ordine piuttosto che sopprimerlo. Il documento appartiene alla prima fase del processo, nella quale il pontefice ancora sperava di poter salvare l'ordine, seppure a costo di assoggettarlo ad una profonda riforma. L'inchiesta di Chinon, in ogni caso, ribadisce le pratiche indecenti e gli sputi sulla croce effettuate come rito d'iniziazione all'ingresso di un novizio nell'Ordine, pratiche di ancora dubbia origine e motivazione. Il documento risponde alla necessità apostolica di rimuovere dai frati-guerrieri l’infamia della scomunica nella quale si erano precedentemente invischiati da soli ammettendo di aver rinnegato Gesù Cristo sotto le torture dell’Inquisitore francese. Come confermano diverse fonti, il papa appurò che fra i Templari si erano effettivamente insinuate gravi forme di malcostume e pianificò una radicale riforma dell’ordine per poi fonderlo in un istituto unico con l’altro grande ordine religioso-militare degli Ospitalieri. L’atto di Chinon, presupposto necessario alla riforma, rimase però lettera morta. La monarchia francese reagì innescando un vero meccanismo di ricatto, che costringerà in seguito Clemente V a compiere un passo definitivo durante il concilio di Vienne. Infatti il vero obiettivo di Filippo IV è la riapertura del processo a Bonifacio VIII, sul regnante francese infatti, pendono ancora importanti documenti come l’Asculta Filii e soprattutto l’Unam Sanctam. In realtà Clemente aveva fatto eliminare dagl’atti del suo predecessore, tutti i passi che suonavano maggiormente duri contro il re; ma, questa situazione si presentava perfetta per utilizzare il processo a Bonifacio come merce di scambio per la distruzione del Tempio. Filippo auspicava di ripercorrere il processo fatto a papa Formoso (concilio del Cadavere), cioè: riesumare le ossa del falso papa Bonifacio VIII in procedimento che lo avrebbe dichiarato eretico, blasfemo, ateo, dedito alla stregoneria e ne avrebbe bruciato i resti alla maniera dei nemici della fede. In questo modo si sarebbe suggellato un capovolgimento nel sistema delle istituzioni: nel quale il potere laico carismatico della monarchia francese avrebbe guidato la società cristiana, se necessario in alternativa all’autorità papale. Nell’ottobre del 1308 scattò la prima mossa del piano regio: il vescovo Guichard di Troyes fu accusato di stregoneria e bruciato sul rogo nonostante lo stesso pontefice l’avesse in precedenza prosciolto. Così Filippo sperava di dimostrare che tutta la Chiesa romana era contaminata dall’eresia; pochi mesi dopo il cardinale Napoleone Orsini scriveva al re di aver trovato in Italia dei testimoni di massima autorevolezza che avrebbero provato la colpa di Bonifacio VIII. A questo punto il papa dovette cedere e lasciare l’Ordine al suo destino. In quanto capo della Chiesa di Roma egli era prima di tutto responsabile della sicurezza di quella istituzione, che il ricatto di Filippo avrebbe spezzato in due, in poche parole: il papa sacrificò i templari per evitare lo scisma. Nell’agosto del 1309 scrisse a tutti i vescovi della cristianità. La lettera spiegava a quanti fossero ancora in attesa di una nuova regola per i Templari, che questa non sarebbe mai avvenuta e per tanto li esortava a non rimandare oltre le udienze. ...Continua...
Buongiorno a tutti!!!!! So che è un po’ fuori dai temi che stiamo trattando, però mentre cercavo altri testi in biblioteca ho trovato un libro che spiega la Formula di Radbruch che abbiamo accennato qualche lezione fa parlando di altre cose. Ho pensato fosse interssante spiegare qui sul blog brevemente di che cosa tratta. Il libro di cui parlo è “Ultimi Scritti” di Giuliano Vassalli e il mio commento in particolare s’intitola “La formula di Radbruch” e riporta una conferenza dell’autore all’Istituto Luigi Sturzo il 6 dicembre del 2002. A questa fonte, ho aggiunto anche qualche spiegazione, forse più semplice trovata navigando in internet. Il contesto storico in cui nasce la formula è quella del processo alla Germania unificata per i delitti commessi dalla repubblica Democratica Tedesca. Si fa riferimento ai comportamenti omicidi dei soldati della ex DDR che, in esecuzione degli ordini, sparavano a chiunque tentava di scavalcare il muro di Berlino. Il nucleo della filosofia del diritto di Radbruch consiste nella separazione fra diritto positivo e idea del diritto. L'idea di diritto è definita mediante la triade costituita da , giustizia, utilità e sicurezza. Su questa triade si basa la formula. Il concetto di legge, per Radbruch, è "null'altro che il fatto che deve servire l'idea della legge." In breve, la formula di Radbruch postula che laddove la legge scritta sia incompatibile con i principi di giustizia sostanziale "ad un livello intollerabile", o la legge statutaria sia stata posta in essere esplicitamente in aperto contrasto con "il principio di uguaglianza che costituisce il fondamento di tutta la giustizia", la legge statutaria deve essere disapplicata dal giudice per ragioni di giustizia sostanziale. Il principio di diritto contenuto nella formula fu accolto dalla Corte costituzionale federale della Germania in diverse pronunce anche se con motivazioni diverse che vanno dal diritto naturale, alla illegalità che caratterizzava il regime dell’epoca, alla situazione eccezionale in cui è stata concepita. Vassalli, riporta però una critica, su cui si dibatte tutt’ora, alla formula: essa sicuramente ha gli intenti più nobili e consente di punire per i crimini di cui si è parlato i loro autori nonostante in quell’epoca non erano concepiti come tali, ma rimane pur sempre il fatto che così facendo si viola il divieto di retroattività della legge penale per intervento del solo giudice.
...Vedi sopra... Nello stesso mese, si insediò nel monastero di Sainte-Geneviève la Commissione ecclesiale d’inchiesta. Il 4 aprile del 1310, Papa Clemente rinvia il concilio generale di Vienne all'ottobre dell'anno seguente con la bolla "Alma mater" poiché, a suo dire, le commissioni hanno bisogno di tempo per completare le inchieste sui templari. Il rinvio serve a dare ossigeno al pontefice che sta cercando il modo di uscire dignitosamente e con le minori perdite dal duplice scontro (sul campo del processo templare e su quello del processo alla memoria di Bonifacio VIII) con le forze di Filippo il Bello. Nonostante nello stesso mese il Giureconsulto Pietro da Bologna, difensore degli imputati, abbia depositato un imponente memoriale di innocenza dei Monaci, nel settembre del 1310, centocinquanta Templari a Parigi affrontarono lo strazio del rogo, quali eretici relapsi, cioè ricaduti, perché, dopo aver negato le accuse, avevano confessato sotto tortura. Il 16 ottobre del 1311, si aprì solennemente la 1° sessione conciliare di Vienne. Vi parteciparono circa centosessanta personalità religiose, fra cui i quattro Patriarchi della Chiesa d'Oriente e i Presidenti delle commissioni inquirenti per discutere il destino della Terrasanta e la Riforma ecclesiastica e per emanare la sentenza nei confronti dei Templari: i Vescovi Jacques Duèze – in seguito Papa Giovanni XXII - e Guillaume Le Maire sostennero la sufficienza degli elementi di prova per condannare e sopprimere l'Ordine. Il 22 marzo del 1312 Clemente V con la Bolla Vox in excelso, abolì l'Ordine del Tempio: "…Considerati i sospetti, le infamie, le insinuazioni e le altre cose suddette avanzate nei confronti dell'Ordine e l'accoglienza segreta e clandestina dei fratelli del detto Ordine,nonché il distacco di questi fratelli dalle usanze, dalla vita e dalle abitudini degli altri seguaci di Cristo, per il fatto che soprattutto nell'accogliere i nuovi membri facevano loro fare professione e giurare di non rivelare a nessuno le modalità dell'accoglienza e di non lasciare l'Ordine, un comportamento a seguito del quale sorsero sospetti contro di loro; considerato inoltre il grave scandalo suscitato da tali cose contro l'Ordine e che non sembra possibile arginare se detto Ordine rimanesse in vita; considerati anche il pericolo per la fede e per le anime, nonché le molte azioni terribili compiute da numerosissimi fratelli di questo Ordine... che si sono macchiati dell'odioso peccato di apostasia contro Gesù Cristo, nostro Signore, del detestabile crimine di idolatria, dell'esecrabile oltraggio dei sodomiti... considerato anche che la Chiesa di Roma ha fatto talvolta sopprimere altri Ordini illustri per motivi molto meno gravi di quelli menzionati sopra: non senza amarezza e tristezza nel cuore, non con una sentenza giudiziaria, ma con un provvedimento o un'ordinanza apostolica, noi aboliamo il detto Ordine del Tempio, la sua Regola, il suo abito e il suo nome con un decreto irrevocabile e valido in perpetuo…"
Il Papa dice nella sua bolla che non saranno tollerate intromissioni di nessuno per quanto riguarda i beni stessi: ebbene sappiamo dalla storia che Filippo IV si appropriò di una buona parte di questi beni, senza autorizzazione, e il Papa stesso, quando vuole incamerare i beni dell'Ordine del Tempio, fa esattamente la cosa opposta. Infatti, con la bolla "Ad Providam Christi Vicari ", emessa il 29 maggio 1312, trasferisce i beni dei Templari ai Giovanniti, ossia ai Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni, gli attuali Cavalieri di Malta Il 3 aprile del 1312, Papa e Sovrano di Francia si presentano avanti al Clero ed ai Principi d'Europa: il cronista Guglielmo di Nangis riferì che ai presenti fu imposto il silenzio assoluto, pena la scomunica, e che poi fu data lettura dell’ordinanza di soppressione dell’Ordine. ...Continua...
...Vedi sopra... Il 6 maggio del 1312, la costituzione Considerantes dudum segnò le sorti dei singoli Cavalieri: quelli giudicati innocenti avrebbero goduto di una rendita commisurata al rango ricoperto nell'Ordine; nessuna pietà, invece, per i Relapsi. La soppressione dell'Ordine non era sufficiente, una dura condanna ai suoi massimi esponenti avrebbe dato maggiore peso e credibilità al provvedimento sancito a Vienna. A questo scopo si istituì una commissione presieduta, ancora una volta, da Marigny, il vescovo di Sans. Il 18 marzo del 1314, a Parigi, ebbe luogo l'evento. Dopo l'ennesima pubblica lettura delle imputazioni, si emise velocemente il verdetto: carcere a vita. Ai condannati non fu concessa la parola. Ma non sarebbe stato questo l'epilogo dell'assemblea. Guglielmo di Nangis, testimone oculare dei fatti, descrive in questo modo gli avvenimenti: «Proprio quando i cardinali credevano di aver concluso la faccenda, improvvisamente ed inaspettatamente, due di loro, il Gran Maestro ed il Gran Precettore di Normandia si difesero accanitamente, ritrattando sia le loro confessioni che quelle degli altri, tralasciando ogni ossequio, tra la meraviglia degli astanti». Il 18 marzo del 1314, il XVII ed ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay arse con Godfrey de Charnay sull’isolotto parigino della Senna detto dei Giudei. Pochi sanno, invece, della maledizione scagliata dal Gran Maestro, destinatari dei suoi strali furono coloro che lo avevano condannato: “Dio vendicherà la nostra morte …” urlò mentre gli accendevano il fuoco sotto i piedi. Sarà anche stato un caso ma, dopo pochissimo tempo, Clemente morì di dissenteria, fra atroci tormenti, mentre Filippo lasciò questo mondo cadendo da cavallo dopo una battuta di caccia. La maledizione si chiuse molti secoli dopo, precisamente nel 1793, quando il sovrano Luigi XVI fu ghigliottinato per opera (pare) di un boia iscritto al clandestino e mai morto ordine templare. “Jacques de Molay è ora definitivamente vendicato”, sembra che pronunciò mentre gli staccò la testa. In conclusione gli albori del XIV secolo videro una delle più grandi tragedie della storia della Chiesa, il processo contro i templari. Il loro ordine, che fino a quel momento godeva di grande reputazione e possedeva grandi ricchezze, venne accusato d'una serie di crimini dal re di Francia Filippo IV il Bello e dai suoi ministri. Il re, avvalendosi di un'Inquisizione manovrata dallo Stato, fece arrestare più di mille cavalieri, tanti ne fece torturare, molti li mandò al rogo. Papa Clemente V in un primo tempo s'oppose ad un simile atto di violenza, un atto che si faceva beffe d'ogni diritto. Ma alla fine cedette, e soppresse l'ordine con un decreto amministrativo. La responsabilità di questo, che fu forse il maggior assassinio giudiziario del medioevo, spetta soprattutto al re di Francia. Ma anche il papa mancò: si lasciò ricattare, divenendo anch'egli, in tal modo, persecutore dell'ordine che in realtà avrebbe dovuto difendere.
Le fonti che ho utilizzato sono: Frale, B., “I Templari” , il Mulino, 2004 Barber, M., “Processo ai templari Una questione politica” , ECIG, 2005 Frale, B., “I templari e la sindone di Cristo”, il Mulino, 2009
Buongiorno a tutti!! In questo commento vorrei riportare alcune riflessioni sulla peculiarità del diritto della Chiesa, in particolar modo del suo particolare e fisiologico intreccio con la filosofia cristiana e la fede. La fonte di riferimento è “Le basi del diritto canonico” di Giorgio Feliciani che si trova nella biblioteca della nostra facoltà.
Tradizionalmente il diritto della Chiesa è stato definito come l’insieme delle leggi promulgate o approvate dalla competente autorità ecclesiastica. La scienza moderna, ha corretto questa definizione affermando che esso comprende tutte le norme della Chiesa che disciplinano la sua struttura e i vari e complessi rapporti dei fedeli che ne costituiscono la relativa comunità. Questo punto è importante in quanto sottolinea un’evoluzione rispetto al passato che ha portato al riconoscimento che le leggi canoniche si occupano dei rapporti tra le persone umane appartenenti alla Chiesa, non a quelli con la divinità che invece riguardano esclusivamente la dimensione spirituale di ogni cristiano. Al diritto canonico, comunque inteso, si muove da sempre una critica: il fenomeno giuridico è incompatibile con l’essenza della Chiesa che ha al suo capo solo Cristo e che per i fedeli si configura come un’esperienza di carattere personale-spirituale. A questa critica rispondono le parole di Giovanni Paolo II che cercano di trovare un equilibrio: la legge della Chiesa c’è sempre stata, per la complessità delle relazione interpersonali che la caratterizzano e quindi ha sempre svolto un’ importante funzione ordinatrice. A queste sue parole si aggiungono quelle pronunciate all’indomani del Concilio Vaticano II che afferma con decisone che la Chiesa è la risultante di un duplice elemento, quello umano e quello divino (materiale e spirituale). Nulla però è stato detto in ordine al fondamento del diritto canonico e al suo legame con questo aspetto divino, con questa dimensione spirituale; perciò il dibattito è ancora aperto. Il Vaticano II ha sottolineato però che Cristo voleva una Chiesa visibile, composta da un popolo, una società e, è pacifico, dove vi è società, vi deve essere anche diritto per disciplinarla. Quindi il diritto canonico, svolgendo questa funzione, non appare in contrasto con il volere di Dio. Per capire però lo spirito animatore del diritto canonico bisogna partire dall’intima correlazione tra la Chiesa in senso materiale (la sua struttura) e l’etica cristiana, cosa che non avviene invece per il diritto statuale dove la scienza giuridica prescinde da qualsiasi fattore che non sia il diritto quale la politica.
Il diritto canonico si suddivide in diritto umano: emanato dall’autorità competente ecclesiastica e diritto divino che proviene invece direttamente da Dio. Quest’ultimo a sua volta si divide in naturale e cioè insito nella natura umana e positivo riportato, a seguito della Rivelazione, nelle Sacre Scritture così come approvate dal Concilio di Trento nel 1546. Il diritto divino naturale si caratterizza per l’immutabilità, l’eternità, mentre quello positivo è suscettibile di maggiori modificazioni in seguito all’evolversi della storia e della società. Caratteristica della cristianità e quindi anche del suo diritto, è sempre stata infatti, quella di riconoscere che i tempi mutano e di conseguenza anche i principi che regolano la vita dei suoi fedeli. Il diritto divino, si colloca in posizione di preminenza rispetto a quello umano, si è detto che rappresenta la base e il limite di esso. Il diritto umano, rappresenta la fallibilità dell’uomo, mentre quello divino la superiorità di Dio e quindi deve sempre e comunque prevalere. Da questo deriva la certezza del diritto canonico, qualora infatti le norme siano in armonia con i principi del diritto divino, che siano quindi in rapporto di ragionevolezza con esso, queste possono essere applicate. A questo discorso si collega l’istituto dell’equità canonica: il giudice, nell’applicare e interpretare le norme, deve sempre tenere conto del diritto divino e scegliere quelle che non sono in contrasto con esso. Il diritto canonico però si caratterizza anche per l’elasticità dei suoi principi: il giudice infatti, deve anche tenere conto di tutte le circostanza del caso concreto e qualora rinvenga elementi che potrebbero portare pregiudizi alla ratio della norma canonica, può non applicarla al caso di specie. Espressione di flessibilità sono anche la validità (seppur circoscritta) delle consuetudini contra legem e i vari diritti particolari soprattutto le dispense e i privilegi. Da quanto detto si intuisce, a mio avviso, una sostanziale particolarità del diritto canonico. Il diritto della Chiesa, oggi, è totalmente svincolato principi religiosi, come invece purtroppo avviene ancora in alcuni Paesi di altre religioni, ma allo stesso tempo non ne prescinde totalmente. Come disse Giovanni Paolo II, la Chiesa ha sempre e comunque come sua base la volontà di Dio, ma le norme del suo ordinamento sono adeguate alle esigenze dei tempi moderni e soprattutto si evolvono con la società stessa. La dimensione spirituale rimane però come canone ermeneutico e legislativo a sottolineare la peculiarità di questa istituzione. Il diritto canonico ha saputo quindi trovare un equilibrio tra le due dimensioni, quella spirituale e quella materiale.
Salve a tutti! Ho trovato particolarmente interessante la riflessione fatta in aula lo scorso mercoledì 'assunzione dei modelli romani da parte della Chiesa e viceversa ,anche attraverso l'equiparazione di reati laici a peccati cattolici.Il richiamo è alla equiparazioone tra la "lesa maestà" e "l'eresia" . Il rispetto mancato nei confronti della somma autorità pubblica e laica ,quale l'imperatore, veniva ad essere totalmente riproposto in ambito cattolico sotto forma di eresia mediante una equiparazione tra il sovrano ,come capo dei cittadini e in quanto tale degno del rispetto delle leggi positive da esso emanate e della sua persona, a Dio, al quale il cattolico doveva immolare la propria anima mediante il rispetto delle pratiche liturgiche e soprattutto mediante il rispetto delle leggi naturali e divine proprie della fede cattolica e cosi come intergrate dalla Chiesa.Questo perimise nel tempo un avvicinamento anche fra i sistemi processuali che si palesa in varie occasioni. Esempio ne è il processo ai Templari, cui abbiamo accennato a lezione. I Templari erano l'ordine cavalleresco della Chiesa che , sulla base di accuse infondate quali quelle di idolatria o di sodomia e ancora di eresia, vennero processati ma soprattutto torturati sulla base di una feroce pratica inquisitoria ,da Filippo il Bello il quale per l'occasione sotto taluni profili laicizzò il processo canonico . Effettivamente non soltanto nel processo penale è possibile rinvenire somiglianze, anzi più che somiglianze delle vere e proprie emulazioni. La consuetudine, ordinaria fonte di diritto , ad oggi menzionate in tale funzione all’articolo 1 delle preleggi al codice civile, è da sempre stata fonte normativa. La parola consuetudo (da “sueo o suesco “ che significa il ripetersi di azioni simili- più il prefisso “con ” che ne spiega la simultaneità- e il suffisso “tudo ” che ne indica la quantità astratta) designa giuridicamente il complessodi due elementi: a) la frequenza degli atti da parte di una comunità senza forza obbligatoria (elemento materiale o “consuetudo facti ”) ; b) il consenso del legislatore che fa della “consuetudo facti ” una vera “consuetudo iuris. ”
(... CONTINUA ....) Sin dagli albori la consuetudine venne quindi riconosciuta nel mondo laico nei limiti della sua compatibilità con la legge o negli spazi da questa lasciati vuoti. Sintomatico della reciproca influenza è il fatto che anche nel mondo canonico la consuetudine prende piede sotto forma di TRADIZIONE. Ovviamente avendo la Chiesa ripreso questa fonte dal mondo laico risulta chiaro il motivo per cui l’ istituzione cristiana si uniformasse, nei suoi primi momenti di vita, a quei principi della norma consuetudinaria che derivavano dal mondo romano, il quale proprio nel campo giuridico aveva raggiunto così alte vette di perfezione da essere Ineguagliato. E’ soltanto con il tempo e con “l’appropriazione” di questa fonte da parte del mondo canonico che esso imporrà al riguardo propri dettami tali da renderla più compatibile con il sistema cui avrebbe partecipato, un sistema basato non sulla legalità, ma sulla fede, su un messaggio morale che non poteva essere distorto dai comportamenti dei più. I fedeli erano soggetti che componevano la comunità cattolica e che erano governati e privati della capacità di legiferare, ma che allo stesso tempo avevano la capacità di far nascere la consuetudine che diveniva norma .Dall’altro lato però, sussisteva la concezione del diritto canonico, che poggiava e poggia sull’autorità del Papa, il solo che ha ottenuto la capacità di legiferare.In questo notiamo la prima esigenza di differenziazione rispetto alla consuetudine laica. La Chiesa non poteva permettere che il fedele con i suoi comportamenti condivisi creasse delle tradizioni lontane dal messaggio evangelico interpretato dalla Chiesa o letterale che fosse. Ecco quindi l’introduzione di un parametro integrativo a seguito della sua previa coniazione in dottrina ,che potesse “tutelare “ il messaggio cattolico da precetti impuri nati dalla tradizione del popolo.E’ nella decretale “Cum Tanto” di Gregorio IX, che viene espressamente sancito il riconoscimento della consuetudine rispettosa della legge vigente, mentre nel caso di una consuetudine contraria alla legge essa era valida solo se “rationalibus”.La rationabilitas risulta essere un requisito morale al quale si deve uniformare la condotta umana o meglio la condotta della comunità, in modo che tale comportamento, quando sia conforme alla ragione, possa diventare giuridicamente rilevante.La ratio, secondo Calasso, è la rispondenza della norma umana alla veritas, vale a dire alla norma divina, in questo senso ”ratio et veritas ” assumono la valenza di un binomio tradizionale nella Chiesa. L’antica dottrina del diritto canonico dunque si è servita del concetto di ratio e di quello di veritas per limitare, nelle comunità cristiane, il proliferare di usi e di consuetudini contrarie ai dogmi della Chiesa.
(...CONTINUA...) Sempre secondo Calasso: ”….per il diritto romano noi non possiamo affermare, con sicurezza, cosa valesse una consuetudine contra rationem, anche perché ignoriamo che cosa esattamente si intendesse per ratio: sappiamo ad ogni modo che, se si trattava di consuetudine fondata sopra un errore logico, poteva ugualmente diventare obbligatoria nel tempo. Per la Chiesa invece una consuetudo irrationabilis non è ius, ma error vale a dire una deviazione dalla veritas e quindi va respinta come “corrotta o eretica.” Da questa ricerca ho potuto consolidare la mia convinzione circa l'effettività della reciproca influenza tra i due ordinamenti. Essi si ispirano e si copiano reciprocamente, adattando poi i singoli istituti ai propri principi e ai propri sistemi , e questo è normale, o quanto meno semplicemente più frequente in sistemi che convivono, che spesso hanno come destinatari gli stessi soggetti ,e che quindi si trovano ad agire, seppur su profili differenti, sullo stesso terreno. D’altronde anche ad oggi, la nostra costituzione, ma anche più in generale la cultura italiana si poggia molto sulla tradizione cattolica.
riguardo l'istituzione universitaria Bolognese, G. CASSANDRO si sofferma sulla genesi e l'inquadramento dell'insegnamento del diritto. La rinascita degli studi giuridici a Bologna prende le mosse da un rinnovamento culturale che riguarda varie zone d'Europa. Come dice GOETZ, tra l'XI e il XII secolo la cultura medievale si riveste dei panni classici. Ne è un esempio la scuola di arti liberali francese impostata sulla riscoperta logica aritotelica che diventerà un caposaldo di autorevolezza di tutta la cultura occidentale. Le arti liberali, quelle del trivio erano impostate su tre grandi insegnamenti: Grammatica, Retorica e Dialettica; il trivio si contrapponeva al quadrivio (Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica) ed erano entrambi propedeutici all'insegnamento teologico e filosofico. Manca chiaramente in questo periodo la specializzazione tecnica in determinate professioni umanistiche (tra cui il diritto) il matematico diventa giurista a tempo perso così come l'astronomo è anche musicista. Questa concentrazione di sapere direi che non è mai venuta meno: Galilei, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Sant'Alfonso, coniugano le arti alla scienza, alla filosofia, alla teologia, in maniera quasi naturale e automatica; lo stesso Irnerio era in primo luogo un grammatico. Questo legame resterà fino ai giorni nostri nel legame indissolubile tra filosofia e fisica. Forse il fatto si può spiegare dal fatto che il sapere ha una potenza attrattiva nei confronti di altro sapere. O meglio il troppo sapere spesso sconfina in altri ambiti nella curiosità ormai esaurita di chi, competente nel suo ambito cerca nuovi stimoli in altre discipline. Insomma nell'ambito del trivium particolare importanza acquisisce il diritto nelle figure del Magister artium e del Causidicus, che designano il legis doctor delle scuole di perfezionamento legale. Pur con alcuni barlumi come Pepone che fu addirittura definito aurora surgens del diritto civile, fu Irnerio il primo a scrivere le glosse e dare sistematizzazione al diritto.
RispondiEliminaGli studenti sono affascinati dalle lezioni bolognesi, si uniscono nella università. L'amore per l'antichità contagia tutti. Per Irnerio "studere" significa affaticarsi, travagliarsi, logorarsi. Ed è un travaglio non solo psicologico in quanto questi studenti dovevano lasciare la patria ed esporsi a gravi pericoli: non c'erano strade, i trasporti erano insicuri, essi per recarsi a Bologna erano disposti anche a rischiare la vita: amore scientiae facti exules, de divitibus pauperes semetipsos exinaniunt, vitam suam periculis exponunt. Questa societas di studenti e di maestri, a differenza della scuola parigina non divenne mai una istituzione dell'Impero che, non essendo più una fonte viva di diritto a differenza della Chiesa e si avvaleva dell'università. Ecco che nella pretesa di universalismo ormai al Regnum e al Sacerdotium si affianca anche lo Studium che si eleva e si fonda sopra l'autorità della parola scritta e tramandata dai padri della Chiesa, dai Concili, da Aristotele... Studiare il diritto romano significò studiare il diritto senz'altro. Il diritto diventa una scienza autonoma ovviamente collegata alle altre arti, ma non necessariamente, e accende la sua fiaccola a Bologna iniziando la sua marcia vittoriosa in tutta Europa (KONRAD). La nascita dela scuola giuridica bolognese non va ricercata nello sviluppo delle città italiane a liberi comuni, in quanto il Corpus iuris non è l'immagine dell'uomo nuovo secondo WIEACKER, ma si pone come libro sacro della forza creatrice della cultura pura. Lo stesso ragionamento lo si ritrova nel sistema politico in cui l'auctoritas imperiale è affiancata dalla potestas regia. Anche nello Studio l'auctoritas Giustinianea è affiancata dalla potestas accademica, dall'interpretazione delle glosse che traggono la loro legittimazione dal fatto di essere strumentali alla comprensione di un'opera di tale autorevolezza come il corpus iuris. Riguardo al rapporto tra "praxis" giuridica e "scientia" medica, l'autore sottolinea il fatto che in questo periodo lo studio del diritto si connotra soprattutto sulla ricerca storica delle fonti, mentre la scienza medica che pure a Bologna sappiamo essere molto sviluppata, poteva ben poco mutuare dalle conoscenze mediche della Grecia antica, in quanto doveva fronteggiare numerose nuove epidemie.
RispondiEliminaNella lezione di oggi è emerso il tema del delicato rapporto tra Università e Papato. Giovanni De Vergottini in “Lo studio di Bologna, l’impero, il papato.” ci dice che l’interessamento del Papato per lo studio di Bologna nasceva da motivi fondamentali. In primo luogo nel Medioevo aleggiava l’idea che tutto il sapere era un dono di Dio e che tutta la cultura veniva considerata una preparazione allo studio della “sacra pagina” (cioè della teologia). Perciò ogni scuola superiore era considerata soggetta in linea di principio ad un controllo delle autorità ecclesiastiche e del Papato (che ebbero inevitabilmente anche lo scopo di vigilare su ogni eventuale infiltrazione ereticale). In secondo luogo la maggior parte degli studenti e dei professori di diritto erano degli ecclesiastici; era perciò logico che, oltre alle autorità ecclesiastiche locali, con a capo il vescovo e l’arcidiacono della cattedrale, anche il Papato s’interessasse costantemente all’istituzione che li raccoglieva, alle scuole che essi frequentavano. Una prima valorizzazione indiretta dello studio potrebbe essere considerata la concessione di Papa Eugenio III a Bulgaro nel 1151 della cognizione di una causa che egli riteneva di competenza dell’autorità ecclesiastica. Ma un intervento papale diretto e sicuro si ebbe con Alessandro III il quale concesse ad un “magister” inglese, scolaro a Bologna, due prebende inglesi ed il loro godimento durante gli anni di studio all’Alma Mater, in deroga alle norme canoniche che per ciò imponevano l’obbligo della residenza. Il grande interesse del pontefice per lo studio è testimoniato dal fatto che Alessandro III inviò ben sei lettere al re Enrico II d’Inghilterra perché questi con il suo appoggio garantisse l’esecuzione del privilegio papale. Da allora in poi non si contano più gli interventi continui dei diversi papi a favore diretto e indiretto dello studio. Clemente III intervenne nel 1189 per regolare i prezzi delle locazioni degli hospicia agli studenti. Innocenzo III, allievo di Uguccione da Pisa, inviò all’Università di Bologna la sua raccolta di Decretali nota come “Compilatio Tertia” nel 1210 perché venisse adoperata, come abbiamo visto a lezione, “tam in iudiciis quam in scholis”. Seguendo indubbiamente l’esempio inaugurato dagli imperatori svevi per la promulgazione delle proprie costituzioni, papa Innocenzo III diede il via ad un sistema che sarà impiegato da tutti i successivi papi legislatori: da Onorio III nel 1226 per la sua “Compilatio Quinta” a Gregorio IX per il suo “Liber Extra” nel 1234, da Innocenzo IV per le sue Novelle nel 1253, a Bonifacio VIII per il suo “Liber Sextus” e a Giovanni XXII per le Clementine nel 1317. Ma il grande difensore degli studenti bolognesi fu Onorio III che intervenne più volte in loro favore contro le intromissioni del comune. Non a caso fu proprio il pontefice Onorio III che, eletto arbitro delle controversie tra Federico II e la Lega Lombarda, obbligò l’imperatore a revocare la costituzione che ordinava, tra l’altro, la soppressione dell’Università di Bologna.
RispondiElimina(...continua...)
..Un altro po’ di storia..
RispondiEliminaLa Respublica christiana si realizza compiutamente soltanto con l’affermazione della tendenza teocratica che, rovesciando lo schema cesaropapista (idea di unire potere temporale e spirituale), pone al vertice dei poteri quello pontificio, pur in una dialettica costante tra papato ed impero.
Come il cesaropapismo non si è mai realizzato nella sua forma perfetta nella storia cristiana (Cesare non assume mai direttamente su di sé tutti i poteri ecclesiastici), così la forma perfetta di teocrazia, potremmo dire, che non è mai stata negli obiettivi della Chiesa di Roma.
Il papa non ha mai voluto farsi imperatore, ma ha preteso di assoggettare l’imperatore al proprio controllo, rendendo lui e le altre autorità civili esecutori delle leggi, delle decisioni, della Chiesa.
Di qui il conflitto che caratterizza l’epoca teocratica tra papato ed impero, dal momento che l’impero pur accettando la logica confessionista del sistema non accetta mai la subalternità piena al papato.
Gregorio VII è il primo a spezzare il tabù del primo millennio affermando per la prima volta che il papa può deporre l’imperatore ratione peccati, quando cioè l’imperatore, in quanto civis – fidelis sottoposto alla sua giurisdizione spirituale incorre in qualche colpa grave che legittima l’adozione di sanzioni spirituali.
Dopo una serie di deposizioni di imperatori, che testimoniano delle sempre maggiori pretese pontificie, vengono eletti due imperatori, Filippo e Ottone. Innocenzo III si schiera a favore di Ottone e con la bolla Venerabilem del 1202 sostiene che la Chiesa ha operato la translatio imperii da Oriente in Occidente, che questa scelta originaria le dà il potere di vigilare perché l’elezione dell’imperatore avvenga in forme legittime anche valutando la personalità, i meriti, le colpe dei contendenti : “siamo noi che diamo l’unzione, la consacrazione e l’incoronazione (…).
Lo stesso Innocenzo III scomunica Ottone quando questo entra nel regno di Sicilia e lo fa imputandogli di aver violato giuramenti e impegni scritti, contro il diritto e gli ammonimenti della sede apostolica.
Sorte non dissimile, anzi peggiore, tocca a Federico II che viene scomunicato nel 1227 e nel 1239.Dopo la seconda scomunica Federico II affermerà che il potere reclamato dai pontefici è ormai senza confini e che se oggi era rivolto contro l’Impero, domani si rivolgerà contro gli Stati e i singoli sovrani.
In realtà però il sogno teocratico si infrangerà contro Filippo il Bello che riesce sul finire del trecento ad umiliare il papa Bonifacio VIII, ed a cambiare il corso della Chiesa e d’Europa.
C. Cardia – Principi di diritto ecclesiastico
Serena Pecci
L’interessamento del Papato nei confronti dello studio crebbe ancora di più quando nel 1278 Bologna divenne terra della Chiesa ed i papi cumularono di fronte allo studio la figura di capi supremi della Cristianità e quella di sovrani temporali della città in cui l’Università sorgeva. Da allora in poi, ribadisce il De Vergottini, assistiamo al moltiplicarsi di provvedimenti a favore dello studio: nel 1291 papa Nicolò IV conferiva ufficialmente valore universale alle lauree conseguite nell’Alma Mater in diritto civile e canonico; nel 1360 papa Innocenzo VI istituì a Bologna la facoltà di teologia. L’Autore ci ricorda che però non tutta l’attività dei papi fu sempre a vantaggio dello studio. Ad esempio il primo contatto tra Papato e lo studio bolognese non fu tanto felice dal momento che la scomunica del Concilio di Reims del 1119, presieduto da papa Gelasio II, contro Irnerio, che venne sospeso dall’insegnamento, procurò conseguenze negative all’Università sorta da pochi anni. O ancora in seguito a conflitti con il comune, i papi da Innocenzo III a Alessandro IV nel 1211 e nel 1259 dopo aver scagliato la scomunica sui suoi capi e l’interdetto sulle città ordinarono, (o meglio minacciarono), agli scolari di abbandonare Bologna, volendo sospendere completamente la vita dello studio.
RispondiEliminaMa i danni di questi provvedimenti se furono certamente gravi provocando talvolta anche diaspore rovinose, sono da valutarsi, sotto un profilo generale, modesti di fronte ai vantaggi che lo studio ebbe dall’interessamento papale costante per il corso di ben tre secoli del Medioevo.
Laura Infante
Visto che vi è evoluzione in ogni cosa, ho ritenuto opportuno affrontare il discorso sull’evoluzione della figura del “glossatore”, che oramai compare anche nei testi di materia canonistica.
RispondiEliminaIl diritto civile, vede come protagonisti i glossatori, i quali attraverso la loro metodica e scrupolosa attività di esegesi grammaticale e teorica, non solo raggiunsero la piena padronanza del Corpus iuris, ma resero quest’ultimo effettivamente applicabile alla vita giuridica contemporanea. La scena giuridica civilistica, dopo il periodo postaccursiano, accoglie le innovazioni dei commentatori, i quali, attraverso un lavoro analitico e attraverso la tecnica del sillogismo (tesi-antitesi-solutio) intendevano raggiungere l'interpretazione della norma.
Con la ribalta del potere ecclesiastico e con questa ripresa della sovranità da parte del Papa, si ha una maggiore immissione della Chiesa nel diritto e nella dottrina. Si incominciò a sentire l’esigenza di creare, anche nel diritto canonico, un testo che racchiudesse tutte le norme ecclesiastiche. Prendendo a modello il Corpus Iuris, si volle redigere un testo completo , per rendere stabile quel diritto che era così labile. Fino ad ora, la Chiesa aveva una forte certezza nel potere, ma non nel diritto, e ciò è dimostrato da come il diritto canonico venisse applicato caso per caso, creando molte “deroge/dispense” al diritto stesso e da come vi fossero molte fonti da Pontefici diversi, così da creare un enorme confusione.
Con il Decretum di Graziano, inizialmente conosciuto come Concordia Discordantium Canonum poichè cercava di risolvere le contraddizioni createsi nel diritto canonico, si incomincia a vedere una certa unificazione normativa ( precedentemente ad esso, vi era un’emanazione di decretali e lettere decretali, cosidette “ volanti” ).
Grazie a questa crescita prorompente della normazione papale e a queste composizioni normative così elaborate che si inizia a sentire la pressione per un aggiornamento del diritto canonico. In questo modo nasce la “scuola” dei canonisti che è formata da due sottogruppi, una chiamata di decretisti, studiosi specialisti nel Decretum, mentre si chiamano decretalisti, i giuristi che posero ad oggetto della loro attività scientifica lo studio e l’esegesi delle fonti del diritto canonico successive al Decretum Gratiani.
L’intento da cui essi erano mossi era quello di individuare e scindere in ogni norma il fatto umano, valutabile in termini giuridici, dal fattore spirituale, afferente alla sfera religiosa, usando gli stessi strumenti interpretativi adoperati dai giuristi civilisti: casus, quaestiones, distinctiones e summae.
I decretisti ed i decretalisti hanno scritto "summe", grandi sintesi, e "lecturae" (commenti da una linea alla linea seguente). Hanno fatto dei commentari ai tutti collezioni papali nel forma di una glossa ordinaria ("di riferimento"), un commento considerato fondamentale.
Tra i più famosi decretisti troviamo Uguccione da Pisa, ( prima metà secolo XII - Ferrara 1210),glossatore canonista e lessicografo. Legò il suo nome ad un’ampia summa sul Decretum Gratiani che ben presto si impose come il più esaustivo commentario dell’opera di Graziano.
Nella sua attività scientifica egli tenne a distinguere tra glossa e commento : mentre nella glossa, egli osservava, si preoccupava di fornire il significato letterale (litera) del testo normativo, il commento si preoccupava di enuclearne il contenuto, ossia lo spirito (sensus).
Mentre per quanto riguarda i decretalisti , Goffredo da Trani , Enrico da Susa ( cardinale Ostiense ) , Sinibaldo Fieschi, Giovanni Teutonico e Bartolomeo da Brescia ( allievo di Tancredi, l’arcivesco citato da Onorio III nella Compilatio Quinta), sono i canonisti che dettero al Decreto, la glossa ordinaria, che fu destinata ad accompagnare definitivamente il testo di Graziano, come l’apparato di Accursio accompagnò quello di Giustiniano.
La diffusione della scientia iuris canonistica e delle relative scuole investì immediatamente tutto l'Occidente cattolico.
continua dal commento precedente..
RispondiEliminaI maggiori esponenti di questo “movimento” meritano un maggior approfondimento ;
Goffredo da Trani, celebre glossatore canonista ed allievo di Azzone, fu il primo autore di una summa alle Decretali. Attraverso la rivisitazione del modello dottrinale imposto proprio dalla summa azzoniana, Goffredo mirava al superamento della tradizione della glossa, considerata oramai, a fine Duecento, un ostacolo all’interpretazione della ratio testuale. Quest’opera in definitiva rappresenta un vero e proprio capolavoro della scienza giuridica tardo-medievale e si pone come modello per la tradizione dottrinale tre-quattro e cinquecentesca.
Mentre, Sinibaldo Fieschi, anche noto come papa Innocenzo IV, il cui commentario alle Decretali è noto per le idee originali e per la particolarità più unica che rara di essere stato composto durante il pontificato. Egli fu anche legislatore ( e qui rientra in gioco la figura del papa-legislatore ). Innocenzo IV apportò un grande contributo al diritto privato, configurando per la prima volta l’ente collettivo astratto come persona ficta, cioè l’immagine della persona giuridica.
Enrico da Susa, ebbe nel 1262 la nomina a cardinale vescovo di Ostia ed è sempre stato chiamato l’Ostiense. Egli compose la summa del Liber Extra, opera che conobbe un grande successo e diventò subito il vade-mecum dei canonisti. Enrico da Susa, fu uno delle figure più caratterizzanti nella comosizione dell’ utrumque ius ( unione del diritto civile e canonico ).
L’utrunque ius, diritto comune, era composto da una specificità canonistica e da una equitas canonica ( contratti), normalmente rivolto ad una società sacra : salus animarum, ratio peccati vitandi, ratio scandali vitandi (rigor / moderatio - temperatio / relaxatio / dissimulatio - temperantia). Include anche delle norme appartenenti al processo romano-canonico, che si avvale di procedure da entrambe le giurisdizioni.
A questo proposito mi sono posta delle domande;
ma nell’utrunque ius, il quale si avvale di norme appartenenti al processo romano canonico, come ci si pone rispetto alla differenza tra il processo chiaro e pubblico e quello inquisitorio? Quale prevale ? e per quanto riguarda la dicotomia natura e miracolo vs ordinamento e papato (segretezza della chiesa, tramite il quale la chiesa esprimeva la sua sovranità, che è in contrasto con la legalità- pubblica) ?
Francesca Finocchi
PERCHE’ NEL XXI SECOLO HA ANCORA SENSO PARLARE DI HARD LAW?
RispondiEliminaLa dicotomia soft law/hard law ci trascina in un interessantissimo dibattito sulle sfide del moderno operatore del diritto,diviso tra un ordinamento giuridico in crescente espansione relativamente al moltiplicarsi dei livelli normativi cogenti e le esigenze di certezza del diritto che si frappongono all’odierno fenomeno della segmentazione del diritto,interessandolo sotto un duplice profilo quello del giurista e quello parallelo forse in disuso del teorico del diritto.
La vexata quaestio,che abbiamo visto essere di antichissima origine, si snoda a parer di chi scrive su due poli distinti e fondamentali:l’area di ciò che è chiamato mirabilmente principio di legalità ,con tutto ciò che si riversa nella esigenza di tipicità e certezza del diritto e che si traduce nell’anelito che un razionale sistema giuridico possiede inevitabilmente e l’opposta area della frammentazione del diritto,che si fa portavoce di un istanza per così dire naturale del diritto,la sua intrinseca fluidità che reagisce su sistemi sociali in perenne divenire.
L’affanno alla legalità è un sentire lontano che si appalesa soprattutto in momenti di intensa evoluzione e trasformazione del diritto medesimo: il legislatore morto che consegna tutta la sua auctoritas al testo scritto stabile e quindi perfetto e che si contrappone incessantemente al legislatore vivo custode della libertà del diritto, è sicuramente di giustinianea memoria ma infuoca i fondamentali e originari secoli XII e XIII , per divenire maestro di quelle schiere di complilatori che a cavallo tra settecento e ottocento si affannano, anche con esiti anacronistici(BGB), avviandosi nell’accidentata strada della codificazione.
La legalità,o meglio il principio di legalità si traduce di fatto nella tipizzazione e la tipizzazione o tipicità si atteggia a condicio sine qua non della certezza del diritto:questo è un passaggio fondamentale. Ora la tipizzazione è negli ordinamenti di diritto la giuridicizzazione del mondo fattuale,delle istanze nascenti dal sentire sociale,del potere che viene esercitato da gruppi direttamente esponenziali della sovranità dell’ordinamento medesimo. Per quel che più ci può interessare in questa sede, il tipizzare indica un’ operazione delicata di qualificazione,ovvero di attribuzione o riconoscimento di determinate caratteristiche in relazione ad un tipo,un canone(lo chiamo azzardatamente così);la tipizzazione quindi è grande prova di razionalità del sistema, è simbolo del controllo che il sistema ha esercitato su stesso e continua ad eserciatre sulle proprie valvole di sfogo o scappatoie. Poiché la legalità è anche e soprattutto prevedibilità degli strumenti e delle soluzioni giuridiche che l’ ordinamento ha predisposto ,la tipicità viene a coincidere con la conoscenza e la conoscenza con la certezza giuridica,affinchè si formino operatori del diritto coscienti dello scibile normativo e fruitori del diritto consapevoli,laddove però la conoscenza degrada a conoscibilità potenziale.
...SEGUE...
RispondiEliminaE’ intuitivo capire a questo punto perché la stratificazione normativa,la tumultuosa concorrenza delle fonti,la frammentazione del diritto mini alla certezza e sicurezza del sistema,che è a mio parere una aspirazione irrinunciabile di ogni ordinamento giuridico. Ecco che nell’XI secolo la ricerca smodata di fonti e auctoritates, in archivi e biblioteche impolverati da secoli di oblio, per sostenere e sconvolgere orientamenti consolidati minaccia proprio quell’esigenza di prevedibilità delle risposte normative, che si traduce in una odiosa vulnerazione del legittimo affidamento che un soggetto ripone nel suo ordinamento. Il fatto che l’Alto Medioevo sia improntato non alla tipicità,ma al caos normativo legittima che ad un certo momento un certo operatore del diritto a vario titolo-giurista o causidico-possa ribaltare soluzioni giuridiche offerte e collaudate da secoli.E’ questo il senso di Marturi e dell’aneddoto che ci riporta Cortese in cui vediamo Pepo,doctor legis, che alla corte di Enrico VII e di fronte ad un caso di omicidio deroga alla legge longobarda a favore di un pastrocchio normativo, in cui si mescolano teologia,Antico Testamento,diritto romano e quant’altro. Il quadro che eredita Irnerio è spaventosamente pericoloso. L’attaccamento irneriano e dei glossatori al testo non è esigenza ottusa: non c’è scienza senza testo e soprattutto senza testo stabile e perfetto, è posizione di rifiuto di un ordinamento incerto. La razionalizzazione ottenuta dalla Scuola di Bologna anche se reagiva su un testo tecnicamente imperfetto rappresentava una conquista troppo importante per poter essere ceduta agli umori dell’imperatore. La chimera –come alcuni vogliono- inseguita di un sistema esauriente in cui “omnia inveniuntur” e la posizione di esclusività rivendicata a favore dei giuristi faceva dei glossatori degli autentici signori del diritto,nel senso che essi erano depositari di fatto del potere si stabilire cosa fosse diritto e cosa non. Che poi ciò fosse smentito dal fatto che vi fossero veri e propri centri di produzione del diritto, vivi ed in evoluzione come la legislazione imperiale e gli statuti comunali,questo poco importava ai glossatori quando il contraltare era costituito dall’aver costruito per la prima volta dopo Giustiniano il “sistema”.
Operando un brusco tuffo nell’attualità ciò che mi preme dire e dimostare è che la creazione di soft law è il frutto di quella frammentazione del diritto tra più livelli strutturali,che preferisco chiamare segmentazione,ormai inevitabile data la perdita di centralità dell’ordinamento statale. La cedevolezza di quest’ultimo di fronte a centri di produzione giuridica non sempre istituzionalizzata comporta la creazione di costellazioni normative che rischiano di frastornare il giurista e di rendere molto più complicato ed incerto il lavoro di conoscenza del sistema e di offerta di soluzioni sicure. Se cioè il moderno operatore del diritto( che oggi è tanto il giudice quanto il difensore) è costretto a dipanarsi tra una miriade di fonti del diritto,che indirettamente e spesso anche inconsapevolmente sono ingurgitate dall’ordinamento in maniera esponenziale, fino a che punto la sua conoscenza si spingerà consentendogli di trovare una soluzione stabile che all’indomani non venga smentita dal“ritrovamento” di un segmento normativo che legittima una soluzione opposta?
Sotto il profilo della certezza del diritto poi, come approntare tutela al legittimo affidamento del soggetto sulla prevedibilità delle risposte offerte dall’ordinamento,con tutti i fondamentali risvolti in materia penale?
Forse un ripensamento dell’hard law in termini di economia ed efficienza del sistema potrebbe essere la risposta che stiamo cercando.
MARTA CUBISINO
Abbiamo fatto una breve ricerca sui sistemi di eccezione, utilizzando principalmente come fonti la rivista Quaderni Storici 131/2009, richiamata nella lezione di lunedì e un articolo di Paolo Persichetti tratto da una pagina di Liberazione del 2004.
RispondiEliminaNon sempre si è avuta la stessa concezione di Stato d’eccezione.
Nell’epoca del diritto comune, per eccezione si intendeva ” il fatto che esce dalla normalità”, un anomalia, un qualcosa che è fuori dall’ordinario, ma non per questo esterno all’ordine giuridico; l’eccezione non si traduceva quindi in una “mera condizione di pienezza dei poteri correlata a una sospensione dei principi fondamentali dell’ordinamento”.
Nella dottrina medievale e moderna l’eccezione era intesa come fenomeno più ampio di quello che oggi viene concepito come stato d’eccezione, includendo tutte quelle forme di tradimento della regola che caratterizzavano la vita del diritto, più che la sua sospensione. Un ruolo chiave nel concetto di eccezione veniva svolto dalla categoria dell’extraordinarium . Posta nel campo della straordinarietà infatti l’eccezione alla regola veniva proposta come un diritto singulare o temporale in quanto espressione di un caso specifico meritevole di apprezzamento giuridico, rimedio necessario che serviva a supplire all’ordinarium dove questo risultasse carente ( ad esempio quando si manifestava un caso nuovo o vi fosse una ragione riconducibile a un’utilità pubblica) . Interessante è proprio il rapporto tra extraordinarium e ordinarium : la straordinarietà infatti per manifestarsi presupponeva necessariamente l’esistenza della dimensione ordinaria, non solo come termine di confronto, ma anche come approdo potenziale del proprio divenire. Lo straordinario in poche parole tendeva a trasformarsi in ordinario. Da tale processo di convergenza dialettica l’ordinamento traeva linfa per il proprio sviluppo e aggiornamento; in questo senso Meccarelli, autore dell’articolo, sostiene che la coppia oppositiva ordinario-straordinario rivestisse una funzione strutturante l’ordine giuridico.
continua...
Alessandro Sonnino e Ruben Benigno
Carl Schimtt si è occupato dello Stato di Eccezione in due opere, “La Dittatura” e “Teologia Politica”. Nella prima Schmitt considerava lo Stato di Eccezione come espressione della dittatura e quindi una condizione di sospensione del diritto. Nella Teologia Politica stabiliva invece una relazione diretta tra il tema dello Stato di Eccezione e quello della sovranità, essendo il sovrano stesso definito come “colui che decide sullo stato di eccezione”. La sovranità, secondo il giurista, si fondava non sulla norma ma su una decisione politica; sovrano era infatti colui che, partendo dallo stato d’eccezione, visto come assenza di qualsiasi norma, decideva istaurando un ordine; ed era proprio da tali decisioni che traeva origine la politica.
RispondiEliminaGiorgio Agamben, nel volume “Lo Stato d’Eccezione”(2003) ci offre una visione diversa del fenomeno. Secondo il filosofo lo Stato d’eccezione è uno spazio vuoto di diritto, una zona in cui tutte le determinazioni giuridiche sono destituite, una sospensione dell’ordine costituzionale vigente, effettutata dalla stessa autorità statale che dovrebbe essere garante della legalità, definizione che sembra contrastare con l’idea di eccezione propria del periodo medievale, dove, come sopra riportato, l’eccezione non era esterna all’ordine giuridico e non era correlata a una sospensione dei principi fondamentali.
L’idea di sospensione è invece centrale nel pensiero del giurista. Per enucleare la sua nozione di stato di eccezione, egli parte infatti dallo iustitium (letteralmente arresto sospensione), considerando tale istituto una sorta di archetipo dell’eccezione stessa. Si trattava di un provvedimento Proclamato dal Senato Romano in caso di tumulto, di concreto pericolo per la Repubblica, con cui si chiedeva ai consoli, ma al limite ad ogni cittadino di assumere qualsiasi misura che fosse necessaria per la salvezza dello Stato; in forza di ciò ciascuno doveva essere lasciato libero di agire in tal senso, anche compiendo azioni che in un’altra situazione avrebbero potuto essere considerate contra legem. Il iustitium "aboliva il divieto, stabilito dalla Lex Sempronia, di mettere a morte un cittadino romano senza ricorso ad un giudizio popolare . Nel iustitium, si verificava insomma una sospensione della legge . Dall’analisi dell’istituto romano Agamben arriva a scardinare il concetto di eccezione da quello di dittatura, in aperto contrasto con altri giuristi (primo su tutti lo stesso Schmitt); secondo il filosofo infatti con la sospensione del diritto non si ha la creazione di una nuova “magistratura”.
Lo stato di eccezione è presentato da Agamben come una soglia oltre la quale vengono meno le tradizionali differenze fra democrazia, assolutismo e dittatura. Dall'inizio del secolo «la creazione volontaria di uno stato di eccezione permanente è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici».
Agamben rileva un esempio di Stato d’eccezione anche nel nostro ordinamento : il ricorso sistematico della decretazione d'urgenza e al dispositivo delle deleghe legislative concesse all'esecutivo.
Alessandro Sonnino e Ruben Benigno
Salve a tutti!!!
RispondiEliminaDal testo “Le basi del diritto canonico” di Giorgio Feliciani che si trova nella biblioteca della nostra facoltà, ho trovato un interessante paragrafo che spiega quali sono oggi le fonti del diritto canonico.
Ne riporto un riassunto:
Il codice di diritto canonico non contiene una definizione di legge, ma tradizionalmente seguendo la dottrina di San Tommaso D’Aquino la Chiesa ritiene vincolanti soltanto le norme emanate dall’autorità competente se dotate di ragionevolezza.
Il codice però riporta le caratteristiche che esse devono avere:
- canoni 20 e 21: le leggi si presumono perpetue, cioè in vigore fino a una loro abrogazione
- canone 7: le leggi necessitano di una promulgazione in forma solenne da parte dell’autorità per essere portate a conoscenza della comunità e la vacatio legis è di 3 mesi per i provvedimenti di carattere generale e di 1 mese per quelli di carattere particolare.
- Canone 9: per quanto riguarda l’efficacia temporale le leggi valgono solo per il futuro (irretroattività)
- Can. 13: per quanto riguarda invece l’efficacia spaziale, le leggi si presumono territoriali e cioè valide per una specifica comunità a meno che non sia prevista l’efficacia generale.
- Can. 11 : i soggetti destinatari del diritto canonico sono quelli battezzati o accolti comunque nella Comunità di età superiore ai 7 anni.
Le leggi pontificie vengono emanate con le bolle che possono essere brevi se meno solenni, motu proprio se emanate di iniziativa personale del Papa e chirografi se scritte o sottoscritte di suo pugno. Gli atti più importanti prendono il nome di Lettere Apostoliche, quelle indirizzate a tutti invece sono le Lettere Encicliche e le Epistole Apostoliche riguardano questioni meno importanti.
L’interpretazione autentica (cioè effettuata direttamente dal legislatore) può essere di semplice chiarimento e in questo caso è retroattiva oppure, se riscrive direttamente una disposizione, è considerata alla stregua di una nuova legge e quindi è irretroattiva (can. 16).
L’interpretazione vera e propria, cioè ad opera dell’interprete deve essere prima di tutto letterale, poi può effettuarsi con il ricorso a norme che disciplinano la stessa materia e valutando anche il contesto e le circostanze del caso concreto e deve essere infine stretta nel caso delle pene e di altri casi specifici di cui diremo in seguito.
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RispondiEliminaAltra fonte del diritto canonico sono le consuetudini che esso ammette anche se praeter o contra legem purchè non esplicitamente proibite da leggi e rispettate per almeno 30 anni dai fedeli.
Esse sono caratterizzate, oltre che per la continuità, dall’elemento psicologico della volontà di creare diritto. Ovviamente non sono ammesse quelle contro il diritto divino.
Per colmare le lacune, che ovviamente esistono sempre in qualsiasi ordinamento, anche in quello canonico, entra in gioco il cosiddetto diritto suppletorio costituito dall’equità e dagli atti particolari.
Parlando di equità ci si ricollega all’interpretazione e al canone 19 che prescrive in caso di lacune di far ricorso alla cosiddetta analogia (similitudine) cioè di disciplinare allo stesso modo casi con la medesima ratio. Il divieto di analogia esiste in materia di pena, restrizione della libertà e dei diritti dei singoli, nullità degli atti, incapacità delle persone, impedimenti alla ricezione di sacramenti, antichi privilegi della Santa Sede. Il secondo metodo di interpretazione è il ricorso ai principi generali del diritto, inteso in generale e quindi non soltanto a quelli del diritto canonico, ma anche a quelli dell’ordinamento civile purchè ovviamente non in contrasto con i canoni divini. Da questi elementi si desume l’importanza dell’equità ai fini del riempimento delle lacune dell’ordinamento della Chiesa; spetta infatti agli operatori del diritto decidere discrezionalmente quali principi adoperare, mentre i divieti previsti all’analogia svolgono la funzione di evitare lo sconfinamento nell’arbitrio.
Per completare il quadro delle fonti e dei mezzi di completamento delle lacune, parliamo ora dei provvedimenti amministrativi-particolari. Abbiamo gli atti singolari che si suddividono in decreti emanati dall’autorità esecutiva anche senza istanza e precetti che invece impongono o vietano dei comportamenti a determinati soggetti.
Abbiamo poi i privilegi che possono essere concessi solo dal legislatore e rendono determinate situazioni, già disciplinate dal diritto comune, più favorevoli per determinati soggetti. Importantissime sono infine le dispense che testimoniano l’adattabilità al caso concreto del diritto canonico: esse consistono nel concedere a determinati soggetti deroghe rispetto all’applicazione del diritto generale che provocherebbe loro situazioni svantaggiose. Vengono concesse dai Vescovi e nei casi più importanti dal Pontefice.
Tra le fonti minori troviamo gli Statuti che disciplinano il funzionamento, la costituzione e i fini delle universitates personarum e rerum e gli Ordini che stabiliscono invece regole per le Assemblee organizzate tanto da soggetti ecclesiastici quanto dai fedeli.
Elena Lauretti
Le novità processuali del 1200 e la conseguente commistione del diritto dei civilisti e dei canonisti
RispondiEliminaUna delle più importanti novità del primo Duecento fu lo sviluppo del processo inquisitorio e la sua accettazione da parte dei Comuni. Siamo alle origini della cosiddetta Inquisizione, che fu appunto un metodo moderno di prosecuzione dei reati, poiché il giudice operava d’ufficio contro il reo, prescindendo dall’accusa formale del danneggiato.
Prendendo ad esempio il reato di eresia, il Papato lo ritenne un male tale da doversi predisporre un’organizzazione ad hoc per perseguirla come lesa maestà (divina) indipendentemente da qualsiasi accusa privata, e con un esito terribile se provata (rogo, confisca dei beni dell’eretico con conseguente responsabilità oggettiva dei figli per fatto altrui..). Ebbene l’inquisitore doveva procedere ex officio divenendo allo stesso tempo procuratore e giudice, ed il processo divenne dunque uno scontro disuguale in cui la difesa era facilmente limitata o addirittura nulla (come nel caso dell’Inquisizione ecclesiastica).
Ma non fu questa l’unica novità processuale importante; agli inizi del 1200 s’impose, dapprima nelle sole corti laiche, dato lo sfavore papale, una novità tecnica notevole per le sue conseguenze sul ruolo del giurista. Si tratta dell’uso per cui il giudice si rivolgeva ai giuristi accreditati delle Università (i doctores) per avere delucidazioni in merito a punti incerti della causa che stava discutendo (i cd “consilia”). Elemento fondamentale sta nella vincolatività del parere ufficialmente richiesto poiché questo non costituiva una mera consulenza di parte, bensì un “oracolo del dotto”esterno al tribunale e dato con l’autorevolezza dell’esperto super partes, estraneo alla contesa.
Ci si trova dunque in un processo ove vengono ad essere inclusi pareri di dotti e perizie; difatti il nuovo processo, basato su prove razionali, studiato da Papi e dottori delle Università, prevede il ricorso a periti di ogni genere, che con la propria testimonianza qualificata finiscono per orientare la soluzione del caso (è questo il periodo in cui a Bologna cominciano a diffondersi ad esempio le prime perizie mediche).
A Roma il Papa, ormai capo indiscusso della gerarchia ecclesiastica, non si occupa più personalmente dei processi, ma delega ad “uditori” (“auditores cappellani domini papae”) la cura di studiare e decidere sugli appelli che pervenivano in numero crescente; perciò cominciarono a istituzionalizzarsi tribunali specializzati (come ad esempio la Camera Apostolica o la Penitenziaria Apostolica).
Il nuovo processo “romano-canonico”, accolto da sempre nei tribunali ecclesiastici ( e non subito in quelli laici), è l’emblema della convergenza che intorno al 1200 si è realizzata tra civilisti e canonisti, un tempo indifferenti e sospettosi gli uni degli altri; le basi testuali romanistiche e canonistiche (le decretali in particolare) hanno consentito ai giuristi di creare un nuovo processo che avrà un successo clamoroso. Ed è proprio questo processo a fornire la prova eclatante che i giuristi dell’uno e dell’altro diritto hanno ormai creato un “diritto comune”, cioè un diritto generale per tutti, pronto ad essere recepito per lette, direttamente, come avvenne nei tribunali ecclesiastici, oppure di fatto, nella prassi giudiziaria.
Romina Di Ruocco; Fiamma De Nardo; Niccolò Falez, Carlotta Trucillo
Salve a tutti... Ho trovato interessante fare una ricerca sul processo dei templari. Metterò alla fine, le fonti dalle quali mi sono documentata.
RispondiEliminaGli eventi che portarono al processo i Templari posso essere ricondotti
principalmente a due figure del XIII secolo: Filippo IV re di Francia e papa
Clemente V.
I templari erano già stati, sotto il pontificato di Bonifacio VIII, oggetto di critiche, che
però rimasero contenute finché essi furono in grado di prestare la loro opera in difesa dei
crociati.
La corona francese aveva bisogno di oro ed argento, che già aveva provveduto a
confiscare al clero, sotto la forma della tassazione degli ordini monastici (uno dei motivi di
conflitto con Bonifacio VIII); il papato, pur essendo ancora un elemento essenziale nella
struttura politica e nella vita religiosa della cristianità occidentale, era diventato sotto
Clemente V un docile strumento nelle mani del Re francese; mentre l’Ordine dei Templari
d’occidente strettamente legato al sovrano ed al papato, sembrava un organismo ormai
inutile.
Infatti, nato per difendere i viaggiatori nel tragitto verso la Terra Santa, si era ben presto
trasformato (grazie soprattutto alle crociate) in un ordine militare ricchissimo e
impenetrabile ma che, dopo la sconfitta di Acri, perse gran parte del suo prestigio
agl’occhi dell’Europa e vide l’inizio del suo declino.
Per portare a compimento la spoliazione del Tempio esisteva a portata di mano lo
strumento più adeguato: l’inquisizione, potenziata dal papato, ma controllata in Francia
dalla monarchia. Infatti la diffusione dell’eresia era stata uno dei maggiori problemi del
tredicesimo secolo, e i consiglieri di Filippo IV erano adatti a trasformare l’impopolarità
dell’ordine in “depravazione eretica”.
Fu da quest’insieme di circostanze che ebbe origine il processo ai templari.
Le accuse che vennero mosse contro i templari, per giustificarne i mandati di
cattura segreti, emessi da Filippo IV, seguivano principalmente tre filoni: il
rinnegamento e gli sputi sulla croce del Cristo, i baci osceni e la sodomia, e
l’adorazione degli idoli.
Le accuse si basavano molto sul fatto che il rito d’entrata nell’Ordine era segreto, quindi
le fantasie degli accusatori si scatenarono e inserirono in quel rito tutte le eresie e i reati
possibili di quel tempo. Nell’ agosto del 1308 viene stilato un elenco completo dei capi
d’imputazione, composto da 127 articoli che, secondo Malcolm Barber, possono essere
riuniti in 7 gruppi relativi alle accuse più gravi:
1. Il rinnegamento: (blasfemia) al momento dell’accoglienza i
novizi erano istigati a rinnegare Cristo e a volte la Vergine ed i
santi. Veniva detto loro che Cristo non era il vero Dio, ma un
falso profeta, crocifisso non per la redenzione degli uomini, ma
per i suoi peccati e per tanto era inutile la speranza di ottenere la
salvezza attraverso lui. I nuovi fratelli dovevano quindi sputare
sulla croce o sull’immagine del Cristo. Infatti dopo la parte
iniziale dell’ingresso rispondente al codice etico e disciplinare
dei Templari, il novizio - afferma la Frale- veniva condotto in un
posto isolato e qui il precettore gli diceva: “Signore , tutte le
promesse che ci avete fatto sono vuote parole. Adesso dovrete
dare prova di voi con i fatti”, e senza fornire alcuna spiegazione
gli ordinava di rinnegare Cristo e di sputare sulla croce.
...Continua...
...Vedi sopra...
RispondiEliminaNaturalmente, il fanciullo riavutosi dallo stupore, si rifiutava di
obbedire e la reazione dei precettori era variabile: a volte la
fermezza del candidato era rispettata e non gli si chiedeva altro,
ma molto spesso i confratelli lo minacciavano di prigione, lo
picchiavano violentemente a mani nude o puntandogli la spada
alla gola. La Frale spiega successivamente che dal canto loro, i
cavalieri, si giustificavano dicendo che questi sacrilegi
rappresentavano un rituale (experimentur) per appurare l’indole e
le intenzioni del novizio, una prova in preparazione della
possibile cattura da parte dei mussulmani e del resto, lo stesso
papa Clemente era convinto che fossero colpevoli di violenze,
abusi e atti peccaminosi di varia natura, ma non di eresia.
2. L’adorazione degli idoli: (idolatria) si affermava, infatti che i
templari venerassero, teschi, gatti e una pittura o una testa
d’uomo barbuta (definita Bafometto): diavolo barbuto, con
corna, alato, con artigli ed ermafrodito, che i templari
credevano redimesse dai peccati; per tale motivo i fratelli lo
toccavano o lo cingevano con una cordicella che poi legavano
intorno alla vita.
Il documento che svela il vero volto del presunto Bafometto si
trova tra le carte processuali contro i Templari: si tratta di un
foglio conservato negli archivi nazionali di Parigi. La
dottoressa Frale ha analizzato le deposizioni (datate 1307) di
alcuni cavalieri rinchiusi a Carcassonne in Linguadoca, che
raccontavano di cerimonie in cui venivano invitati ad adorare
un lenzuolo di lino chiuso in una teca, sulla quale compariva la
testa di un uomo barbuto. Un templare chiamato Arnaut
Sabbatier «disse in maniera esplicita che gli era stata mostrata
la figura intera di un uomo su un telo di lino, e gli fu ordinato
di adorarlo baciandogli i piedi tre volte».
3. I baci osceni e la sodomia: superato il momento del rifiuto del
Cristo, il precettore dava al novizio il bacio di fratellanza
monastica sulla bocca, a cui seguivano altri 2 baci: uno
sull’ombelico e uno sulla parte posteriore (in genere sopra la
tunica, ma si sono presentati casi in cui l’azione veniva
esagerata scoprendo le natiche).
4. Il rifiuto dei sacramenti:si dice che i templari non credessero nei
sacramenti e durante la messa, i sacerdoti omettevano di
pronunciare le parole della consacrazione.
5. L’assoluzione impartita dai laici: infatti i templari ritenevano
che il Gran Maestro e gli altri capi avessero la facoltà di
raccogliere le confessioni e di assolvere dai peccati, nonostante
molti di loro fossero laici.
6. L’avidità: vennero accusati di acquisire ricchezze per l’Ordine
con qualunque mezzo, legale o illegale, e di utilizzare le
donazione per scopi illegittimi senza devolverli in
beneficienza.
...Continua...
...Vedi sopra...
RispondiElimina7. La segretezza: le riunioni del capitolo e le accoglienze
avvenivano di notte, in segreto, con imponenti misure di
sicurezza e alla sola presenza dei membri del Tempio. Dalle
testimonianze emerge che in realtà, anche molti dei confratelli
non conoscevano le regole dell’Ordine, ne avevano avuto
conoscenza solo per sentito dire, perché molte ormai erano
entrate nelle usanze del Tempio. Tanto che lo stesso Jacques de
Molay nel momento di diventare Gran Maestro chiese a
Clemente V un’indagine per fare certezza su comportamenti
che si stavano consolidando all’intero del Tempio.
I templari furono processati in un’epoca in cui il giudizio sulla magia e sulla stregoneria si
stava cristallizzando, rientrando nelle credenze popolari e nelle categorie mentali degli
intellettuali, e per tanto le accuse in tal senso erano destinate a suscitare una reazione in
tutti i settori della società. Chi escogitò l’accusa di adorare gli idoli e chi spinse i templari a
confessare che i principali oggetti di venerazione erano un gatto ed una testa magica,
mirava a sfruttare alcune incontrollabili credenze popolari. In linea di massima, costoro
insinuavano che i fratelli dell’Ordine erano contaminati dall’Islam, assecondando
l’opinione secondo cui i mussulmani adoravano idoli.
Le accuse rivolte ai templari erano false, le loro confessioni estorte con la tortura e prive
quindi d'ogni valore. I cavalieri non erano né migliori né peggiori di altri cavalieri di ordini
di quel tempo. Soltanto, Filippo IV aveva bisogno del loro denaro, delle loro vaste
proprietà terriere, delle loro fortezze; e così i suoi ministri diffusero menzogne sulla
colpevolezza dell'ordine per poterlo annientare. Se comunque, nell’attribuire ai templari
quelle credenze, i giuristi di Filippo miravano senza dubbio a diffamarli rovinandone la
reputazione, è anche possibile che fossero spinti dalle idee e dalle tradizioni del tempo delle
quali in un modo o nell’altro erano imbevuti ed ancora da una forte avidità per le ricchezze
dell’Ordine.
Infatti, all’inizio del processo, l’inquisitore Guillaume de Paris era convinto di dover aprire
un processo a carico solo di alcuni individui, precisamente Jacques de Molay ed i suoi più
stretti sostenitori, ma in realtà si troverà coinvolto in una manovra per colpire l’ordine
intero, rendendosi conto di essere stato lo strumento della monarchia per assestare al
Tempio il colpo di grazia.
Il processo ai templari ha inizio il 14 settembre del 1307, quando
Filippo IV emana degli ordini segreti di arresto per i Templari, la manovra era
camuffata dietro la richiesta di accertamenti fiscali, fu in questo modo che vennero
arrestati, interrogati e pesantemente lesi nella loro reputazione i confratelli del
Tempio.
Quando Clemente V ebbe conoscenza dei fatti indisse immediatamente un concistoro in
condizioni di emergenza per tamponare l’imminente crisi: infatti, Filippo IV si arrogava
il diritto di decidere su questioni relative all’ortodossia, estendendo questo suo presunto
potere su un ordine religioso, cioè un pezzo della Chiesa di Roma, che solo l’autorità del
papa poteva giudicare.
Il 14 ottobre dello stesso anno, Guillaume de Nogaret, aveva fatto radunare una folla nei
giardini del Palazzo reale di Parigi e proclamato pubblicamente il dossier d’accusa contro l’ordine.
...Continua...
...Vedi sopra...
RispondiEliminaIl 22 novembre del 1307 Papa Clemente V promulga la bolla Pastoralis praeminentiae,
con la quale da un lato ordina che l'arresto dei Templari sia portato a termine anche nei
paesi cristiani che si erano rifiutati di seguire l'esempio di Filippo; dall'altro spoglia la corona francese di ogni potestà e competenza sul processo al Tempio, reclamandone - a diritto - l'intera gestione. La ragione dell'ordine di arresto emesso dal papa è facilmente comprensibile: Clemente crede, o almeno è propenso a credere, nell'innocenza dei fratelli
templari (pare addirittura che in questa fase abbia inviato delle lettere ai dignitari per
confortarli nella prigionia e per esortarli a confidare nella giustizia) ma se ne ordinasse la liberazione sarebbe vittima di continui attacchi da parte di Filippo IV. Il sovrano,
servendosi della propaganda, mobiliterebbe contro il pontefice folle intere tratte dalle
frange avverse ai Templari, e il trono di Clemente probabilmente vacillerebbe.
Il 29 maggio del 1308, si riunì a Poitiers un Concistoro pubblico cui parteciparono le
maggiori Autorità laiche ed ecclesiastiche. Alla presenza del Papa, il Ministro Guillaume
de Plaisians elencò i capi d’accusa contro i monaci/Cavalieri e nel nome del
cristianissimo Filippo IV, che nel marzo precedente aveva riunito a Tours gli Stati
Generali per ottenere la ratifica delle iniziative adottate contro l’Ordine, ne chiese la condanna e la espulsione dalla Chiesa. Tiepidamente il Papa, sostenendo che i Templari potevano essere perseguiti solo con il previo giudizio dei tribunali ecclesiastici, invitò il Re a consegnargli gli arrestati ed i loro beni.
Il 27 giugno del 1308, Filippo inviò settantadue Templari al cospetto di Clemente V a Poitiers: essi confermarono le confessioni circa i crimini loro contestati.
Non è chiaro se il re voglia dimostrare devozione e accondiscendenza al progetto
processuale di Clemente oppure abbia selezionato accuratamente un campione di soggetti influenzabili che gli garantiscono la reiterazione delle confessioni dell'anno precedente. Lo studio delle deposizioni, nonostante che ci siano pervenute in maniera incompleta, parrebbe giustificare la seconda ipotesi: i templari confesseranno nuovamente tutti o parte dei crimini loro contestati.
Nello stesso mese la Curia romana organizzò Commissioni episcopali in tutta Europa, per
inquisire i Cavalieri residenti nelle rispettive Diocesi.
Nel luglio del 1308 viene riaperta l’inchiesta sui templari (dopo essere stata sospesa nel febbraio dello stesso anno per via della ritrattazione della confessione del Gran Maestro Jacques de Molay) e nell’agosto viene stilato l’elenco dei capi d’accusa.
Allora Clemente V ideò uno stratagemma. Il 12 agosto 1308 tenne un concistoro nel quale
fu data lettura della bolla Faciens Misericordiam, redatta l’8 agosto nella quale venne indetto un concilio ecumenico nel quale trattare dell’organizzazione di una nuova crociata ed anche del problema templare.
Il giorno seguente, 13 agosto, il Papa decretò l’inizio delle ferie estive della Curia e si ritirò nella residenza di campagna. Ma si trattava di una diversione. I cardinali Bérenger Frédol, Etienne de Suisy e Landolfo Brancacci partirono segretamente alla volta di Chinon, senza neanche rispettare la festa dell’Assunta.
...Continua...
...Vedi sopra...
RispondiEliminaClemente V li aveva nominati suoi plenipotenziari per condurre l’inchiesta sul Gran Maestro e i dignitari del Tempio che, dopo gli interrogatori, vennero trovati tutti colpevoli, anche se di un reato meno grave dell’eresia: l’apostasia.
La studiosa italiana Barbara Frale ha rinvenuto agli inizi degli anni duemila negli Archivi vaticani un documento, noto come pergamena di Chinon, che dimostra come papa
Clemente V intendesse perdonare i templari, assolvendo il loro maestro e gli altri capi
dell'ordine dall'accusa di eresia, e limitarsi a sospendere l'ordine piuttosto che sopprimerlo.
Il documento appartiene alla prima fase del processo, nella quale il pontefice ancora
sperava di poter salvare l'ordine, seppure a costo di assoggettarlo ad una profonda riforma.
L'inchiesta di Chinon, in ogni caso, ribadisce le pratiche indecenti e gli sputi sulla croce effettuate come rito d'iniziazione all'ingresso di un novizio nell'Ordine, pratiche di ancora
dubbia origine e motivazione.
Il documento risponde alla necessità apostolica di rimuovere dai frati-guerrieri l’infamia della scomunica nella quale si erano precedentemente invischiati da soli ammettendo di aver rinnegato Gesù Cristo sotto le torture dell’Inquisitore francese. Come confermano diverse fonti, il papa appurò che fra i Templari si erano effettivamente insinuate gravi forme di malcostume e pianificò una radicale riforma dell’ordine per poi fonderlo in un istituto unico con l’altro grande ordine religioso-militare degli Ospitalieri. L’atto di Chinon, presupposto necessario alla riforma, rimase però lettera morta. La monarchia
francese reagì innescando un vero meccanismo di ricatto, che costringerà in seguito
Clemente V a compiere un passo definitivo durante il concilio di Vienne.
Infatti il vero obiettivo di Filippo IV è la riapertura del processo a Bonifacio VIII, sul
regnante francese infatti, pendono ancora importanti documenti come l’Asculta Filii e
soprattutto l’Unam Sanctam.
In realtà Clemente aveva fatto eliminare dagl’atti del suo predecessore, tutti i passi che suonavano maggiormente duri contro il re; ma, questa situazione si presentava perfetta per utilizzare il processo a Bonifacio come merce di scambio per la distruzione del Tempio.
Filippo auspicava di ripercorrere il processo fatto a papa Formoso (concilio del Cadavere),
cioè: riesumare le ossa del falso papa Bonifacio VIII in procedimento che lo avrebbe
dichiarato eretico, blasfemo, ateo, dedito alla stregoneria e ne avrebbe bruciato i resti alla maniera dei nemici della fede. In questo modo si sarebbe suggellato un capovolgimento nel sistema delle istituzioni: nel quale il potere laico carismatico della monarchia francese avrebbe guidato la società cristiana, se necessario in alternativa all’autorità papale.
Nell’ottobre del 1308 scattò la prima mossa del piano regio: il vescovo Guichard di Troyes
fu accusato di stregoneria e bruciato sul rogo nonostante lo stesso pontefice l’avesse in precedenza prosciolto.
Così Filippo sperava di dimostrare che tutta la Chiesa romana era contaminata dall’eresia;
pochi mesi dopo il cardinale Napoleone Orsini scriveva al re di aver trovato in Italia dei
testimoni di massima autorevolezza che avrebbero provato la colpa di Bonifacio VIII.
A questo punto il papa dovette cedere e lasciare l’Ordine al suo destino.
In quanto capo della Chiesa di Roma egli era prima di tutto responsabile della sicurezza di
quella istituzione, che il ricatto di Filippo avrebbe spezzato in due, in poche parole: il papa sacrificò i templari per evitare lo scisma.
Nell’agosto del 1309 scrisse a tutti i vescovi della cristianità. La lettera spiegava a quanti fossero ancora in attesa di una nuova regola per i Templari, che questa non sarebbe mai avvenuta e per tanto li esortava a non rimandare oltre le udienze.
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Buongiorno a tutti!!!!!
RispondiEliminaSo che è un po’ fuori dai temi che stiamo trattando, però mentre cercavo altri testi in biblioteca ho trovato un libro che spiega la Formula di Radbruch che abbiamo accennato qualche lezione fa parlando di altre cose. Ho pensato fosse interssante spiegare qui sul blog brevemente di che cosa tratta.
Il libro di cui parlo è “Ultimi Scritti” di Giuliano Vassalli e il mio commento in particolare s’intitola “La formula di Radbruch” e riporta una conferenza dell’autore all’Istituto Luigi Sturzo il 6 dicembre del 2002. A questa fonte, ho aggiunto anche qualche spiegazione, forse più semplice trovata navigando in internet.
Il contesto storico in cui nasce la formula è quella del processo alla Germania unificata per i delitti commessi dalla repubblica Democratica Tedesca. Si fa riferimento ai comportamenti omicidi dei soldati della ex DDR che, in esecuzione degli ordini, sparavano a chiunque tentava di scavalcare il muro di Berlino.
Il nucleo della filosofia del diritto di Radbruch consiste nella separazione fra diritto positivo e idea del diritto. L'idea di diritto è definita mediante la triade costituita da , giustizia, utilità e sicurezza. Su questa triade si basa la formula. Il concetto di legge, per Radbruch, è "null'altro che il fatto che deve servire l'idea della legge."
In breve, la formula di Radbruch postula che laddove la legge scritta sia incompatibile con i principi di giustizia sostanziale "ad un livello intollerabile", o la legge statutaria sia stata posta in essere esplicitamente in aperto contrasto con "il principio di uguaglianza che costituisce il fondamento di tutta la giustizia", la legge statutaria deve essere disapplicata dal giudice per ragioni di giustizia sostanziale. Il principio di diritto contenuto nella formula fu accolto dalla Corte costituzionale federale della Germania in diverse pronunce anche se con motivazioni diverse che vanno dal diritto naturale, alla illegalità che caratterizzava il regime dell’epoca, alla situazione eccezionale in cui è stata concepita.
Vassalli, riporta però una critica, su cui si dibatte tutt’ora, alla formula: essa sicuramente ha gli intenti più nobili e consente di punire per i crimini di cui si è parlato i loro autori nonostante in quell’epoca non erano concepiti come tali, ma rimane pur sempre il fatto che così facendo si viola il divieto di retroattività della legge penale per intervento del solo giudice.
Elena Lauretti
...Vedi sopra...
RispondiEliminaNello stesso mese, si insediò nel monastero di Sainte-Geneviève la Commissione
ecclesiale d’inchiesta.
Il 4 aprile del 1310, Papa Clemente rinvia il concilio generale di Vienne all'ottobre
dell'anno seguente con la bolla "Alma mater" poiché, a suo dire, le commissioni hanno
bisogno di tempo per completare le inchieste sui templari. Il rinvio serve a dare ossigeno
al pontefice che sta cercando il modo di uscire dignitosamente e con le minori perdite dal duplice scontro (sul campo del processo templare e su quello del processo alla memoria di Bonifacio VIII) con le forze di Filippo il Bello.
Nonostante nello stesso mese il Giureconsulto Pietro da Bologna, difensore degli imputati,
abbia depositato un imponente memoriale di innocenza dei Monaci, nel settembre del
1310, centocinquanta Templari a Parigi affrontarono lo strazio del rogo, quali eretici relapsi, cioè ricaduti, perché, dopo aver negato le accuse, avevano confessato sotto tortura.
Il 16 ottobre del 1311, si aprì solennemente la 1° sessione conciliare di Vienne. Vi
parteciparono circa centosessanta personalità religiose, fra cui i quattro Patriarchi della
Chiesa d'Oriente e i Presidenti delle commissioni inquirenti per discutere il destino della Terrasanta e la Riforma ecclesiastica e per emanare la sentenza nei confronti dei Templari:
i Vescovi Jacques Duèze – in seguito Papa Giovanni XXII - e Guillaume Le Maire
sostennero la sufficienza degli elementi di prova per condannare e sopprimere l'Ordine.
Il 22 marzo del 1312 Clemente V con la Bolla Vox in excelso, abolì l'Ordine del Tempio:
"…Considerati i sospetti, le infamie, le insinuazioni e le altre cose suddette avanzate nei confronti dell'Ordine e l'accoglienza segreta e clandestina dei fratelli del detto Ordine,nonché il distacco di questi fratelli dalle usanze, dalla vita e dalle abitudini degli altri
seguaci di Cristo, per il fatto che soprattutto nell'accogliere i nuovi membri facevano loro fare professione e giurare di non rivelare a nessuno le modalità dell'accoglienza e di non lasciare l'Ordine, un comportamento a seguito del quale sorsero sospetti contro di loro; considerato inoltre il grave scandalo suscitato da tali cose contro l'Ordine e che non sembra possibile arginare se detto Ordine rimanesse in vita; considerati anche il pericolo per la fede e per le anime, nonché le molte azioni terribili compiute da numerosissimi
fratelli di questo Ordine... che si sono macchiati dell'odioso peccato di apostasia contro Gesù Cristo, nostro Signore, del detestabile crimine di idolatria, dell'esecrabile oltraggio dei sodomiti... considerato anche che la Chiesa di Roma ha fatto talvolta sopprimere altri
Ordini illustri per motivi molto meno gravi di quelli menzionati sopra: non senza
amarezza e tristezza nel cuore, non con una sentenza giudiziaria, ma con un
provvedimento o un'ordinanza apostolica, noi aboliamo il detto Ordine del Tempio, la
sua Regola, il suo abito e il suo nome con un decreto irrevocabile e valido in perpetuo…"
Il Papa dice nella sua bolla che non saranno tollerate intromissioni di nessuno per quanto
riguarda i beni stessi: ebbene sappiamo dalla storia che Filippo IV si appropriò di una
buona parte di questi beni, senza autorizzazione, e il Papa stesso, quando vuole incamerare i beni dell'Ordine del Tempio, fa esattamente la cosa opposta. Infatti, con la bolla "Ad Providam Christi Vicari ", emessa il 29 maggio 1312, trasferisce i beni dei Templari ai
Giovanniti, ossia ai Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni, gli attuali Cavalieri di Malta
Il 3 aprile del 1312, Papa e Sovrano di Francia si presentano avanti al Clero ed ai Principi d'Europa: il cronista Guglielmo di Nangis riferì che ai presenti fu imposto il silenzio assoluto, pena la scomunica, e che poi fu data lettura dell’ordinanza di soppressione dell’Ordine.
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RispondiEliminaIl 6 maggio del 1312, la costituzione Considerantes dudum segnò le sorti dei singoli
Cavalieri: quelli giudicati innocenti avrebbero goduto di una rendita commisurata al rango ricoperto nell'Ordine; nessuna pietà, invece, per i Relapsi.
La soppressione dell'Ordine non era sufficiente, una dura condanna ai suoi massimi
esponenti avrebbe dato maggiore peso e credibilità al provvedimento sancito a Vienna. A questo scopo si istituì una commissione presieduta, ancora una volta, da Marigny, il vescovo di Sans. Il 18 marzo del 1314, a Parigi, ebbe luogo l'evento. Dopo l'ennesima pubblica lettura delle imputazioni, si emise velocemente il verdetto: carcere a vita. Ai
condannati non fu concessa la parola.
Ma non sarebbe stato questo l'epilogo dell'assemblea. Guglielmo di Nangis, testimone
oculare dei fatti, descrive in questo modo gli avvenimenti: «Proprio quando i cardinali
credevano di aver concluso la faccenda, improvvisamente ed inaspettatamente, due di
loro, il Gran Maestro ed il Gran Precettore di Normandia si difesero accanitamente,
ritrattando sia le loro confessioni che quelle degli altri, tralasciando ogni ossequio, tra la meraviglia degli astanti».
Il 18 marzo del 1314, il XVII ed ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay arse con Godfrey
de Charnay sull’isolotto parigino della Senna detto dei Giudei.
Pochi sanno, invece, della maledizione scagliata dal Gran Maestro, destinatari dei suoi strali furono coloro che lo avevano condannato: “Dio vendicherà la nostra morte …” urlò mentre gli accendevano il fuoco sotto i piedi.
Sarà anche stato un caso ma, dopo pochissimo tempo, Clemente morì di dissenteria, fra
atroci tormenti, mentre Filippo lasciò questo mondo cadendo da cavallo dopo una battuta
di caccia.
La maledizione si chiuse molti secoli dopo, precisamente nel 1793, quando il sovrano
Luigi XVI fu ghigliottinato per opera (pare) di un boia iscritto al clandestino e mai morto
ordine templare.
“Jacques de Molay è ora definitivamente vendicato”, sembra che pronunciò mentre gli
staccò la testa.
In conclusione gli albori del XIV secolo videro una delle più grandi tragedie della storia della Chiesa, il processo contro i templari. Il loro ordine, che fino a quel momento godeva di grande reputazione e possedeva grandi ricchezze, venne accusato d'una serie di crimini dal re di Francia Filippo IV il Bello e dai suoi ministri. Il re, avvalendosi di un'Inquisizione manovrata dallo Stato, fece arrestare più di mille cavalieri, tanti ne fece torturare, molti li mandò al rogo. Papa Clemente V in un primo tempo s'oppose ad un simile atto di violenza, un atto che si faceva beffe d'ogni diritto. Ma alla fine cedette, e soppresse l'ordine con un decreto amministrativo.
La responsabilità di questo, che fu forse il maggior assassinio giudiziario del medioevo,
spetta soprattutto al re di Francia. Ma anche il papa mancò: si lasciò ricattare, divenendo
anch'egli, in tal modo, persecutore dell'ordine che in realtà avrebbe dovuto difendere.
Le fonti che ho utilizzato sono:
Frale, B., “I Templari” , il Mulino, 2004
Barber, M., “Processo ai templari Una questione politica” , ECIG, 2005
Frale, B., “I templari e la sindone di Cristo”, il Mulino, 2009
Eleonora Cannatà
Buongiorno a tutti!!
RispondiEliminaIn questo commento vorrei riportare alcune riflessioni sulla peculiarità del diritto della Chiesa, in particolar modo del suo particolare e fisiologico intreccio con la filosofia cristiana e la fede.
La fonte di riferimento è “Le basi del diritto canonico” di Giorgio Feliciani che si trova nella biblioteca della nostra facoltà.
Tradizionalmente il diritto della Chiesa è stato definito come l’insieme delle leggi promulgate o approvate dalla competente autorità ecclesiastica. La scienza moderna, ha corretto questa definizione affermando che esso comprende tutte le norme della Chiesa che disciplinano la sua struttura e i vari e complessi rapporti dei fedeli che ne costituiscono la relativa comunità. Questo punto è importante in quanto sottolinea un’evoluzione rispetto al passato che ha portato al riconoscimento che le leggi canoniche si occupano dei rapporti tra le persone umane appartenenti alla Chiesa, non a quelli con la divinità che invece riguardano esclusivamente la dimensione spirituale di ogni cristiano.
Al diritto canonico, comunque inteso, si muove da sempre una critica: il fenomeno giuridico è incompatibile con l’essenza della Chiesa che ha al suo capo solo Cristo e che per i fedeli si configura come un’esperienza di carattere personale-spirituale.
A questa critica rispondono le parole di Giovanni Paolo II che cercano di trovare un equilibrio: la legge della Chiesa c’è sempre stata, per la complessità delle relazione interpersonali che la caratterizzano e quindi ha sempre svolto un’ importante funzione ordinatrice. A queste sue parole si aggiungono quelle pronunciate all’indomani del Concilio Vaticano II che afferma con decisone che la Chiesa è la risultante di un duplice elemento, quello umano e quello divino (materiale e spirituale). Nulla però è stato detto in ordine al fondamento del diritto canonico e al suo legame con questo aspetto divino, con questa dimensione spirituale; perciò il dibattito è ancora aperto.
Il Vaticano II ha sottolineato però che Cristo voleva una Chiesa visibile, composta da un popolo, una società e, è pacifico, dove vi è società, vi deve essere anche diritto per disciplinarla. Quindi il diritto canonico, svolgendo questa funzione, non appare in contrasto con il volere di Dio.
Per capire però lo spirito animatore del diritto canonico bisogna partire dall’intima correlazione tra la Chiesa in senso materiale (la sua struttura) e l’etica cristiana, cosa che non avviene invece per il diritto statuale dove la scienza giuridica prescinde da qualsiasi fattore che non sia il diritto quale la politica.
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RispondiEliminaIl diritto canonico si suddivide in diritto umano: emanato dall’autorità competente ecclesiastica e diritto divino che proviene invece direttamente da Dio. Quest’ultimo a sua volta si divide in naturale e cioè insito nella natura umana e positivo riportato, a seguito della Rivelazione, nelle Sacre Scritture così come approvate dal Concilio di Trento nel 1546. Il diritto divino naturale si caratterizza per l’immutabilità, l’eternità, mentre quello positivo è suscettibile di maggiori modificazioni in seguito all’evolversi della storia e della società. Caratteristica della cristianità e quindi anche del suo diritto, è sempre stata infatti, quella di riconoscere che i tempi mutano e di conseguenza anche i principi che regolano la vita dei suoi fedeli.
Il diritto divino, si colloca in posizione di preminenza rispetto a quello umano, si è detto che rappresenta la base e il limite di esso. Il diritto umano, rappresenta la fallibilità dell’uomo, mentre quello divino la superiorità di Dio e quindi deve sempre e comunque prevalere. Da questo deriva la certezza del diritto canonico, qualora infatti le norme siano in armonia con i principi del diritto divino, che siano quindi in rapporto di ragionevolezza con esso, queste possono essere applicate.
A questo discorso si collega l’istituto dell’equità canonica: il giudice, nell’applicare e interpretare le norme, deve sempre tenere conto del diritto divino e scegliere quelle che non sono in contrasto con esso. Il diritto canonico però si caratterizza anche per l’elasticità dei suoi principi: il giudice infatti, deve anche tenere conto di tutte le circostanza del caso concreto e qualora rinvenga elementi che potrebbero portare pregiudizi alla ratio della norma canonica, può non applicarla al caso di specie. Espressione di flessibilità sono anche la validità (seppur circoscritta) delle consuetudini contra legem e i vari diritti particolari soprattutto le dispense e i privilegi.
Da quanto detto si intuisce, a mio avviso, una sostanziale particolarità del diritto canonico.
Il diritto della Chiesa, oggi, è totalmente svincolato principi religiosi, come invece purtroppo avviene ancora in alcuni Paesi di altre religioni, ma allo stesso tempo non ne prescinde totalmente. Come disse Giovanni Paolo II, la Chiesa ha sempre e comunque come sua base la volontà di Dio, ma le norme del suo ordinamento sono adeguate alle esigenze dei tempi moderni e soprattutto si evolvono con la società stessa. La dimensione spirituale rimane però come canone ermeneutico e legislativo a sottolineare la peculiarità di questa istituzione. Il diritto canonico ha saputo quindi trovare un equilibrio tra le due dimensioni, quella spirituale e quella materiale.
Elena Lauretti
Salve a tutti! Ho trovato particolarmente interessante la riflessione fatta in aula lo scorso mercoledì 'assunzione dei modelli romani da parte della Chiesa e viceversa ,anche attraverso l'equiparazione di reati laici a peccati cattolici.Il richiamo è alla equiparazioone tra la "lesa maestà" e "l'eresia" . Il rispetto mancato nei confronti della somma autorità pubblica e laica ,quale l'imperatore, veniva ad essere totalmente riproposto in ambito cattolico sotto forma di eresia mediante una equiparazione tra il sovrano ,come capo dei cittadini e in quanto tale degno del rispetto delle leggi positive da esso emanate e della sua persona, a Dio, al quale il cattolico doveva immolare la propria anima mediante il rispetto delle pratiche liturgiche e soprattutto mediante il rispetto delle leggi naturali e divine proprie della fede cattolica e cosi come intergrate dalla Chiesa.Questo perimise nel tempo un avvicinamento anche fra i sistemi processuali che si palesa in varie occasioni. Esempio ne è il processo ai Templari, cui abbiamo accennato a lezione. I Templari erano l'ordine cavalleresco della Chiesa che , sulla base di accuse infondate quali quelle di idolatria o di sodomia e ancora di eresia, vennero processati ma soprattutto torturati sulla base di una feroce pratica inquisitoria ,da Filippo il Bello il quale per l'occasione sotto taluni profili laicizzò il processo canonico . Effettivamente non soltanto nel processo penale è possibile rinvenire somiglianze, anzi più che somiglianze delle vere e proprie emulazioni. La consuetudine, ordinaria fonte di diritto , ad oggi menzionate in tale funzione all’articolo 1 delle preleggi al codice civile, è da sempre stata fonte normativa. La parola consuetudo (da “sueo o suesco “ che significa il
RispondiEliminaripetersi di azioni simili- più il prefisso “con ” che ne spiega la simultaneità- e il suffisso “tudo ” che ne indica la quantità astratta) designa giuridicamente il complessodi due elementi:
a) la frequenza degli atti da parte di una comunità senza
forza obbligatoria (elemento materiale o “consuetudo
facti ”) ;
b) il consenso del legislatore che fa della “consuetudo facti ” una vera “consuetudo iuris. ”
(... CONTINUA ....)
RispondiEliminaSin dagli albori la consuetudine venne quindi riconosciuta nel mondo laico nei limiti della sua compatibilità con la legge o negli spazi da questa lasciati vuoti. Sintomatico della reciproca influenza è il fatto che anche nel mondo canonico la consuetudine prende piede sotto forma di TRADIZIONE. Ovviamente avendo la Chiesa ripreso questa fonte dal mondo laico risulta chiaro il motivo per cui l’ istituzione cristiana si uniformasse, nei suoi primi momenti di vita, a quei
principi della norma consuetudinaria che derivavano dal
mondo romano, il quale proprio nel campo giuridico
aveva raggiunto così alte vette di perfezione da essere
Ineguagliato. E’ soltanto con il tempo e con “l’appropriazione” di questa fonte da parte del mondo canonico che esso imporrà al riguardo propri dettami tali da renderla più compatibile con il sistema cui avrebbe partecipato, un sistema basato non sulla legalità, ma sulla fede, su un messaggio morale che non poteva essere distorto dai comportamenti dei più. I fedeli erano soggetti che componevano la comunità cattolica
e che erano governati e privati della capacità di
legiferare, ma che allo stesso tempo avevano la capacità di far nascere la consuetudine che diveniva norma .Dall’altro lato però, sussisteva la concezione del diritto canonico, che poggiava e poggia sull’autorità del Papa, il solo che ha ottenuto la capacità di legiferare.In questo notiamo la prima esigenza di differenziazione rispetto alla consuetudine laica. La Chiesa non poteva permettere che il fedele con i suoi comportamenti condivisi creasse delle tradizioni lontane dal messaggio evangelico interpretato dalla Chiesa o letterale che fosse. Ecco quindi l’introduzione di un parametro integrativo a seguito della sua previa coniazione in dottrina ,che potesse “tutelare “ il messaggio cattolico da precetti impuri nati dalla tradizione del popolo.E’ nella decretale “Cum Tanto” di Gregorio IX, che viene espressamente sancito il riconoscimento della consuetudine rispettosa della legge
vigente, mentre nel caso di una consuetudine contraria
alla legge essa era valida solo se “rationalibus”.La rationabilitas risulta essere un requisito morale al
quale si deve uniformare la condotta umana o meglio la
condotta della comunità, in modo che tale
comportamento, quando sia conforme alla ragione, possa
diventare giuridicamente rilevante.La ratio, secondo Calasso, è la rispondenza della norma
umana alla veritas, vale a dire alla norma divina, in
questo senso ”ratio et veritas ” assumono la valenza di un
binomio tradizionale nella Chiesa.
L’antica dottrina del diritto canonico dunque si è servita
del concetto di ratio e di quello di veritas per limitare,
nelle comunità cristiane, il proliferare di usi e di consuetudini contrarie ai dogmi della Chiesa.
(...CONTINUA...)
RispondiEliminaSempre secondo Calasso: ”….per il diritto romano noi non possiamo affermare, con sicurezza, cosa valesse una consuetudine contra rationem, anche perché ignoriamo
che cosa esattamente si intendesse per ratio: sappiamo ad ogni modo che, se si trattava di consuetudine fondata sopra un errore logico, poteva ugualmente diventare
obbligatoria nel tempo.
Per la Chiesa invece una consuetudo irrationabilis non è
ius, ma error vale a dire una deviazione dalla veritas e
quindi va respinta come “corrotta o eretica.”
Da questa ricerca ho potuto consolidare la mia convinzione circa l'effettività della reciproca influenza tra i due ordinamenti. Essi si ispirano e si copiano reciprocamente, adattando poi i singoli istituti ai propri principi e ai propri sistemi , e questo è normale, o quanto meno semplicemente più frequente in sistemi che convivono, che spesso hanno come destinatari gli stessi soggetti ,e che quindi si trovano ad agire, seppur su profili differenti, sullo stesso terreno. D’altronde anche ad oggi, la nostra costituzione, ma anche più in generale la cultura italiana si poggia molto sulla tradizione cattolica.
FRANCESCA GUARICCI