Della lezione del 19 ottobre mi ha particolarmente suscitato interesse le concezioni del Prof.Paolo Grossi,cossicché ho ascoltato la prolusione all'anno accademico 2010\2011 dell'università di Ferrara,reperibile su YouTube.Grossi nel sostenere la sua tesi secondo la quale il referente necessario del diritto non è lo Stato ma è la società prende atto del fatto tuttavia che ciò che ha connotato lo Stato Moderno,il cui emblema può essere considerato la figura di Napoleone,è che il diritto era monopolio del potere politico.Tutte le regole che vincolavano i cittadini promanavano dallo Stato.L'evento,sostiene Grossi,che ha mutato questo sistema è stato la rivoluzione industriale tra i cui effetti vi è stato quello di far emergere le formazioni sociali.La società insomma ricomincia ad imporsi sullo Stato.Il giurista che ha per primo colto questo fenomeno è Santi Romano che nel 1909 pronuncia un discorso nell'ateneo di Pisa che lo intitola lo "Stato moderno e la sua crisi".Romano ritiene che la crisi sta nel collettivo che si ingigantisce,nelle formazioni sociali che ricominciano a rivendicare il loro potere sottraendolo di conseguenza allo Stato.Alla luce di questo discorso quello che mi chiedo è se questo sparire e riemergere delle formazioni sociali e di conseguente aumento e riduzione del potere concentrato nelle mani dello Stato,sia un fenomeno ciclico,che si ripete costantemente nella Storia ho possiamo considerare lo Stato moderno solo una parentesi?
leggendo il terzo capitolo del "Manifeto del partito comunista" intitolato "Letteratura socialista e comunista" Marx ed Engels distinguono tre forme di socilismo: quello che definiscono reazionario,quello conservatore borghese e quello critico-utopista.All'interno della prima forma troviamo tre ulteriori sotto-correnti:il socialismo feudale,il socialismo piccolo borghese e il socialismo tedesco,ossia il "vero" socialismo.La letteratura socialista di quest'ulima categoria è per Marx importata dalla Francia,paese nel quale,a differenza della Germania,la borghesia dominava e la lotta contro il suo dominio era in uno stato avanzato.Il rilievo particolare di tale "appropriazione" risiede nel fatto che i letterati tedeschi riprendono le idee francesi a partire dal loro punto di vista filosofico.Cosi per esempio la critica francese dello stato borghese diventa "il superamento del dominio dell'univesalità astratta".Mi sembra un discorso che ha delle analogie con il metodo dei gemanisti,allievi di Savigny,di guardare il diritto romano con posseso,come uno strumento;anche se Marx rimprovera ai soggtti cui è rivolta la sua invettiva di essersi fatti interpreti del bisogno di verità e degli interessi dell'essere umano in quanto tale. Proseguendo l'analisi,la lotta della borghesia tedesca diviene aspra,il "vero" socialismo ha l'occasione di manifestare le proprie rivendicazioni contro il liberalismo, lo Stato rappresentativo e la concorrenza borghese.Anche questo elemento è emerso a lezione.Cosi il socialismo borghese diviene il rappresentante della piccola borghesia tedesca che costituiva il tessuto sociale della Germania e classe sociale colpita dall'avvento della rivoluzione industriale.Quello che Marx considera una sudicia riedizione della letteratura socialista francese non può forse invece trovare l'ispirazione dall'idea di genossensschaft di Von Gierke,cioè l'idea di una comunità di compagni indipedente dall'astratezza dello Stato che strida con l'individualismo della società borghese e nella quale non tutti i beni possono considerarsi uguali.
In riferimento alla lezione del 19 ottobre mi ha incuriosito il pensiero di Paolo Grossi e ho deciso di reperire in biblioteca il suo libro “L’ordine giuridico medievale”. Leggendo qualche capitolo mi ha colpito la sua concezione sul significato del diritto comune. Paolo Grossi precisa che il diritto comune si incarna e si identifica nella interpretatio: in altri termini esso ha una dimensione sostanzialmente scientifica, in quanto rappresenta il prodotto della scienza che lo elabora sotto il presidio di un testo autoritativo. Il diritto comune si scandisce e si combina in due momenti inscindibili: il momento di validità rappresentato dal Corpus iuris civilis e dal Corpus iuris canonici, e il momento di effettività rappresentato dalla costruzione dottrinale. L’interpretatio e’ dichiarazione, ma anche integrazione, correzione e modificazione del testo. Per esempio, l’opinione di Bartolo non ha carattere normativo; ha invece carattere normativo la intepretatio bartoli come congiunzione fra un testo autoritativo e una costruzione dottrinale, fra momento di validita’ e momento di effettivita’. Il diritto comune quindi non si presenta come esegesi di un complesso testuale, ma interpretatio e non costituisce la prosecuzione in terreno medievale dell’antico diritto romano, in quanto il suo contenuto sono i fatti del tempo medievale che grazie ai tramiti della consuetudine e dell’equità sono fonte anche formale. Paolo Grossi sostiene che insistere come ha fatto Francesco Calasso sul carattere legislativo del diritto comune, ossia qualificarlo come un complesso di leggi o come un sistema legislativo e’ errato in quanto rischia di esiliare e immiserire tutto lo sforzo scientifico in una riduttiva attività di esegesi testuale. L’errore maggiore del Calasso consiste nel non essere riuscito a pensare il diritto senza Stato, a pensarlo quindi senza avere a fondazione necessaria la manifestazione di volontà testuale, e quindi la legge. Il diritto comune invece per il Grossi ha a fondamento il diritto divino proveniente dall’unico sovrano che la civiltà giuridica medievale riconosce nella sua assolutezza potestativa. Solo in questo senso possiamo riconoscere come caratterizzante per il diritto comune la qualificazione di legislativo. Riguardo al rapporto tra diritto comune e diritti particolari si debbono porre due premesse chiarificatrici l’una riguardante il diritto statutario, l’altra il diritto comune. Il diritto statutario indica la somma delle normazioni particolari dei comuni, costituisce quelle consolidazioni di consuetudini locali espressione della vita giuridica locale. Lo statuto infatti non costituisce un prodotto astratto ed isolato, ma si considera in stretta dialettica con la presenza universale dello ius commune. Il diritto comune costituisce invece il diritto, lo ius, un patrimonio di principi, nozioni ed espedienti universali fondati sulla ragionevolezza. La corretta visione della complessa esperienza giuridica medievale che appare in pieno Duecento è pluriordinamentale: esistono molteplici ordinamenti concorrenti che non chiedono legittimazioni all’esterno ma che si auto legittimano in quanto espressioni spontanee della dimensioni del sociale. Tutto questo non costituisce diritto: non esistono giuridicita’ di grado superiore e inferiore e tantomeno una gerarchia delle fonti, ma piuttosto un gioco di rapporti fra ordinamenti che convivendo e covigendo si comprimono nella vita giuridica. Secondo Calasso il diritto comune si presenta quale sistema legislativo e nella sua ricostruzione teorica quell’ancoraggio ossessivo all’Impero, quel costituire la ratio Imperii quale fondamento di legittimazione del diritto comune appare inappagante in quanto artificioso e forzoso. In conclusione il diritto comune in cui la universalita’ e’ null’altro che il riflesso della sua intima razionalita’ ha delle straordinarie capacita’ ordinanti e una forza espansiva unica: esso rappresenta il diritto e come tale incarna la pura razionalita’ giuridica.
Leggendo “L’ordine Giuridico medievale”, mi ha particolarmente colpito la struttura del libro adottata da Grossi:
Già dall’introduzione, Grossi, chiarisce : “non è un manuale esaustivo di diritto medievale, non è un serbatoio ricco di date e notizie”. Infatti confrontandolo con il libro di Cortese o con il libro di Padoa Schioppa la divisione del libro è completamente diversa: Pur essendo diviso in due macro aree (officina della prassi e il laboratorio sapienza), che si susseguono cronologicamente, come avviene nel Cortese, non troviamo una divisione capillare di ogni singola fase che ci dimostra una evoluzione lenta e progressiva, ma un continuum che coinvolge tutto il medioevo estraniandolo dal prima e dal dopo.
Sempre nell’introduzione chiarisce “Il diritto medievale deve essere fin ora percepito dal lettore come in pianeta giuridico separato e conchiuso, segnato da una sostanziale discontinuità col e col , e segnato da una sua compiutezza”. Negando, così, ogni filo conduttore che intercorre tra il diritto romano ( che viene visto solo come fonte di autorevolezza in un diritto senza Stato fatto dal principe dotato di iurisdictio) e diritto medievale e tra diritto medievale e diritto moderno.
Pur parlando della Chiesa e di diritto canonico, non approfondisce i singoli eventi che hanno portato ad una determinata evoluzione del diritto, e lo stesso avviene per le “figure dell‘esperienza”. Grossi basa tutta la sua trattazione sul “non-Stato” medievale che fa risalire da Diocleziano in poi.
Sono rimasta anch'io piuttosto colpita, durante la scorsa lezione, da quanto detto in merito al pensiero di Paolo Grossi e siccome non ho avuto la possibilità di reperire il libro "L'ordine giuridico medievale" in biblioteca, mi sono messa a cercare qualcosa su internet. Con un po' di fortuna sono riuscita a trovare una Relazione di Paolo Grossi intitolata "Il sistema giuridico medievale e la società comunale" redatta in occasione di un Convegno svoltosi a Pistoia nel 2005. Vorrei riportare qualche passaggio di tale relazione molto significativo, a mio avviso, con riferimento a quanto detto Mercoledì scorso.
"E affiora qui un grosso problema di ìndole epistemologica, uno dei tanti che rendono esaltante ma arduo il mestiere dello storico del diritto: fino a ieri come si è guardato alla giuridicità medievale? Certamente, con occhi moderni, dal momento che lo storico non può e non deve rinnegare la consapevolezza proveniente dalla sua “attualità”. Ma quegli occhi moderni si sono arrestati a una doverosa e rispettosa comparazione interiore fra civiltà diverse fondate su valori diversi? Sono stati portatori di rispetto e disponibilità verso la cifra medievale del diritto e, con parole più stringenti, hanno tentato di giungere al miracolo della comprensione, quel miracolo che permette proprio allo storico di risuscitare i morti? [...] La mia convinzione, ripetuta insistentemente in parecchi contributi, è che si sia fino a ieri guardato al medio evo giuridico senza la totale disponibilità ad ascoltare il suo autentico messaggio, ma anzi cedendo alla facile tentazione di operare senza un rigoroso vaglio epistemologico trapianti di schemi interpretativi estranei, e pertanto forzosi, e pertanto inidonei a raggiungere il risultato della comprensione. [...] Spieghiàmoci meglio. Non è senza giustificazione l’identificazione del diritto in un artificio e anche in una costrizione per il libero espandersi delle forze storiche, se si proiettano sulla civiltà medievale creature che la modernità si è costruita a sua misura, che l’evo precedente ignorava e che àlterano pertanto un reale meccanismo di comprensione. Ciò tanto più si avverte, quando le “invenzioni” moderne non soltanto sono ignorate ma risultano intimamente ripugnanti alla visione medievale del diritto. Dando un vólto più definito a queste generiche osservazioni, il riferimento è soprattutto all’uso disinvolto che si fa di due termini (e nozioni) di straordinaria pesantezza contenutistica: Stato e sovranità."
A questo punto Grossi spende diverse righe per spiegare il significato MODERNO della nozione di Stato e termina il paragrafo con questo interrogativo: possiamo trapiantare la nozione di “Stato” nella civiltà medievale? E la risposta di Grossi é: Sì, ma con un costo troppo esoso di equivoci e di fraintendimenti, che arrivano a distorcere la nostra comprensione storiografica. Giacché è rischioso guardare al medio evo con occhi che non riescano a deporre degli occhiali messi a fuoco sulla modernità: l’immagine non ne può che risultare deformata.
E’ stato per me di grande interesse leggere Il compito sociale del diritto privato di Otto von Gierke. Gierke, nell’incipit, afferma che la Germania si trova a un punto di svolta (Wendepunkt), nel campo del diritto privato: la pubblicazione delle bozze del BGB (siamo nel 1889). Proprio per questo è opportuno sostiene Gierke, occuparsi di ciò che il diritto dovrebbe essere e, in particolare, indagare quale sia in definitiva il compito del diritto privato. Già i Romani avevano cercato di darne una definizione, sostenendo tramite la bocca di Ulpiano che si trattava di uno “ius, quod ad singulorum utilitatem spectat”, mentre il diritto pubblico era invece uno “ius, quod ad statum rei romanae spectat”. I Romani sono stati quindi sostenitori di una concezione del diritto in cui il pubblico si contrappone al privato, l’individuo vive per se stesso ma è comunque parte della comunità. I Germani, invece, sono stati portatori di un’idea del diritto più ampia e profonda, pur non conoscendo la distinzione tra pubblico e privato o, forse, proprio per questo. Gierke, infatti, da un lato si dichiara contro un diritto pubblico assolutistico, dall’altro prende posizione contro un diritto privato individualistico. Se nel diritto pubblico devono essere presenti le libertà del diritto naturale, anche nel diritto privato deve esserci una “goccia” di sociale. Nello stesso periodo in cui opera Gierke, la Germania è guidata da Bismarck che, seguendo le idee del socialismo riformista di Ferdinand Lassalle, si fa promotore di una legislazione avanzata nel campo della previdenza sociale. Gierke indirettamente critica anche questa impostazione, in quanto ritiene che quella di Bismarck sia esclusivamente una legislazione speciale mentre in realtà è l’intero sistema del diritto privato che deve essere pervaso da una finalità sociale. Non ci può essere diritto senza doveri, e così la proprietà deve incontrare dei limiti, il diritto di famiglia è improntato ad una intensa coesione e bisogna recuperare quegli istituti giuridici, quali il mundio, che sono profondamente radicati nell’identità nazionale tedesca. L’idea di Genossenschaft di Gierke si fonda sulla solidarietà tra le diverse classi sociali che non è e non può essere imposta dallo Stato (come invece si verificherà in Italia nell’ordinamento corporativo fascista che pure rifiuta la contrapposizione tra capitale e lavoro propugnata da Marx) ma scaturisce dalla intima consapevolezza dei singoli individui della propria appartenenza al Volk .
Ho avuto modo di leggere il libro di Grossi "L'ordine giuridico medievale" e, pur saltando alcune parti, ho trovato menzione della suddivisione in periodi di cui avevamo parlato a lezione; cioè il periodo dell'effettività e quello della validità. Principalmente, ho cercato di individuare il ruolo della consuetudine, soprattutto nel periodo dell'effettività, notando come l'autore le dia una certa importanza, affermando che essa "esprime a livello giuridico i fatti fondamentali del sangue, della terra, del tempo". Inoltre si evidenzia la portata che ne diede la Summa Trecensis, che la riteneva perfettamente in grado di abrogare ed interpretare la legge del tempo (quindi le era parificata). Tutto ciò nonostante già da Costantino I la consuetudine fosse stata inserita all'ultimo posto di una gerarchia di fonti, dietro anche al diritto naturale ed al diritto positivo del principe. Cosa che evidentemente è stata superata: basta ricordare il suo ruolo nell'ambito del conflitto tra iura propria e ius commune, con essa che dapprima fu il punto di avvio dell'autodeterminazione dei comuni, per poi (dopo la pace di Costanza) divenire la base degli statuti cittadini scritti. Quasi a conferma dell'estraneità della Chiesa da questa "dicotomia" tra effettività e validità, ho notato come sia stato solo dopo la Scuola di Bologna che nacquero le prime fonti ecclesiali, riferite ai fedeli, quindi ad un corpus unico sparso nel mondo, e che inoltre pretendevano di difendere la struttura della stessa Chiesa, dagli attacchi dell'Impero. Leggendo poi l'estratto che ci ha inviato, ho notato lo scetticismo di Calasso nei confronti della dottrina della preminenza germanica nel diritto, di cui tanto abbiamo parlato a lezione, così come il pensiero di Grossi, che individua nel Medioevo un periodo unitario, che egli stesso faticherebbe persino a suddividere tra alto e basso. E' corretto dire che in questo suo documento ho trovato molte conferme di ciò che è stato affrontato nelle lezioni passate, anche per quanto riguarda Von Gierke e la sua opposizione all'individualismo borghese che avrebbe connotato la codificazione tedesca, ed il suo preferire una "unione di compagni".
In riferimento alla lezione del 19 ottobre ho trovato davvero interessante la concezione di comunità e società di Tonnies e di Esposito. Non avendone parlato molto a lezione ho pensato di analizzare come queste due concezioni si relazionano nei due diversi studiosi. Tonnies nella sua opera "Comunità e società" (Gemeinschaft und Gesellschaft) individua due forme di organizzazione sociale, una naturale ed una artificiale, la comunità (gemeinschaft) e la società (Gesellschaft). Queste due forme contraddistinguono due periodi storici diversi : la società pre industriale (dominata dalla partecipazione spontanea e dal senso di appartenenza) e la società industriale (dominata da realtà di scambi e razionalità), quindi sono considerati il punto di partenza delle molteplicità storiche delle formazioni sociali che nei secoli si sono sviluppate. Purtroppo ho tentato di prendere il libro depositato nella biblioteca umanistica ma a causa di alcuni problemi non sono riuscita a prenderlo in prestito, quindi ho cercato su internet alcuni estratti e ho trovato spunti di riflessione interessanti. Secondo Tonnies "La comunita' e' un rapporto reciproco sentito dai partecipanti, fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva. La vita comunitaria e' sentita (implica comprensione, consensus), durevole, intima (confidenziale), esclusiva; al contrario, la vita societaria e' razionale, passeggera, apparente (come tipo di legame), pubblica. Sono forme primitive di comunita': - il rapporto madre-bambino; - il rapporto uomo-donna; - il rapporto tra fratelli. Delle tre forme primitive di comunita', le prime due sono piu' istintive, la terza piu' umana. I rapporti di affermazione reciproca, se positivi, danno origine ad associazioni: la comunita' e' un'associazione organica (sentita dai partecipanti), la societa' e' un'associazione meccanica, artificiale e recente implica delimitazione dei campi di attivita' e prestazioni reciproche di pari entita' (concetti di scambio e valore). La comunita' e' caratterizzata dal diritto familiare, la societa' dal diritto delle obbligazioni.In societa' gli individui rimangono "separati nonostante tutti i legami".
Un estratto della sua opera, a conferma di quanto detto, cita:"La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono" Su google libri non sono riuscita a trovare un estratto del libro di Esposito dove esaurientemente definisca il suo concetto di Communitas, ma ho trovato un libro scritto da Fabio Berti "per una sociologia della comunità" nel quale viene spiegata la concezione di Esposito, ma soprattutto analizzate criticamente le due posizioni, di Tonnies e di Esposito, proponendone un confronto. Esposito critica le posizioni di Tonnies evidenziando come si tenda ad identificare il "comune" con il Proprium, il suo contrario, rendendo comune ciò che unisce in un' unica identità la proprietà di ciascuno dei suoi membri; essi hanno in comune il loro proprio, sono proprietari del loro comune. In realtà per Esposito ciò che è Comune si pone in OPPOSIZIONE al proprio: "comune è ciò che non è proprio e comincia là dove il proprio finisce".
Come potete notare il Comune è oer Esposito quindi ciò che appartiene a più di uno, facendo riferimento a tutto ciò che è "pubblico" in contrapposizione a ciò che è "privato". (Non si basa quindi come per Tonnies su una convivenza intima ed esclusiva) Inoltre Esposito, basandosi su una analisi semantica del termine Communitas, approda ad una caratterizzazione sociale di questo termine: communitas deriva dal termine "munus" che implica un dovere, il "dono" della comunità è quello che si dà perchè si deve dare, e non si può non dare. tratto dalla sua opera "il munus è l'obbligo che si è contratto nei confronti dell'altro... Ciò che prevale è la reciprocità o mutualità" Ne risulta che la "communitas" è un insieme di persone accomunate non dalla proprietà, ma da un dovere, un debito.In realtà quindi la sua comunità non identifica il soggetto che vi appartiene, ma lo svuota. Ecco la rottura con la tradizionale concezione di comunità, che io trovo interessantissima. La comunità ha un doppio volto: è l'unica dimensione nella quale l'uomo si può felicemente adattare, ma è anche una dimensione fortemente caratterizzata da una forza dissolutiva apparente. LA COMUNITà è IL LUOGO DELLA SOLIDARIETà MA ANCHE DEGLI EGOISMI.
Ecco quindi come Tonnies ritiene la comunità un fatto unificante, che accomuna chi possiede la stessa identità tramite un vincolo fortissimo di appartenenza che li separa però irrimediabilmente da chi rimane escluso; mentre come Esposito la ritiene uno spazio pubblico di condivisione e reciprocità, una spinta per l'uono per uscire dal proprio privato ed entrare in contatto con gli altri. Ecco questa duplice visione mi ha colpita, incredibile come nella storia dall'antichità ad oggi l'uomo e gli studiosi si siano posti domande su costruzioni semantiche create dall'uomo stesso, ma ricche di così tante sfumature da creare domande per secoli. P.s mi scuso ma non capisco perchè mi sia venuto scritto tutto largo e pieno di spazi!
Noi abbiamo analizzato quanto contenuto nelle "Mitologie giuridiche della modernità", testo di Grossi, un volumetto che riflette sulla scienza giuridica e sulla "crisi" attuale del diritto. Secondo lui uno storico del diritto deve avere uno sguardo "liberato dall'occhiale di 200 anni di abilissima propaganda": ad esempio, critica la visione imperativistica del diritto, che lo identifica in una norma autoritativa e vincolante, comando di un superiore ad un inferiore e che comporta la perdita della dimensione sapienziale del diritto stesso, perchè una visione simile, da Kelsen specialmente, si manifesta necessariamente in un sistema legislativo, dove la fonte pienamente espressiva di giuridicità è una sola, la legge, che ricava la sua forza non dalla propria sostanza, dal contenuto, ma dal potere politico di chi la crea. La perdita della dimensione sapienziale del diritto porta sia all'esautoramento del ceto di operatori del diritto (giuristi, pratici) ma anche al disconoscimento del carattere immanente del diritto stesso nella società, del fatto che va scoperto e letto nella realtà cosmica e sociale. Lo Stato assicura oggi solo un complesso di garanzie formali, la legge è considerata solo dal punto di vista procedimentale, e il suo contenuto, il problema della giustizia della legge, è solo un fine esterno dell'ordine giuridico. Per Grossi lo storico quindi deve richiamare l'attenzione su esperienze giuridiche concrete in cui la dimensione sapienziale del diritto è ben viva, come il Common Law e il Diritto Comune medievale e postmedievale. In quei secoli, secondo l'autore, "prima c’era il diritto,il potere politico viene dopo". Nella civiltà medievale quindi il diritto riposava negli stati profondi e durevoli della società, il sociale e il giuridico tendevano a fondersi,e la dimensione giuridica non era ridotta a pure forme o comandi: il diritto era nelle mani di un ceto di sapienti che lo decifravano e traducevano. Ora invece "il diritto si è ormai contratto nella legge: un sistema di regole autoritarie, di comandi volutamente astratti e rigidi,insindacabili nel loro contenuto perchè traggono la loro autorità dalla qualità del soggetto legislatore, non dal proprio contenuto di giustizia sostanziale". Grossi segnala anche alcune "mitologie" più dure a morire: l'uguaglianza (una grande conquista, ma incompiuta, bisogna considerare che i cittadini possono essere portatori di disuguaglianze), la rappresentanza politica e la sovranità popolare (sono finzioni per una strategia di controllo della società), la legge (un vaso vuoto che il potere politico può riempire come vuole, una verità indimostrata e indimostrabile). Il giurista, in particolare il giurista storico, deve inforcare occhiali che non riducano l'interpretazione ad una dimensione solo conoscitiva, perchè si deve compiere una revitalizzazione del diritto stesso, e l'interpretazione è l'unico strumento che permette di sottrarre il diritto dalla visione potestativa ed autoritaria, intendendo la normazione non come un procedimento che si esaurisce nella produzione di norme, ma che continua necessariamente nel momento ermeneutico.
Della lezione del 19 ottobre mi ha particolarmente suscitato interesse le concezioni del Prof.Paolo Grossi,cossicché ho ascoltato la prolusione all'anno accademico 2010\2011 dell'università di Ferrara,reperibile su YouTube.Grossi nel sostenere la sua tesi secondo la quale il referente necessario del diritto non è lo Stato ma è la società prende atto del fatto tuttavia che ciò che ha connotato lo Stato Moderno,il cui emblema può essere considerato la figura di Napoleone,è che il diritto era monopolio del potere politico.Tutte le regole che vincolavano i cittadini promanavano dallo Stato.L'evento,sostiene Grossi,che ha mutato questo sistema è stato la rivoluzione industriale tra i cui effetti vi è stato quello di far emergere le formazioni sociali.La società insomma ricomincia ad imporsi sullo Stato.Il giurista che ha per primo colto questo fenomeno è Santi Romano che nel 1909 pronuncia un discorso nell'ateneo di Pisa che lo intitola lo "Stato moderno e la sua crisi".Romano ritiene che la crisi sta nel collettivo che si ingigantisce,nelle formazioni sociali che ricominciano a rivendicare il loro potere sottraendolo di conseguenza allo Stato.Alla luce di questo discorso quello che mi chiedo è se questo sparire e riemergere delle formazioni sociali e di conseguente aumento e riduzione del potere concentrato nelle mani dello Stato,sia un fenomeno ciclico,che si ripete costantemente nella Storia ho possiamo considerare lo Stato moderno solo una parentesi?
RispondiEliminaleggendo il terzo capitolo del "Manifeto del partito comunista" intitolato "Letteratura socialista e comunista" Marx ed Engels distinguono tre forme di socilismo: quello che definiscono reazionario,quello conservatore borghese e quello critico-utopista.All'interno della prima forma troviamo tre ulteriori sotto-correnti:il socialismo feudale,il socialismo piccolo borghese e il socialismo tedesco,ossia il "vero" socialismo.La letteratura socialista di quest'ulima categoria è per Marx importata dalla Francia,paese nel quale,a differenza della Germania,la borghesia dominava e la lotta contro il suo dominio era in uno stato avanzato.Il rilievo particolare di tale "appropriazione" risiede nel fatto che i letterati tedeschi riprendono le idee francesi a partire dal loro punto di vista filosofico.Cosi per esempio la critica francese dello stato borghese diventa "il superamento del dominio dell'univesalità astratta".Mi sembra un discorso che ha delle analogie con il metodo dei gemanisti,allievi di Savigny,di guardare il diritto romano con posseso,come uno strumento;anche se Marx rimprovera ai soggtti cui è rivolta la sua invettiva di essersi fatti interpreti del bisogno di verità e degli interessi dell'essere umano in quanto tale.
RispondiEliminaProseguendo l'analisi,la lotta della borghesia tedesca diviene aspra,il "vero" socialismo ha l'occasione di manifestare le proprie rivendicazioni contro il liberalismo, lo Stato rappresentativo e la concorrenza borghese.Anche questo elemento è emerso a lezione.Cosi il socialismo borghese diviene il rappresentante della piccola borghesia tedesca che costituiva il tessuto sociale della Germania e classe sociale colpita dall'avvento della rivoluzione industriale.Quello che Marx considera una sudicia riedizione della letteratura socialista francese non può forse invece trovare l'ispirazione dall'idea di genossensschaft di Von Gierke,cioè l'idea di una comunità di compagni indipedente dall'astratezza dello Stato che strida con l'individualismo della società borghese e nella quale non tutti i beni possono considerarsi uguali.
In riferimento alla lezione del 19 ottobre mi ha incuriosito il pensiero di Paolo Grossi e ho deciso di reperire in biblioteca il suo libro “L’ordine giuridico medievale”. Leggendo qualche capitolo mi ha colpito la sua concezione sul significato del diritto comune. Paolo Grossi precisa che il diritto comune si incarna e si identifica nella interpretatio: in altri termini esso ha una dimensione sostanzialmente scientifica, in quanto rappresenta il prodotto della scienza che lo elabora sotto il presidio di un testo autoritativo. Il diritto comune si scandisce e si combina in due momenti inscindibili: il momento di validità rappresentato dal Corpus iuris civilis e dal Corpus iuris canonici, e il momento di effettività rappresentato dalla costruzione dottrinale. L’interpretatio e’ dichiarazione, ma anche integrazione, correzione e modificazione del testo. Per esempio, l’opinione di Bartolo non ha carattere normativo; ha invece carattere normativo la intepretatio bartoli come congiunzione fra un testo autoritativo e una costruzione dottrinale, fra momento di validita’ e momento di effettivita’. Il diritto comune quindi non si presenta come esegesi di un complesso testuale, ma interpretatio e non costituisce la prosecuzione in terreno medievale dell’antico diritto romano, in quanto il suo contenuto sono i fatti del tempo medievale che grazie ai tramiti della consuetudine e dell’equità sono fonte anche formale.
RispondiEliminaPaolo Grossi sostiene che insistere come ha fatto Francesco Calasso sul carattere legislativo del diritto comune, ossia qualificarlo come un complesso di leggi o come un sistema legislativo e’ errato in quanto rischia di esiliare e immiserire tutto lo sforzo scientifico in una riduttiva attività di esegesi testuale. L’errore maggiore del Calasso consiste nel non essere riuscito a pensare il diritto senza Stato, a pensarlo quindi senza avere a fondazione necessaria la manifestazione di volontà testuale, e quindi la legge. Il diritto comune invece per il Grossi ha a fondamento il diritto divino proveniente dall’unico sovrano che la civiltà giuridica medievale riconosce nella sua assolutezza potestativa. Solo in questo senso possiamo riconoscere come caratterizzante per il diritto comune la qualificazione di legislativo.
Riguardo al rapporto tra diritto comune e diritti particolari si debbono porre due premesse chiarificatrici l’una riguardante il diritto statutario, l’altra il diritto comune. Il diritto statutario indica la somma delle normazioni particolari dei comuni, costituisce quelle consolidazioni di consuetudini locali espressione della vita giuridica locale. Lo statuto infatti non costituisce un prodotto astratto ed isolato, ma si considera in stretta dialettica con la presenza universale dello ius commune. Il diritto comune costituisce invece il diritto, lo ius, un patrimonio di principi, nozioni ed espedienti universali fondati sulla ragionevolezza.
La corretta visione della complessa esperienza giuridica medievale che appare in pieno Duecento è pluriordinamentale: esistono molteplici ordinamenti concorrenti che non chiedono legittimazioni all’esterno ma che si auto legittimano in quanto espressioni spontanee della dimensioni del sociale. Tutto questo non costituisce diritto: non esistono giuridicita’ di grado superiore e inferiore e tantomeno una gerarchia delle fonti, ma piuttosto un gioco di rapporti fra ordinamenti che convivendo e covigendo si comprimono nella vita giuridica. Secondo Calasso il diritto comune si presenta quale sistema legislativo e nella sua ricostruzione teorica quell’ancoraggio ossessivo all’Impero, quel costituire la ratio Imperii quale fondamento di legittimazione del diritto comune appare inappagante in quanto artificioso e forzoso. In conclusione il diritto comune in cui la universalita’ e’ null’altro che il riflesso della sua intima razionalita’ ha delle straordinarie capacita’ ordinanti e una forza espansiva unica: esso rappresenta il diritto e come tale incarna la pura razionalita’ giuridica.
Leggendo “L’ordine Giuridico medievale”, mi ha particolarmente colpito la struttura del libro adottata da Grossi:
RispondiEliminaGià dall’introduzione, Grossi, chiarisce : “non è un manuale esaustivo di diritto medievale, non è un serbatoio ricco di date e notizie”.
Infatti confrontandolo con il libro di Cortese o con il libro di Padoa Schioppa la divisione del libro è completamente diversa:
Pur essendo diviso in due macro aree (officina della prassi e il laboratorio sapienza), che si susseguono cronologicamente, come avviene nel Cortese, non troviamo una divisione capillare di ogni singola fase che ci dimostra una evoluzione lenta e progressiva, ma un continuum che coinvolge tutto il medioevo estraniandolo dal prima e dal dopo.
Sempre nell’introduzione chiarisce “Il diritto medievale deve essere fin ora percepito dal lettore come in pianeta giuridico separato e conchiuso, segnato da una sostanziale discontinuità col e col , e segnato da una sua compiutezza”.
Negando, così, ogni filo conduttore che intercorre tra il diritto romano ( che viene visto solo come fonte di autorevolezza in un diritto senza Stato fatto dal principe dotato di iurisdictio) e diritto medievale e tra diritto medievale e diritto moderno.
Pur parlando della Chiesa e di diritto canonico, non approfondisce i singoli eventi che hanno portato ad una determinata evoluzione del diritto, e lo stesso avviene per le “figure dell‘esperienza”.
Grossi basa tutta la sua trattazione sul “non-Stato” medievale che fa risalire da Diocleziano in poi.
Sono rimasta anch'io piuttosto colpita, durante la scorsa lezione, da quanto detto in merito al pensiero di Paolo Grossi e siccome non ho avuto la possibilità di reperire il libro "L'ordine giuridico medievale" in biblioteca, mi sono messa a cercare qualcosa su internet. Con un po' di fortuna sono riuscita a trovare una Relazione di Paolo Grossi intitolata "Il sistema giuridico medievale e la società comunale" redatta in occasione di un Convegno svoltosi a Pistoia nel 2005. Vorrei riportare qualche passaggio di tale relazione molto significativo, a mio avviso, con riferimento a quanto detto Mercoledì scorso.
RispondiElimina"E affiora qui un grosso problema di ìndole epistemologica, uno dei tanti
che rendono esaltante ma arduo il mestiere dello storico del diritto: fino a ieri
come si è guardato alla giuridicità medievale? Certamente, con occhi moderni,
dal momento che lo storico non può e non deve rinnegare la consapevolezza
proveniente dalla sua “attualità”. Ma quegli occhi moderni si sono arrestati a
una doverosa e rispettosa comparazione interiore fra civiltà diverse fondate
su valori diversi? Sono stati portatori di rispetto e disponibilità verso la cifra
medievale del diritto e, con parole più stringenti, hanno tentato di giungere al
miracolo della comprensione, quel miracolo che permette proprio allo storico
di risuscitare i morti? [...]
La mia convinzione, ripetuta insistentemente in parecchi contributi, è che si sia fino a ieri guardato al medio evo giuridico senza la totale disponibilità ad ascoltare il suo autentico messaggio, ma anzi cedendo alla facile tentazione di operare senza un rigoroso vaglio epistemologico trapianti di schemi interpretativi estranei, e pertanto forzosi, e pertanto inidonei a raggiungere il
risultato della comprensione. [...]
Spieghiàmoci meglio. Non è senza giustificazione l’identificazione del
diritto in un artificio e anche in una costrizione per il libero espandersi delle
forze storiche, se si proiettano sulla civiltà medievale creature che la modernità
si è costruita a sua misura, che l’evo precedente ignorava e che àlterano pertanto
un reale meccanismo di comprensione. Ciò tanto più si avverte, quando le
“invenzioni” moderne non soltanto sono ignorate ma risultano intimamente
ripugnanti alla visione medievale del diritto.
Dando un vólto più definito a queste generiche osservazioni, il riferimento è
soprattutto all’uso disinvolto che si fa di due termini (e nozioni) di straordinaria
pesantezza contenutistica: Stato e sovranità."
A questo punto Grossi spende diverse righe per spiegare il significato MODERNO della nozione di Stato e termina il paragrafo con questo interrogativo: possiamo
trapiantare la nozione di “Stato” nella civiltà medievale? E la risposta di Grossi é: Sì, ma con un costo troppo esoso di equivoci e di fraintendimenti, che arrivano
a distorcere la nostra comprensione storiografica. Giacché
è rischioso guardare al medio evo con occhi che non riescano a deporre degli
occhiali messi a fuoco sulla modernità: l’immagine non ne può che risultare
deformata.
E’ stato per me di grande interesse leggere Il compito sociale del diritto privato di Otto von Gierke. Gierke, nell’incipit, afferma che la Germania si trova a un punto di svolta (Wendepunkt), nel campo del diritto privato: la pubblicazione delle bozze del BGB (siamo nel 1889). Proprio per questo è opportuno sostiene Gierke, occuparsi di ciò che il diritto dovrebbe essere e, in particolare, indagare quale sia in definitiva il compito del diritto privato.
RispondiEliminaGià i Romani avevano cercato di darne una definizione, sostenendo tramite la bocca di Ulpiano che si trattava di uno “ius, quod ad singulorum utilitatem spectat”, mentre il diritto pubblico era invece uno “ius, quod ad statum rei romanae spectat”.
I Romani sono stati quindi sostenitori di una concezione del diritto in cui il pubblico si contrappone al privato, l’individuo vive per se stesso ma è comunque parte della comunità.
I Germani, invece, sono stati portatori di un’idea del diritto più ampia e profonda, pur non conoscendo la distinzione tra pubblico e privato o, forse, proprio per questo.
Gierke, infatti, da un lato si dichiara contro un diritto pubblico assolutistico, dall’altro prende posizione contro un diritto privato individualistico. Se nel diritto pubblico devono essere presenti le libertà del diritto naturale, anche nel diritto privato deve esserci una “goccia” di sociale.
Nello stesso periodo in cui opera Gierke, la Germania è guidata da Bismarck che, seguendo le idee del socialismo riformista di Ferdinand Lassalle, si fa promotore di una legislazione avanzata nel campo della previdenza sociale. Gierke indirettamente critica anche questa impostazione, in quanto ritiene che quella di Bismarck sia esclusivamente una legislazione speciale mentre in realtà è l’intero sistema del diritto privato che deve essere pervaso da una finalità sociale.
Non ci può essere diritto senza doveri, e così la proprietà deve incontrare dei limiti, il diritto di famiglia è improntato ad una intensa coesione e bisogna recuperare quegli istituti giuridici, quali il mundio, che sono profondamente radicati nell’identità nazionale tedesca. L’idea di Genossenschaft di Gierke si fonda sulla solidarietà tra le diverse classi sociali che non è e non può essere imposta dallo Stato (come invece si verificherà in Italia nell’ordinamento corporativo fascista che pure rifiuta la contrapposizione tra capitale e lavoro propugnata da Marx) ma scaturisce dalla intima consapevolezza dei singoli individui della propria appartenenza al Volk .
Ho avuto modo di leggere il libro di Grossi "L'ordine giuridico medievale" e, pur saltando alcune parti, ho trovato menzione della suddivisione in periodi di cui avevamo parlato a lezione; cioè il periodo dell'effettività e quello della validità. Principalmente, ho cercato di individuare il ruolo della consuetudine, soprattutto nel periodo dell'effettività, notando come l'autore le dia una certa importanza, affermando che essa "esprime a livello giuridico i fatti fondamentali del sangue, della terra, del tempo". Inoltre si evidenzia la portata che ne diede la Summa Trecensis, che la riteneva perfettamente in grado di abrogare ed interpretare la legge del tempo (quindi le era parificata). Tutto ciò nonostante già da Costantino I la consuetudine fosse stata inserita all'ultimo posto di una gerarchia di fonti, dietro anche al diritto naturale ed al diritto positivo del principe. Cosa che evidentemente è stata superata: basta ricordare il suo ruolo nell'ambito del conflitto tra iura propria e ius commune, con essa che dapprima fu il punto di avvio dell'autodeterminazione dei comuni, per poi (dopo la pace di Costanza) divenire la base degli statuti cittadini scritti.
RispondiEliminaQuasi a conferma dell'estraneità della Chiesa da questa "dicotomia" tra effettività e validità, ho notato come sia stato solo dopo la Scuola di Bologna che nacquero le prime fonti ecclesiali, riferite ai fedeli, quindi ad un corpus unico sparso nel mondo, e che inoltre pretendevano di difendere la struttura della stessa Chiesa, dagli attacchi dell'Impero.
Leggendo poi l'estratto che ci ha inviato, ho notato lo scetticismo di Calasso nei confronti della dottrina della preminenza germanica nel diritto, di cui tanto abbiamo parlato a lezione, così come il pensiero di Grossi, che individua nel Medioevo un periodo unitario, che egli stesso faticherebbe persino a suddividere tra alto e basso.
E' corretto dire che in questo suo documento ho trovato molte conferme di ciò che è stato affrontato nelle lezioni passate, anche per quanto riguarda Von Gierke e la sua opposizione all'individualismo borghese che avrebbe connotato la codificazione tedesca, ed il suo preferire una "unione di compagni".
In riferimento alla lezione del 19 ottobre ho trovato davvero interessante la
RispondiEliminaconcezione di comunità e società di Tonnies e di Esposito. Non avendone parlato
molto a lezione ho pensato di analizzare come queste due concezioni si
relazionano nei due diversi studiosi.
Tonnies nella sua opera "Comunità e società" (Gemeinschaft und Gesellschaft)
individua due forme di organizzazione sociale, una naturale ed una artificiale,
la comunità (gemeinschaft) e la società (Gesellschaft). Queste due forme
contraddistinguono due periodi storici diversi : la società pre industriale
(dominata dalla partecipazione spontanea e dal senso di appartenenza) e la
società industriale (dominata da realtà di scambi e razionalità), quindi sono
considerati il punto di partenza delle molteplicità storiche delle formazioni
sociali che nei secoli si sono sviluppate. Purtroppo ho tentato di prendere il
libro depositato nella biblioteca umanistica ma a causa di alcuni problemi non
sono riuscita a prenderlo in prestito, quindi ho cercato su internet alcuni
estratti e ho trovato spunti di riflessione interessanti.
Secondo Tonnies "La comunita' e' un rapporto reciproco sentito dai
partecipanti, fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva.
La vita comunitaria e' sentita (implica comprensione, consensus), durevole,
intima (confidenziale), esclusiva; al contrario, la vita societaria e'
razionale, passeggera, apparente (come tipo di legame), pubblica.
Sono forme primitive di comunita':
- il rapporto madre-bambino;
- il rapporto uomo-donna;
- il rapporto tra fratelli.
Delle tre forme primitive di comunita', le prime due sono piu' istintive, la
terza piu' umana.
I rapporti di affermazione reciproca, se positivi, danno origine ad
associazioni: la comunita' e' un'associazione organica (sentita dai
partecipanti), la societa' e' un'associazione meccanica, artificiale e recente
implica delimitazione dei campi di attivita' e prestazioni reciproche di pari
entita' (concetti di scambio e valore).
La comunita' e' caratterizzata dal diritto familiare, la societa' dal diritto
delle obbligazioni.In societa' gli individui rimangono "separati nonostante
tutti i legami".
Un estratto della sua opera, a conferma di quanto detto, cita:"La teoria della
RispondiEliminasocietà riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che
solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in
essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però,
mentre nella comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori
che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i
fattori che li uniscono"
Su google libri non sono riuscita a trovare un estratto del libro di Esposito
dove esaurientemente definisca il suo concetto di Communitas, ma ho trovato un
libro scritto da Fabio Berti "per una sociologia della comunità" nel quale
viene spiegata la concezione di Esposito, ma soprattutto analizzate
criticamente le due posizioni, di Tonnies e di Esposito, proponendone un
confronto.
Esposito critica le posizioni di Tonnies evidenziando come si tenda ad
identificare il "comune" con il Proprium, il suo contrario, rendendo comune ciò
che unisce in un' unica identità la proprietà di ciascuno dei suoi membri; essi
hanno in comune il loro proprio, sono proprietari del loro comune.
In realtà per Esposito ciò che è Comune si pone in OPPOSIZIONE al proprio:
"comune è ciò che non è proprio e comincia là dove il proprio finisce".
Come
RispondiEliminapotete notare il Comune è oer Esposito quindi ciò che appartiene a più di uno,
facendo riferimento a tutto ciò che è "pubblico" in contrapposizione a ciò che
è "privato". (Non si basa quindi come per Tonnies su una convivenza intima ed
esclusiva)
Inoltre Esposito, basandosi su una analisi semantica del termine Communitas,
approda ad una caratterizzazione sociale di questo termine: communitas deriva
dal termine "munus" che implica un dovere, il "dono" della comunità è quello
che si dà perchè si deve dare, e non si può non dare. tratto dalla sua opera
"il munus è l'obbligo che si è contratto nei confronti dell'altro... Ciò che
prevale è la reciprocità o mutualità"
Ne risulta che la "communitas" è un insieme di persone accomunate non dalla
proprietà, ma da un dovere, un debito.In realtà quindi la sua comunità non
identifica il soggetto che vi appartiene, ma lo svuota.
Ecco la rottura con la tradizionale concezione di comunità, che io trovo
interessantissima. La comunità ha un doppio volto: è l'unica dimensione nella
quale l'uomo si può felicemente adattare, ma è anche una dimensione fortemente
caratterizzata da una forza dissolutiva apparente. LA COMUNITà è IL LUOGO DELLA
SOLIDARIETà MA ANCHE DEGLI EGOISMI.
Ecco quindi come Tonnies ritiene la comunità un fatto unificante, che accomuna
RispondiEliminachi possiede la stessa identità tramite un vincolo fortissimo di appartenenza
che li separa però irrimediabilmente da chi rimane escluso; mentre come
Esposito la ritiene uno spazio pubblico di condivisione e reciprocità, una
spinta per l'uono per uscire dal proprio privato ed entrare in contatto con gli
altri.
Ecco questa duplice visione mi ha colpita, incredibile come nella storia
dall'antichità ad oggi l'uomo e gli studiosi si siano posti domande su
costruzioni semantiche create dall'uomo stesso, ma ricche di così tante
sfumature da creare domande per secoli.
P.s mi scuso ma non capisco perchè mi sia venuto scritto tutto largo e pieno di spazi!
Noi abbiamo analizzato quanto contenuto nelle "Mitologie giuridiche della modernità", testo di Grossi, un volumetto che riflette sulla scienza giuridica e sulla "crisi" attuale del diritto. Secondo lui uno storico del diritto deve avere uno sguardo "liberato dall'occhiale di 200 anni di abilissima propaganda": ad esempio, critica la visione imperativistica del diritto, che lo identifica in una norma autoritativa e vincolante, comando di un superiore ad un inferiore e che comporta la perdita della dimensione sapienziale del diritto stesso, perchè una visione simile, da Kelsen specialmente, si manifesta necessariamente in un sistema legislativo, dove la fonte pienamente espressiva di giuridicità è una sola, la legge, che ricava la sua forza non dalla propria sostanza, dal contenuto, ma dal potere politico di chi la crea. La perdita della dimensione sapienziale del diritto porta sia all'esautoramento del ceto di operatori del diritto (giuristi, pratici) ma anche al disconoscimento del carattere immanente del diritto stesso nella società, del fatto che va scoperto e letto nella realtà cosmica e sociale. Lo Stato assicura oggi solo un complesso di garanzie formali, la legge è considerata solo dal punto di vista procedimentale, e il suo contenuto, il problema della giustizia della legge, è solo un fine esterno dell'ordine giuridico. Per Grossi lo storico quindi deve richiamare l'attenzione su esperienze giuridiche concrete in cui la dimensione sapienziale del diritto è ben viva, come il Common Law e il Diritto Comune medievale e postmedievale. In quei secoli, secondo l'autore, "prima c’era il diritto,il potere politico viene dopo". Nella civiltà medievale quindi il diritto riposava negli stati profondi e durevoli della società, il sociale e il giuridico tendevano a fondersi,e la dimensione giuridica non era ridotta a pure forme o comandi: il diritto era nelle mani di un ceto di sapienti che lo decifravano e traducevano. Ora invece "il diritto si è ormai contratto nella legge: un sistema di regole autoritarie, di comandi volutamente astratti e rigidi,insindacabili nel loro contenuto perchè traggono la loro autorità dalla qualità del soggetto legislatore, non dal proprio contenuto di giustizia sostanziale". Grossi segnala anche alcune "mitologie" più dure a morire: l'uguaglianza (una grande conquista, ma incompiuta, bisogna considerare che i cittadini possono essere portatori di disuguaglianze), la rappresentanza politica e la sovranità popolare (sono finzioni per una strategia di controllo della società), la legge (un vaso vuoto che il potere politico può riempire come vuole, una verità indimostrata e indimostrabile).
RispondiEliminaIl giurista, in particolare il giurista storico, deve inforcare occhiali che non riducano l'interpretazione ad una dimensione solo conoscitiva, perchè si deve compiere una revitalizzazione del diritto stesso, e l'interpretazione è l'unico strumento che permette di sottrarre il diritto dalla visione potestativa ed autoritaria, intendendo la normazione non come un procedimento che si esaurisce nella produzione di norme, ma che continua necessariamente nel momento ermeneutico.